Scritto da Giacomo Bottos
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Il fenomeno delle fake news è stato al centro di discussioni e polemiche negli ultimi anni. Ma si tratta in realtà solo di un aspetto di una questione più ampia, che ha a che fare con la disinformazione e con lo stato di salute della nostra sfera pubblica. Abbiamo affrontato queste tematiche con Antonio Nicita, a partire dal suo ultimo libro: Il mercato delle verità. Come la disinformazione minaccia la democrazia, edito da il Mulino.
Antonio Nicita è Professore ordinario di Politica economica presso l’Università Lumsa di Roma, membro del Regulatory Scrutiny Board della Commissione Europea e Presidente della Scuola di Politiche (SdP). È stato Commissario dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni; docente di Politica Economica presso l’Università “La Sapienza” di Roma e visiting scholar all’Università di Cambridge, all’European University Institute nonché Fulbright Visiting Professor all’Università di Yale. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Regulating Digital Markets (con A. Manganelli, Palgrave MacMillan 2021), Evidence-Based Policy! (con G. de Blasio e F. Pammolli, il Mulino 2021) e Big Data (con M. Delmastro, il Mulino 2019).
Spesso, negli ultimi anni, a giocare un ruolo centrale nel dibattito è stato il tema delle fake news. Il termine al centro del libro Il mercato delle verità è, invece, il concetto più ampio di disinformazione. Cosa si intende con questo concetto? Cos’è la disinformazione e perché è importante occuparsene oggi?
Antonio Nicita: La diffusione del termine fake news si deve, principalmente, all’uso che ne fece il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump quando accusò i principali network nazionali e i giornali più accreditati di costruire notizie false contro di lui. Nel 2017 “fake news” fu la parola dell’anno del Dizionario Collins. C’è una differenza tuttavia tra singola notizia falsa e strategie di disinformazione. Queste ultime si riferiscono a tutte quelle informazioni false (ma suscettibili di essere recepite come vere e costruite in modo tale da favorirne la percezione di verosimiglianza), deliberatamente create per danneggiare una persona, un gruppo sociale, un’organizzazione o un Paese, o per affermare/screditare una tesi. Si tratta di una costruzione ripetuta e convergente di singole “notizie” false consapevolmente, intenzionalmente e strategicamente diffuse per scopi politici, ideologici o commerciali. A volte con effetti drammatici sulla vita delle persone. Si tratta di fenomeni di cui, con la pandemia prima e la guerra in Ucraina poi, abbiamo visto tutta la devastante portata e che ci hanno restituito un’immagine di fragilità delle odierne democrazie, nella costruzione del dibattito pubblico e nella formazione dell’opinione pubblica.
Non è possibile considerare la disinformazione come un fenomeno antico? Quali sono, a questo proposito, gli elementi di novità della fase attuale?
Antonio Nicita: La questione della disinformazione non è certamente nuova (la storia ci consegna numerose fake news artatamente diffuse al fine di disinformare) e non è esclusivamente collegata al web: basta accendere la tv o visionare le prime pagine dei giornali in edicola, per trovare esempi di “verità alternative”. Ma è davvero un paradosso che la questione disinformazione torni così centrale nell’epoca della digitalizzazione delle informazioni e dell’accesso più libero, rapido e decentralizzato ad esse, mai conosciuto dall’umanità. Il web non ha certo causato la disinformazione ma paradossalmente, proprio l’esplosione della concorrenza tra moltissime fonti informative, dal lato dell’offerta di informazioni, può finire per spingere la domanda sulla rete verso scorciatoie selettive, algoritmiche e cognitive. Il fatto nuovo, oggi, è che da un lato il web non è un “media” e dunque sfugge alle normative e ai codici deontologici sulla responsabilità editoriale e sulla promozione del pluralismo. Dall’altro, la manipolazione operata attraverso la profilazione algoritmica è talmente sofisticata da non esser più percepita e riconosciuta come elemento di propaganda dai destinatari inconsapevoli, con ciò abbassando le difese, le resistenze e le distanze di lettori e telespettatori nella fruizione di notizie e contenuti di vario genere.
L’espressione “mercato delle verità” si pone per certi aspetti in antitesi al modello di una sfera pubblica nella quale la libertà di espressione dà origine ad un dibattito costruttivo capace di sortire effetti positivi per la società nel suo complesso. Quali sono i tratti essenziali del modello del “mercato delle verità”?
Antonio Nicita: Nel mercato delle idee immaginato dai pensatori liberali, il consumatore ideal-tipico sa sempre dirigersi verso l’offerta informativa migliore, selezionando – con l’aiutino della mano invisibile – l’informazione veritiera e non distorta. Ne consegue che l’equilibrio finale sul mercato delle idee (quanta informazione viene offerta e scambiata e di che tipo) dipenderebbe esclusivamente dalle strategie degli operatori attivi dal lato dell’offerta. Secondo l’impostazione di Mill, ripresa dalla dottrina Holmes che ha forgiato la giurisprudenza della Corte suprema degli Stati Uniti, ci sarebbe una prelazione precisa tra libertà (d’espressione) e verità (dei fatti). Il libero scambio nel mercato delle idee produrrebbe la verità. Anzi, per Holmes, il primo emendamento, tutelando la libertà d’espressione, tutelerebbe in realtà un processo popperiano di scoperta della verità nella società. In realtà, una vasta letteratura anche empirica ci ha mostrato che la domanda di informazione non è affatto neutrale o automaticamente orientata al miglior prodotto informativo. La domanda di informazione è spesso distorta e influenzata, in modo più o meno volontario, da condizionamenti di vario tipo: alcuni indotti da suggestioni o manipolazioni dal lato dell’offerta, altri alimentati da distorsioni cognitive o da scorciatoie mentali che aiutano a selezionare i contenuti in un contesto di overload informativo. Si finisce così per cercare le informazioni e le notizie più aderenti alle risposte che si desiderano. Inoltre, in rete il filtro selettivo degli algoritmi finisce per accelerare questi fenomeni. Si affermano sempre più tante “isole informative” in cui persone che la pensano alla stessa maniera si incontrano, si polarizzano, si “radicalizzano”, rafforzando una identità che viene definita a partire dalla differenza con gli altri gruppi. E quando, per caso, il confronto avviene, esso può finire per accelerare anziché ridurre le spinte verso la polarizzazione e le prese di posizione sempre più estreme su ogni tema. Tutto questo comporta la trasformazione del mercato delle idee in mercato delle verità: quel luogo in cui la libertà d’espressione non solo non è più lo strumento selettivo-evolutivo della verità, ma diventa anzi un moltiplicatore di verità monopolistiche e alternative, grazie al quale ognuno compra e offre verità, crea il proprio gruppo, assume una identità, si isola dagli altri. Nel mercato delle verità si comprano e vendono fatti verosimili in funzione delle emozioni che sanno suscitare e delle nostre verità desiderate.
Cosa si deve intendere con il termine post-verità, che ha avuto grande fortuna negli ultimi anni? È un termine che aggiunge qualcosa rispetto ad altri concetti affini preesistenti?
Antonio Nicita: Anche questo termine – come fake news – è assurto all’onore di parola dell’anno (in questo caso era il 2016 ed era Oxford Dictionary), post-verità si riferirebbe «a circostanze nelle quali i fatti obiettivi sono meno rilevanti nel formare l’opinione pubblica rispetto al richiamo a emozioni e convinzioni personali». Questa definizione evidenzia tre elementi distintivi: il superamento della rilevanza dei fatti nell’affermazione di una data verità; il ruolo delle pregresse convinzioni personali nella formazione dell’opinione pubblica; la relazione tra emozioni e convinzioni personali nella (successiva) costruzione di una verità fattuale. In poche parole, “scegliamo” i fatti, o li reputiamo “verosimili”, in funzione delle emozioni che suscitano in noi. Si tratta di un passo in avanti che suggerisce un contesto più complesso del banale proliferare delle bugie o delle notizie false. Nel paradigma della post-verità c’è la ricerca, la difesa, la diffusione della verità desiderata. Dove qui il termine “desiderio” si riferisce, appunto, alla sfera emozionale. Non solo a ciò che crediamo sia vero ma a ciò che vorremmo fosse vero perché finirebbe per confermare la nostra visione di come vanno o dovrebbero andare le cose. La post-verità sembra esser diventata una forma di negazionismo diffuso, sostenuto dalle emozioni e allergico alla fatica del confronto con l’evidenza. Insomma: se non ci credo, non è vero. E viceversa.
A cosa è principalmente da attribuire la crescente polarizzazione del dibattito sul web, e più in generale nell’ecosistema informativo? A caratteristiche dell’evoluzione strutturale dei media – in particolare dei social network –, a nuove strategie da parte degli attori o, infine, a dinamiche socioeconomiche? O si tratta di una combinazione di questi e di altri fattori?
Antonio Nicita: Sicuramente ad una combinazione di questi fattori. Paradossalmente, è proprio l’esplosione della concorrenza tra moltissime fonti informative, dal lato dell’offerta di informazioni, a spingere la domanda verso scorciatoie selettive, algoritmiche e cognitive. In questa spinta alla selezione, vincono l’algoritmo e il contenuto che meglio riescono a ingaggiare la nostra scarsa attenzione. Più è efficiente l’algoritmo e più le nostre domande vengono anticipate dall’offerta; i tempi di ricerca sono infinitesimali e la stessa fatica di pensare a ciò che ci piace può essere delegata a qualcun altro che già sa: l’algoritmo, appunto. Dobbiamo, tuttavia, ancora capire bene la relazione tra polarizzazione e profilazione. Alcuni studi empirici evidenziano come la polarizzazione cresca online. Altri studi negano questo effetto, suggerendo una relazione causale opposta, per cui i soggetti già polarizzati si dirigerebbero verso certi contenuti. Alcuni studi sul comportamento degli utenti che cercano informazioni sul web mostrano la predisposizione a concentrarsi su alcuni punti focali dei risultati, con una rilevante perdita d’attenzione dopo la lettura dei primi che sono quelli che l’algoritmo suggerisce per noi. Il web da finestra privilegiata sul mondo rischia così di trasformarsi nello specchio delle nostre brame che ci rimanda indietro, immediatamente, ciò che noi siamo, ciò che noi vogliamo. Questa fragilità della domanda di informazioni, come abbiamo visto, è quella che costituisce il terreno più fertile per la diffusione di strategie di disinformazione e per la polarizzazione del discorso pubblico nell’infosfera digitale.
Esiste una libertà di mentire? Che cos’è la verità in relazione al discorso pubblico e quale spazio e ruolo deve a suo avviso avere?
Antonio Nicita: Certamente esiste e contrastare le strategie di disinformazione non deve affatto voler dire limitare la libertà di mentire. Ci mancherebbe altro. A questa conclusione, per esempio, è arrivata anche la Corte Suprema dello Stato di Washington, in una famosa sentenza del 2007 che ritenne costituzionalmente protetta la libertà di mentire dei politici (anche in relazione ai propri avversari), riaffermando il diritto di un candidato di fare affermazioni false sul conto del suo avversario, nel corso di una campagna elettorale. Fu una decisione che spaccò in due la Corte, cinque a quattro. Uno dei principali punti di dissenso riguardava l’interpretazione di un vecchio caso (New York Times Co. v. Sullivan) affrontato dalla Corte Suprema degli Stati Uniti: sanzionare affermazioni false è compatibile con il primo emendamento solo se tali affermazioni contengono elementi diffamatori? La risposta della maggioranza fu positiva. Mentre, per i giudici che votarono in dissenso, una deliberata menzogna nel dibattito politico non avrebbe dovuto essere protetta dal primo emendamento giacché «questo tipo di bugie non fanno avanzare il libero processo politico ma piuttosto lo sovvertono». Eppure, abbiamo legislazioni che, a proposito dell’efficacia di un prodotto antirughe o dimagrante o dell’apporto calorico di una bibita, verificano la veridicità di una campagna pubblicitaria ai fini della sua eventuale ingannevolezza, escludendo da tale controllo la parte del messaggio pubblicitario o di propaganda che contenga una libera opinione circa la lettura di quei fatti. La libertà di mentire non è messa in discussione nemmeno da chi si occupa di studiare gli effetti delle strategie di disinformazione. Semmai l’accento è posto sulla relazione tra libertà e responsabilità (e, dunque, sulla distinzione, spesso oggetto di equivoco, tra liberty e license, cioè esenzione di responsabilità). L’esercizio di quella libertà, in altri termini, non rende esente chi diffonda falsità dalle conseguenze che ne derivano ad esempio in relazione alla diffamazione altrui, alla violazione dell’altrui dignità (nei Paesi che dispongono di legislazioni contro i «discorsi d’odio») o nel generare, consapevolmente, rischi per altri. Il problema si pone, quindi, sul rapporto tra informazione e fiducia da un lato, e tra diritti e doveri dall’altro. Per Hannah Arendt, per esempio, uno dei limiti alla libertà di mentire nella «sfera» pubblica, cioè nell’ambito legato alle decisioni politiche – e dunque anche alla formazione dell’opinione pubblica – è il rapporto con la verità dei fatti.
Quale ruolo possono e dovrebbero ricoprire gli intellettuali nella sfera pubblica?
Antonio Nicita: Tema molto importante. Occorre innanzitutto capire come il meccanismo mediatico possa amplificare o distorcere certi messaggi. La semplificazione della comunicazione online non aiuta l’approfondimento e genera molti equivoci. Lo stiamo osservando a proposito dell’analisi del fenomeno dell’invasione russa in Ucraina: assai spesso si confonde l’analisi della comprensione di un fenomeno complesso con la giustificazione dello stesso. Ma se ciò accade è perché le strategie di disinformazione hanno già avuto successo, costruendo narrazioni e propagande per anni. La commissione europea con la task force EuDisinfo.EU da anni analizza il fenomeno della disinformazione proveniente dalla Russia. Gli intellettuali dovrebbero innanzitutto essere consapevoli delle strategie di disinformazione e in secondo luogo sollecitare gli spazi per una informazione corretta che distingua fatti e opinioni. Il caso estremo della polarizzazione degli esperti non serve a nulla, anche perché offendere le persone meno esperte non induce di certo queste ultime a cambiare opinione. Va incoraggiato il pluralismo, ma dentro la cornice di fatti verificati. I fatti alternativi non esistono. Inoltre, serve trasparenza nelle decisioni pubbliche. Occorre persuadere e convincere, non con la presunzione della verità, ma con l’ostinazione dei fatti e con le analisi di impatto di politiche pubbliche trasparenti e misurabili. E servono persone di buona volontà, armate di pazienza, di buone intenzioni e di buone parole, che provino a depolarizzare il dibattito pubblico, che cessino di essere follower dei propri follower. Serve un nuovo illuminismo contro le strategie di disinformazione.
Quali sono alcune delle principali criticità del sistema mediatico odierno? In quali direzioni occorrerebbe agire per consentire un più efficace confronto di idee?
Antonio Nicita: Alcune delle principali criticità sono: la crisi dei media tradizionali e la tentazione di imitare le dinamiche tipiche dei social network e di molti servizi digitali; l’«illusione della conoscenza» indotta dall’accesso immediato, e non mediato, al più grande archivio di informazioni mai esperito dall’umanità; il ruolo della profilazione algoritmica che finisce per selezionare le informazioni in base ai Big Data, cioè al tipo di persona che gli utenti rivelano di essere, il successo delle strategie di disinformazione dipende molto da come organizziamo; il successo delle strategie di disinformazione che pesantemente influenzano i comportamenti individuali e sociali e gli esiti stessi delle politiche pubbliche a tutela dei cittadini e producono, in taluni casi, danni rilevanti e costi sociali non recuperabili (e forse proprio questo è uno degli obiettivi di chi le promuove finanzia); la mancanza di regole che ripristino un autentico pluralismo e una corretta distinzione tra fatti e opinioni, senza per questo essere tacciati di censura. Il mercato delle verità ha bisogno di regole per essere ricondotto all’idealtipo del libero mercato delle idee e per riconciliare libertà d’espressione e buon funzionamento della democrazia nel solco di un nuovo diritto: “il diritto a non essere disinformato”. Questo diritto deve affiancarsi al diritto ad informare, ad informarsi e ad essere informato che la Corte costituzionale ha riconosciuto come elemento basilare dell’art. 21 della Costituzione. Garantire il diritto a non essere informato significa disinquinare dalla disinformazione al fine di rafforzare la nostra libertà di inviare e ricevere informazioni. Significa agire non sul contenuto in sé, tema fuori discussione, ma su altri due fronti: 1) identificare e contrastare gli strateghi della disinformazione; 2) rafforzare l’empowerment degli utenti, in relazione alla profilazione dei propri dati, all’inserzionismo pubblicitario, al framing in cui ricevono e inviano informazioni, alla trasparenza circa la fonte delle informazioni ricevute. Ed è fondamentale che la risposta regolatoria avvenga in modo sistemico e uniforme a livello europeo, anziché frammentarsi in iniziative dei singoli Stati, nel solco del Digital Services Act recentemente proposto. Naturalmente regolare non basta. Servono politiche pubbliche che diano nuovo slancio all’informazione di qualità, al servizio pubblico radiotelevisivo, alla digital literacy.