Scritto da Antonio Calcara
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Il mercato unico europeo, in occasione del suo trentesimo anniversario, è stato definito il più grande risultato del processo di integrazione europea[1]. Esso è però attualmente soggetto a un grande stress test: l’attuale competizione geopolitica richiede una riconfigurazione del mercato unico europeo per far fronte a nuove e importanti sfide. La capacità dei campioni industriali e tecnologici cinesi di penetrare nel nostro mercato potrebbe infatti renderlo vulnerabile alle interferenze esterne. In questo contesto, la competizione geopolitica tra Cina e Stati Uniti e la volontà di questi ultimi di fare piani di politica industriale potrebbe creare problemi al mercato unico europeo, concepito in un’epoca di grande espansione dei mercati globali. La competizione geopolitica tra Pechino e Washington, unita al ritorno della guerra in Europa, all’aumento dei costi dell’energia e al rapido cambiamento tecnologico, ha incoraggiato i decisori pubblici a fare delle deroghe alle ferree leggi di concorrenza del mercato europeo per favorire piani industriali e la creazione di campioni europei in grado di competere con i giganti cinesi e statunitensi. Tuttavia, ciò potrebbe alterare i principi stessi con cui è stato istituito il mercato unico europeo: l’accesso paritario al mercato, la concorrenza e i limiti alla politica industriale.
Alla luce di queste grandi sfide, non è un caso che il mercato unico europeo sia al centro del dibattito politico comunitario. Due ex primi ministri italiani, Mario Draghi ed Enrico Letta, stanno preparando due importanti rapporti sulla competitività del mercato unico e sul suo futuro. Il momento è dunque propizio per innescare questa riflessione in Europa e in Italia, un Paese che storicamente ha beneficiato del mercato unico ed è fortemente integrato nelle catene del valore europee.
Questo contributo verrà suddiviso in quattro parti: la prima analizza il processo di costruzione ed evoluzione del mercato unico europeo. La seconda parte si concentra sulle sfide geopolitiche che il mercato europeo deve affrontare. La terza parte analizza la risposta europea a queste sfide e le implicazioni per i principi fondanti del mercato unico. Infine, la quarta parte cercherà di formulare proposte concrete su come risolvere alcune delle sfide più urgenti.
Il mercato unico europeo
Il progetto di un mercato unico europeo è stato lanciato all’inizio degli anni Ottanta dal presidente della Commissione Europea Jacques Delors, recentemente scomparso, istituzionalizzato poi con l’Atto Unico Europeo nel 1986 e finalizzato a Maastricht nel 1992. La missione principale del mercato unico è quella di garantire la libertà di circolazione di beni, servizi, persone e capitali. Il mercato unico dell’UE è attualmente il più grande mercato del mondo sia in termini di popolazione (circa 450 milioni di persone) che di PIL (20% del PIL mondiale). È al primo posto sia per gli investimenti in entrata che in uscita e l’Unione Europea è il principale partner commerciale di 80 Paesi. Inoltre, secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale, l’Europa è più aperta del 30% e del 70% rispetto, rispettivamente, a Stati Uniti e Cina[2].
Il mercato unico europeo è stato creato per rispondere a delle sfide geopolitiche che hanno caratterizzato gli anni Ottanta. L’Europa doveva affrontare la competitività degli Stati Uniti e l’ascesa del Giappone e delle altre economie asiatiche. All’epoca, gli Stati Uniti stavano concludendo importanti accordi bilaterali con altre regioni e il loro mercato interno cominciava a diventare sempre più difficile da penetrare per le imprese europee. Gli europei erano inoltre preoccupati per l’ascesa del Giappone in diversi settori chiave dell’alta tecnologia, tra cui i semiconduttori. Mentre le imprese giapponesi erano grandi esportatori in Europa, il mercato interno giapponese rimaneva difficile da penetrare per le imprese europee. La mancanza di reciprocità nell’accesso al mercato e, più in generale, il cambiamento della struttura economica internazionale, richiedevano all’Europa un cambiamento di paradigma nell’approccio al commercio internazionale e una maggiore integrazione dei mercati nazionali per rafforzarsi nei confronti dei concorrenti globali.
Il mercato unico europeo è stato forgiato da un compromesso tra due diverse visioni politiche. Da un lato, la Francia ha spinto per un approccio dirigista e una maggiore integrazione e cooperazione in alcuni settori industriali e tecnologici, in particolare quello della difesa. Questo avrebbe permesso all’Unione Europea di imporsi come attore autonomo e di emanciparsi dalla leadership statunitense. Altri Paesi, come il Regno Unito, i Paesi Bassi e il blocco dei Paesi nordici hanno invece visto, al contrario, il mercato unico europeo come un’opportunità per abbracciare il processo di globalizzazione e agganciare le imprese europee alle catene del valore internazionali. La Germania si è tradizionalmente collocata nel mezzo di questi due estremi sostenendo la necessità di una maggiore integrazione comunitaria, ma rigettando i principi dirigisti dell’alleato francese.
Durante la fase di negoziazione, i Paesi europei raggiunsero un compromesso in base al quale l’ulteriore integrazione non dovesse favorire in modo sproporzionato i Paesi (e le industrie) più grandi a discapito di quelli più piccoli. Il principio di concorrenza interna, di accesso paritario al mercato (level playing field) e della non discriminazione negli scambi di beni e servizi consentivano ai Paesi e alle industrie di competere tra loro su un terreno comune e a parità di condizioni. Gli Stati membri decisero così di impostare un ferreo regime di concorrenza, di limitare l’uso di politiche industriali che favorissero alcune imprese o settori a discapito di altri, e di vietare, al di là di circostanze eccezionali, gli aiuti di Stato e i sussidi alle imprese. La Commissione Europea acquisiva importanti poteri di vigilanza sull’uso degli aiuti e dei sussidi statali alle imprese.
Il mercato unico europeo si è basato dunque sulla limitazione di un approccio dirigista, privilegiando l’integrazione alle catene del valore internazionali e un modello di crescita orientato alle esportazioni. L’Unione Europea è un formidabile negoziatore commerciale grazie alle dimensioni del suo mercato, che può essere usato come carota o come bastone, sia per le possibilità che offre sia per il timore di esserne esclusi o penalizzati. Questo potere di mercato consente all’Unione di estendere le sue regole e standard a livello globale (il cosiddetto “effetto Bruxelles”[3]), incoraggiando altri Paesi e mercati a adattarsi e a convergere con le normative europee.
Le sfide geopolitiche
La creazione del mercato unico europeo si è sviluppata in un contesto geopolitico benigno per l’Europa. Gli Stati Uniti hanno sempre sostenuto il processo di integrazione economica europea, con il duplice obiettivo di espandere le relazioni commerciali e di consolidare la pacificazione dell’Europa. Durante la negoziazione del mercato unico, il prevalere di una visione più liberale e aperta agli scambi internazionali, invece di una più dirigista, fu attivamente incoraggiato dall’amministrazione Reagan. La fine della Guerra fredda ha poi facilitato un’ulteriore espansione dei mercati, la riunificazione della Germania, l’allargamento a est dell’Europa e il rafforzamento dell’integrazione economica e monetaria.
Le prime crepe nella costruzione economica europea cominciarono a essere visibili nel 2008, quando la crisi economica, partita dal settore immobiliare americano e poi propagatasi in Europa, ha mostrato la fragilità del mercato unico, in particolare la natura incompleta dell’integrazione monetaria e fiscale. Nello stesso anno, la Cina ha organizzato le Olimpiadi di Pechino, presentandosi al mondo come un partner affidabile e ambizioso. Le imprese cinesi hanno iniziato a integrarsi nelle catene del valore internazionali, sfruttando i loro bassi costi di produzione e l’ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Inoltre, la leadership cinese ha iniziato a investire in ambiziosi piani di politica industriale e a proteggere e sussidiare le proprie aziende tecnologiche. La Cina investiva inoltre in infrastrutture strategiche, tra cui la ormai celebre “Nuova Via della Seta”. Nel 2016, l’acquisto dell’impresa tedesca di robotica Kuka da parte della cinese Medea ha costituito un campanello d’allarme per i Paesi europei, che hanno capito le intenzioni cinesi di penetrazione nei settori strategici europei. Nello stesso periodo, gli operatori tecnologici cinesi, tra cui ZTE e Huawei, erano ben posizionati per dominare il mercato europeo del 5G, scatenando le ire dell’amministrazione statunitense[4].
Le sfide geopolitiche non riguardano solo l’ascesa della Cina, ma anche la riconfigurazione delle relazioni tra Stati Uniti e Paesi europei. Da qualche tempo, Washington sta spostando la propria attenzione strategica verso l’Asia, principalmente per contrastare l’ascesa della Cina. Inoltre, l’amministrazione Trump ha rappresentato una terapia d’urto per l’Unione Europea. Il presidente Trump ha messo esplicitamente in discussione le relazioni commerciali con gli Stati Uniti e ha fatto frequenti riferimenti agli squilibri commerciali con i Paesi europei, in particolare con la Germania. Se la presidenza Biden ha fatto rientrare l’allarme nelle capitali europee e la guerra in Ucraina ha ristabilito la centralità degli Stati Uniti e della NATO nella sicurezza europea, i nodi economici non si sono di certo risolti. L’amministrazione Biden ha infatti lanciato ambiziosi piani industriali, tra cui il Chips and Science Act, che mira a rilanciare la produzione di semiconduttori e l’Inflation Reduction Act (IRA), che mira a rilanciare gli investimenti nelle tecnologie verdi. Gli europei sostengono che questi piani discriminino le imprese basate in Europa e le incoraggino a spostarsi in territorio statunitense per usufruire dei sussidi, violando così apertamente le regole della WTO. Il presidente francese Macron, in visita ufficiale a Washington, ha affermato che CHIPS e IRA potrebbero «frammentare l’Occidente», a meno che l’America e i suoi alleati non «risincronizzino» le loro politiche economiche[5].
La guerra in Ucraina ha poi mostrato la vulnerabilità dell’Europa nel settore energetico. Nel 2021, l’Unione Europea ha importato il 55% del suo fabbisogno energetico, la Cina il 25%, mentre gli Stati Uniti sono un esportatore netto. Il costo dell’energia è un grande problema per l’industria europea, e scoraggia i grandi attori dell’economia verde (ad esempio i produttori di batterie elettriche), del cloud computing (giganti come Amazon, Microsoft e Google) e dei semiconduttori a stabilirsi in Europa, dove incorrerebbero in costi superiori rispetto agli Stati Uniti oppure all’Asia. Questo discorso va inserito in un contesto più ampio, dove sia gli Stati Uniti che la Cina stanno esercitando il controllo su alcuni nodi delle catene del valore e su tecnologie abilitanti per rendere gli avversari più vulnerabili. Nel settore tecnologico, tuttavia, l’Europa si trova indietro. Delle prime cinquanta aziende tecnologiche per capitalizzazione di mercato, solo due sono europee. Secondo un recente rapporto, il divario europeo negli investimenti digitali è di almeno 174 miliardi di euro e l’Unione è in ritardo in settori come l’intelligenza artificiale, i semiconduttori e il cloud computing. Nel 2023, l’Europa ha investito 1,7 miliardi di dollari nell’intelligenza artificiale, ben al di sotto dei 23 miliardi degli Stati Uniti, e le aziende europee spendono in ricerca e sviluppo circa la metà rispetto alle loro controparti statunitensi[6].
La riconfigurazione del mercato unico europeo
Soprattutto in risposta a molte delle suddette sfide geopolitiche, l’Europa ha apportato alcune importanti modifiche alle norme che regolano il mercato unico. La relazione annuale sul mercato unico 2023 rileva che sono necessari degli sforzi significativi per rafforzare la resilienza delle catene di approvvigionamento, affrontare le dipendenze strategiche e garantire che l’Europa disponga delle tecnologie necessarie[7]. Le recenti misure per affrontare le sfide geopolitiche possono essere suddivise in “difensive” e “offensive”. Le misure difensive, tra cui lo strumento anti-coercizione, il meccanismo di screening degli investimenti e, più generale, la Strategia europea di sicurezza economica, mirano a proteggere i settori strategici e le tecnologie critiche da possibili interferenze esterne. Le misure “offensive” mirano invece a promuovere gli investimenti in tecnologie e settori industriali considerati strategici. Piani come il Next Generation EU, il Green Deal o l’EU Chips Act mirano esplicitamente a rafforzare la base industriale nelle tecnologie verdi e nei semiconduttori. Per sostenere la politica industriale europea e contrastare il dominio dei giganti tecnologici americani e cinesi, i decisori pubblici europei hanno posto delle deroghe ed eccezioni al regime di aiuti di Stato e sussidi.
Se la politica industriale e la possibilità di fornire aiuti di Stato e sussidi erano scoraggiati dalle ferree leggi di concorrenza, esse invece fanno ormai parte della cassetta degli attrezzi europea per adattare il mercato unico alle sfide geopolitiche. È necessario però riflettere sulle conseguenze di questa scelta. Il concetto di “accesso paritario al mercato” ha garantito che i Paesi europei grandi e piccoli siano vincolati dalle stesse regole, assicurando così una concorrenza leale. Vi è invece il rischio che una politica industriale a favore delle imprese europee possa favorire le imprese franco-tedesche più grandi e più integrate. Non sorprende quindi che le nuove misure europee siano divisive. Francia e Germania hanno sostenuto la politica industriale e hanno ripetutamente chiesto alla Commissione Europea di allentare le regole sugli aiuti di Stato. Dopo che la Commissione ha bloccato la fusione tra la francese Alstom e la tedesca Siemens nel settore ferroviario, considerata da Parigi e Berlino come l’unico modo per competere con i giganti cinesi del settore, i due Paesi hanno chiesto la riforma del diritto di concorrenza dell’Unione per permettere lo sviluppo di “campioni europei” che possano competere a livello globale. Allo stesso tempo, però, i Paesi europei medi e piccoli temono che una riconfigurazione del mercato unico si traduca in un maggiore protezionismo. Undici Stati membri hanno firmato una lettera inviata ai presidenti della Commissione e del Consiglio europeo, chiedendo «un rilancio strategico del mercato unico». «Nel lungo termine – scrivono i leader di Finlandia, Belgio, Repubblica Ceca, Danimarca, Lituania, Estonia, Lettonia, Olanda, Polonia, Irlanda e Slovacchia – la libera concorrenza e il libero movimento nel mercato unico sono il fondamento della crescita futura»[8]. Il problema principale evidenziato da questi Paesi è che essi non possono avere la stessa capacità di spesa fiscale di Paesi più grandi, come Francia e Germania, per concedere aiuti di Stato alle industrie domestiche o per sussidiare imprese straniere e convincerle a stabilirsi in Europa.
Un caso di studio interessante a questo proposito è il Chips Act, un’iniziativa europea volta a mobilitare 43 miliardi di finanziamenti pubblici e privati per sostenere la produzione di semiconduttori in Europa. Attualmente, l’Europa produce soltanto il 9% dei semiconduttori, con ripercussioni negative per l’industria europea, vulnerabile agli shock esterni. Il Chips Act è strutturato attorno al principio di “funding gap”. Esso stabilisce che l’uso di aiuti e sussidi pubblici può essere giustificato fino al 100% se tali strutture non esisterebbero altrimenti in Europa. Il Chips Act ha quindi eliminato un importante ostacolo legale all’approvazione degli aiuti di Stato da parte dell’Unione Europea. La definizione di funding gap è stata al centro dei negoziati del Consiglio Europeo, poiché tra gli Stati membri di medie e piccole dimensioni era diffusa la preoccupazione che questi strumenti avrebbero avvantaggiato solo gli Stati più grandi e con le tasche più profonde, in grado di sovvenzionare questi costosi impianti. Parallelamente alla negoziazione in Europa, vi erano già in corso trattative tra il governo tedesco, TMSC (la grande azienda taiwanese di semiconduttori) e Intel. La potenziale distorsione del mercato unico non riguarda solo il settore dei semiconduttori, ma anche altri settori chiave come quello dell’energia. Parigi e Berlino hanno fornito sussidi alle proprie aziende, soprattutto ai produttori di alluminio, per far fronte alle bollette, mentre in altri Paesi, tra cui l’Italia, mancavano le risorse per farlo. Nel periodo 2021-2022 l’Unione Europea ha approvato 672 miliardi di euro in aiuti, il 52% provenienti dalla Germania, il 25% dalla Francia e il 7,6% dall’Italia.
Guardare avanti
Ci troviamo in un momento critico per il mercato unico europeo. I due rapporti di Draghi e Letta costituiscono un ottimo punto di partenza per riflettere sul presente e sul futuro del mercato unico. Questo è fondamentale, perché le sfide geopolitiche sono destinate a rimanere. La transizione verde, uno dei capisaldi del (primo?) mandato della Commissione guidata da Ursula von der Leyen, potrebbe favorire imprese cinesi molto competitive nel settore dei veicoli elettrici. Il mercato unico dovrà poi adattarsi alla rinnovata attenzione degli Stati Uniti per la politica industriale, all’aumento dei prezzi dell’energia e al cambiamento tecnologico. Queste sfide geopolitiche stanno portando l’Europa a mettere in atto una serie di misure difensive (per proteggere la propria base industriale) e offensive (per aumentare la propria competitività). Tuttavia, la rinnovata enfasi sulla politica industriale e la possibilità di utilizzare sussidi e aiuti di Stato non è priva di rischi. Da un lato, la politica industriale è necessaria per facilitare la transizione ecologica e digitale e per sostenere il settore privato negli investimenti in questi settori. Dall’altro lato, questo potrebbe mettere in discussione i principi fondanti del mercato unico, l’accesso partitario al mercato e la concorrenza interna, portando dunque una sempre maggiore divergenza tra gli Stati grandi con tasche più profonde e Paesi più piccoli e con meno risorse.
La necessità di rafforzare il mercato unico, senza però danneggiarne i principi fondanti, richiede una riflessione politica per mitigare le esternalità negative nel breve periodo e prepararsi alle sfide geopolitiche nel medio-lungo termine. Per quanto riguarda l’attenuazione delle esternalità negative, il problema principale europeo è quello della difficoltà delle proprie aziende di fare scala e competere con i giganti americani e cinesi. Il primo passo per risolvere questo problema è rimuovere ulteriormente le barriere, soprattutto legali e normative, che ancora attanagliano il mercato europeo. I benefici derivanti dall’eliminazione delle barriere al mercato unico dei beni e dei servizi potrebbero ammontare a 713 miliardi di euro entro la fine del 2029, una somma simile agli investimenti previsti dal pacchetto di rilancio Next Generation EU[9].
Occorre poi assicurarsi che la politica industriale europea abbia la giusta ambizione e possa servire da volano per stimolare ulteriori investimenti privati. Ad esempio, politiche industriali legate alla transizione ecologica potrebbero essere un incentivo per le case automobilistiche europee a investire seriamente sia nella parte hardware (batterie elettriche) che in quella software di questa filiera. Il rischio attuale è che la politica industriale sia poco ambiziosa (per fare un rapido esempio, mentre l’Europa spenderà 43 miliardi per l’EU Chips Act, il piano statunitense ne prevede 122) e arrivi troppo tardi nell’attuale competizione tecnologica. Per colmare questo divario, bisogna ancora una volta puntare sui punti di forza del mercato unico europeo, ovvero le sue dimensioni e la capacità di innovazione e specializzazione intra-europea. Pertanto, si dovrebbero fornire incentivi finanziari alle grandi aziende per sviluppare catene del valore a guida europea e coinvolgere in modo strutturale aziende medio-piccole basate in altri Paesi europei. Non si tratta di un obiettivo nuovo né impossibile, poiché i settori in cui l’Europa ha tradizionalmente avuto successo (ad esempio, l’industria automobilistica) si basano sull’integrazione di specializzazioni ed eccellenze nazionali. Ciò è particolarmente importante nel settore dei semiconduttori. Il continente già dispone di aziende competitive nella produzione di semiconduttori per applicazioni industriali e ha delle nicchie tecnologiche nella produzione di macchine litografiche (ASLM). Inoltre, l’Europa può già beneficiare di importanti cluster di semiconduttori come Silicon Saxony in Germania, High Tech NL nei Paesi Bassi e Minilogic in Francia. Gli investimenti europei potrebbero fungere da importante motore per collegare questi disparati centri di eccellenza. Una maggiore integrazione delle catene del valore europee gioverebbe anche all’Italia, storicamente esportatrice di beni strumentali e intermedi.
La riconfigurazione del mercato unico europeo richiede un grande sforzo di visione politica. L’Italia potrebbe svolgere un ruolo di mediazione tra le esigenze europee di competitività nei confronti dei giganti statunitensi e cinesi da una parte e quella di mantenere concorrenza interna e un accesso paritario al mercato europeo dall’altra. Due italiani come Mario Draghi ed Enrico Letta hanno contribuito all’elaborazione intellettuale di questi temi. Il governo italiano adesso dovrebbe appropriarsene e farne una battaglia politica europea.
[1] Consiglio Europeo, 30º anniversario del mercato unico.
[2] Si veda: International Monetary Fund (IMF), Europe in a Fragmented World, 30 novembre 2023.
[3] Anu Bradford, Effetto Bruxelles. Come l’Unione Europea regola il mondo, Franco Angeli, Milano 2021.
[4] Antonio Calcara, From quiet to noisy politics: varieties of European reactions to 5G and Huawei, «Governance», 36(2), 2023, pp. 439-457.
[5] Si veda: Emmanuel Macron says US climate law risks “fragmenting the west”, «Financial Times», 1 dicembre 2022.
[6] Si veda: McKinsey Global Institute, Accelerating Europe: Competitiveness for a new era, 16 gennaio 2024
[7] Si veda: Commissione Europea – Commission Staff Working Document, 2023 Annual Single Market Report: Single Market at 30, 31 gennaio 2023.
[8] Si veda: Gabriela Baczynska, Eleven EU countries urge “great caution” in loosening state aid rules, «Reuters», 14 febbraio 2023.
[9] Si veda: Commissione Europea, Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni – 30 anni di mercato unico, 16 marzo 2023.