“Il minotauro. Governo e management nella storia del potere” di Lorenzo Castellani
- 29 Agosto 2023

“Il minotauro. Governo e management nella storia del potere” di Lorenzo Castellani

Recensione a: Lorenzo Castellani, Il minotauro. Governo e management nella storia del potere, Luiss University Press, Roma 2023, pp. 200, 18 euro (scheda libro)

Scritto da Luca Picotti

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Nel suo ultimo libro, Il minotauro. Governo e management nella storia del potere (Luiss University Press 2023), Lorenzo Castellani, storico e politologo, raccoglie i suoi studi su burocrazie, rapporti tra Stato e capitalismo, intrecci tra poteri pubblici e privati e management, utilizzando la suggestione della figura mitologica del Minotauro: mezzo burocrate e mezzo manager, «un ibrido tra due parti diverse, un corpo capace di congiungere due sfere apparentemente opposte». La forza del lavoro di Castellani risiede proprio nella capacità di cogliere l’osmosi che esiste tra le diverse strutture socio-istituzionali, in contrapposizione a quegli approcci binari che tendono a relegare da un lato lo Stato e dall’altro il mercato, senza coglierne l’intima contaminazione; la realtà è più complessa e l’autore prova a darne una puntuale rappresentazione fotografica: porte girevoli tra incarichi pubblici e privati, esternalizzazione delle funzioni statali alle società di consulenza, applicazione di tecniche aziendalistiche in seno alla burocrazia, metamorfosi delle figure manageriali. Un mosaico che attraversa la storia, dall’emergere delle burocrazie francesi e prussiane alle trasformazioni in senso aziendalistico negli anni Ottanta del Novecento, sino alle sfide di oggi.

Gli studi di Castellani nascono dal forte interesse per due figure, ormai sempre più indefinite – o, per usare l’immagine mitologica del titolo, confluite di fatto nel Minotauro – ma senz’altro centrali nelle strutture del potere contemporaneo: quella del manager (apparentemente privato ma, come si vedrà, non più in modo così netto) e quella del burocrate (apparentemente pubblico ma, come si vedrà, non più in modo così netto).

Le radici del termine manager appaiono meno scontate di quanto si è soliti pensare. Scrive Castellani: «La parola “manager” – pochi lo sanno – non deriva dall’inglese ma dal latino “manu agere” che significa condurre con la mano. Nell’antica Roma stava a indicare la capacità di chi cammina davanti al suo asino e lo guida lungo la strada. Oggi il mondo si è riempito di conduttori di asini: guidano imprese, aziende, ma anche enti e amministrazioni pubbliche. Nell’ultimo secolo, in particolare, il rapporto tra management e governo si è innestato, sviluppato e solidificato» (p. 23). Il profilo più pregnante che emerge dalla ricerca dell’autore è proprio quello relativo allo sviluppo, nonché alla solidificazione, del rapporto tra management e governo nell’ultimo secolo. Il percorso è senz’altro lungo: si va dalla nascita delle burocrazie centralizzate tipiche del periodo assolutista alla loro trasformazione nel pubblico impiego che oggi conosciamo; nel mezzo, passano Richelieu, Enrico VIII, il Grande Elettore, l’emergere del diritto amministrativo, la Rivoluzione francese, il rapporto tra dimensione pubblica e istanze liberali all’alba del Novecento. Un punto forse centrale, che introduce quella più stretta commistione tra governo e management di cui si è accennato, è la mobilitazione tedesca della Prima guerra mondiale, impersonificata, scrive Castellani, dalla figura di Walther Rathenau: una pianificazione tecnocratica per gestire diversi fronti e i relativi approvvigionamenti figlia delle capacità gestionali di quest’ultimo. Il Novecento è, in generale, il secolo delle grandi organizzazioni, non solo nel drammatico ambito militare, ma anche nelle fabbriche, nelle burocrazie statali sempre più vaste per fronteggiare problemi complessi e crescita demografica, nelle stesse imprese che iniziano a gerarchizzarsi (si pensi alla fortuna delle società per azioni, con separazione tra proprietà e management). «Il management viene introdotto come tecnica per aumentare l’efficienza della produzione, ma anche come “gioco a somma positiva” per neutralizzare il conflitto sociale. Maggiore organizzazione, maggiore produttività, migliori condizioni di vita per tutti. La scienza non può più vivere di esperimenti casuali, geni isolati o gentiluomini rinchiusi nelle università. Essa si lega agli eserciti, alla enorme capacità di spesa dello Stato in guerra, si organizza in laboratori, pensatoi, università, aziende. Diviene complesso militare-industriale, membrana osmotica tra amministrazione, capitalismo e ricerca. La “vecchia” pubblica amministrazione si professionalizza. Irrompe un processo di selezione meritocratico su vasta scala, le amministrazioni si specializzano, enti pubblici e società di Stato entrano nel mercato, le grandi aziende si confrontano con i governi, una nuova classe di manager ibridi si fa spazio tra pubblico e privato» (p. 63).

È in questo contesto che si collocano due grandi fasi delle strutture amministrative: quella che comincia nel secondo dopoguerra, in concomitanza con il periodo che la letteratura economica sovente riconduce al keynesismo, caratterizzata da un’espansione generale della dimensione amministrativa, in termini di personale burocratico, prerogative del potere pubblico, ingresso dello Stato nell’economia (lo Stato imprenditore), creazione di sistemi di welfare. Dopodiché, anche come reazione a talune farraginosità emerse nella prima fase, avviene un ripensamento generale della dimensione pubblica, vista sempre di più come una macchina inefficiente e impersonale, in coerenza con la stagione che la letteratura economica ha battezzato come neoliberale. L’aspetto interessante della prospettiva di Castellani è che offre un’originale lettura di quello che è solitamente noto come passaggio dal keynesismo al neoliberalismo e lo fa attraverso la lente delle strutture amministrative – l’infrastruttura concreta del potere. Se già con l’entrata dello Stato nell’economia (in veste di imprenditore) si verifica una prima commistione con le categorie privatistiche – anche se il vero e proprio passaggio, pensiamo all’Italia, si verifica con la privatizzazione formale degli anni Novanta, ossia la trasformazione delle imprese pubbliche da enti pubblici economici (un ibrido pubblico-privato) a società per azioni, assoggettate alle regole ordinarie del diritto commerciale –, è durante gli anni Ottanta che la contaminazione tra burocrate e manager, pubblica amministrazione e tecniche aziendali si concretizza appieno nella figura del Minotauro. Razionalizzazione economica, efficienza, managerialismo diventano le parole d’ordine anche in seno alle burocrazie pubbliche. Stato e imprese vengono misurati allo stesso modo, con le medesime logiche aziendali. Un altro fenomeno degno di nota è quello dell’esternalizzazione delle funzioni pubbliche alle società di consulenza, in una sorta di “consultocrazia”. I dati citati da Castellani sono emblematici: nel Regno Unito, se nell’anno successivo all’elezione di Margaret Thatcher il governo spendeva circa 6 milioni di sterline per i consulenti, questa cifra era salita a 246 milioni di sterline entro la fine del suo mandato di primo ministro nel 1990. In Canada, sotto il governo conservatore, la spesa per i consulenti è passata da 56 milioni di dollari del 1984 ai quasi 190 milioni del 1993. In Australia, sotto il governo laburista Hawke-Keating, la spesa per i consulenti è lievitata da 91 milioni di dollari nel 1987 a 342 milioni di dollari nel 1993. Nel Regno Unito, uno studio del 1994 dell’Effıciency Unit dimostrava che la spesa del governo per i consulenti esterni è “quasi quadruplicata” tra il 1985 e il 1990.

La managerializzazione è il tratto distintivo di una stagione politica in cui alla tecnocrazia di Stato si è unita quella di mercato, in una commistione profonda che ha visto diverse trasformazioni nelle strutture del potere, dalla crescita delle banche centrali alle autorità indipendenti, dalle società di rating alle corti internazionali, con il paradigma economico che ha inteso imporsi su quello politico. Invero, la dimensione pubblico-statale non è stata sovrastata dal mercato; sarebbe una prospettiva troppo semplicistica. Ne è stata invece contaminata, influenzata, in un contesto osmotico che ha portato anche a esternalizzazioni del potere. Ma sempre in un intreccio delle due figure, non in una strozzatura di una da parte dell’altra.

Solo in questo modo si può comprendere le sfide di questa fase storica. Difatti, il panorama attuale è profondamente cambiato rispetto a quello della stagione neo-manageriale: pandemia, guerra in Ucraina, rivalità tra Stati Uniti e Cina, transizione ecologica hanno rivalorizzato la centralizzazione, la pianificazione, i poteri dello Stato, le normative protettive, la dimensione strategica degli approvvigionamenti. Sul punto, Castellani non usa mezzi termini: «Questi cambiamenti generali, per quanto concerne l’oggetto del nostro libro, hanno spazzato via in modo quasi definitivo il paradigma manageriale nell’amministrazione pubblica, riconducendo le burocrazie sotto l’ombrello della sicurezza e della strategia, nel senso della ragion di Stato più che in quello del mercato. L’idea weberiana di una amministrazione che guida e dirige la società e si lega col capitalismo è tornata, per molti aspetti, al centro del dibattito pubblico occidentale. Questo prismatico neo-statalismo si accompagna al ritorno di una concezione weberiana dell’amministrazione, pur in una forma più moderna e parcellizzata». Continua l’autore: «Si è insomma passati da un tentativo di controllo del conflitto politico attraverso il mercato, la managerializzazione e la sfumatura tra pubblico e privato, svoltosi tra gli anni Ottanta e Duemila, a un’ipotesi di addomesticamento del conflitto stesso attraverso la difesa, il protezionismo, il dirigismo. Se libertà, mercato e consumo erano i concetti-chiave della stagione neo-manageriale, sicurezza, controllo e politica industriale sono quelli della nuova epoca in cui stiamo entrando» (pp. 174-175).

L’architettura del potere è, dunque, destinata ad assumere un volto ancora più complesso: le logiche manageriali, che hanno contraddistinto gli ultimi decenni, non saranno probabilmente espunte dalle burocrazie pubbliche, ma piuttosto vi sarà un’ennesima contaminazione, sotto l’ombrello della dimensione strategica della ragion di Stato, che rappresenterà l’indirizzo prioritario. Una sfida che può da un lato migliorare la qualità delle amministrazioni – anche nell’ottica di maturare una classe dirigente che non abbia paura di confrontarsi con il concetto di interesse nazionale – mentre dall’altro rischia di tradursi in un feticcio per giustificare continue espansioni del Leviatano. Questo è, ad esempio, uno dei pericoli che Castellani avverte. Un’espansione eccessiva della dimensione pubblica che finisca per sacrificare la libertà privata. Gli equilibri sono delicati. Un punto senz’altro va sottolineato: chi scrive ritiene sia importante non trasformare una sana cultura strategica in una battaglia miope contro ogni interdipendenza economica, libertà di mercato, autonomia privata. Una vera cultura strategica è, per sua definizione, circoscritta ai campi essenziali. L’auspicio è che le nuove trasformazioni delle burocrazie pubbliche e delle figure manageriali seguano questa strada. Sfide che Lorenzo Castellani, tra i massimi esperti sul tema, non mancherà di monitorare e raccontare.

Scritto da
Luca Picotti

Avvocato e dottorando di ricerca presso l’Università di Udine nel campo del Diritto dei trasporti e commerciale. Autore di “La legge del più forte. Il diritto come strumento di competizione tra Stati” (Luiss University Press 2023). Su «Pandora Rivista» si occupa soprattutto di temi giuridico-economici, scenari politici e internazionali.

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