Scritto da Giacomo Marossi
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Continua da qui: Il mito dell’origine: studiare il potere tra natura e libertà – prima parte
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Mi preme evidenziare come il consueto passaggio fra i due corni del determinismo, naturale-genetico, da un lato, e storico-sociale, dall’altro, sia più complicato del solito, nel caso del potere. Il fatto è che il potere compare ad un certo punto (ed è un punto assolutamente ideale) non solo come strategia evolutiva ma anche come strategia che imprime all’evoluzione una direzione netta. Qui credo si tocchi il punto della nostra argomentazione. Se il determinismo in qualche modo coincide con le relazioni di potere e se dall’altro il potere utilizza i determinismi come giustificazioni alla sua azione o non azione, il nostro problema cessa di essere semplicemente metodologico e diventa morale. Ogni ricerca delle origini diventa dunque un confronto ostile tra fautori dell’ordine e ribelli, alla ricerca del dato ultimo che sancisca la santità o l’inconsistenza di un sistema di potere. Così anche una più generica ricerca delle origini del concetto di potere diventa una battaglia ideologica sulla possibilità di un mondo completamente libero. L’indagine sulla biologia e la storia evidenziano i punti deboli; determinare con certezza che il potere sia nato presso le tribu neanderthaliane o invece sia esistito dai tempi delle proscimmie, significa a livello ideologico, collocare la possibilità della libertà a milioni di anni di distanza, o direttamente nel nulla. Si tratta di un’esagerazione, ma come non ripensare alla grande storia del contrattualismo e del liberalismo occidentali fondati sulla teorizzazione, astratta, certo, ma per i tempi non così inconcepibile, di un mondo vergine di libertà individuale modellata sui bonnes sauvages di Montaigne? Oppure all’influenza avuta dal folle positivismo ottocentesco e dalla comparsa delle teorie sulla razza e sulle masse, nell’inarestabile marcia verso l’autodistruzione delle potenze europee. Ciò che pensiamo di noi stessi influenza direttamente il nostro modo di agire. Ciò che pensiamo, o siamo indotti a pensare, della nostra storia passata e degli universali che la attraversano e determinano, è fondamentale per convincerci o meno a compiere un gesto piuttosto che un altro. Su questo l’idealismo tedesco ha scritto pagine inimitabili che sarebbe importante rileggere oggi, di fronte al neopositivismo ingenuo dilagante. Foucault evidenzia bene, nel suo saggio su Nietzsche, la Genealogia e la Storia1, come l’origine sia una palude pericolosa, in cui troppi cercano la verità o la cosa in sè. Essa è, se vogliamo, il regno oscuro dell’impossibilità di sapere, che proprio per questo si tramuta per magia in certezza capace di informare con la sua stupida convinzione i campi di concentramento. Ed il recente scontro identitario sull’islam e le radici culturali europee seguito all’attentato alla redazione di Charlie Hebdo ne è un esempio evidente. Si comprende bene in quest’ottica la frase di Adorno:
La stessa categoria di radice, di origine è dispotica, la conferma di chi viene prima, perché c’era prima; dell’autoctono rispetto all’immigrato, del residente rispetto al migrante. L’origine, che è attraente perchè non vuole lasciarsi quietare dal derivato, dall’ideologia, è a sua volta un principio ideologico.2
E sul tema i due filosofi si ritrovano in modo quasi sorprendente, poichè per entrambi si tratta qui di entrare in contatto con il materiale primo delle loro filosofie; la storia delle idee e delle forme di dominio; i materiali neutri della vita umana polarizzati dal potere e trasformati in armi da disinnescare. A Foucault è chiarissimo il rischio insito nello spingere la genealogia fino ad un origine che non sia semplicemente quella storica dei concetti che crediamo immortali, così come da lui fatto altrove per il concetto di sovranità o per quello di individuo. Un uso “parodistico e buffonesco della storia” che ci eviti il ruolo di “rigattieri di identità vuote” ma che anzi si carichi del gravoso compito della critica, di un sapere che non sia “fatto per comprendere, ma per prendere posizione”. Il ruolo della storia come ancella del potere esiste da sempre: pensiamo allo stile impero napoleonico o al ripescaggio del Wallalla wagneriano-hitleriano. Perchè, come evidenzia molto bene Foucault nei suoi lavori, la ricerca storica sui concetti (ma anche sulle cellule e sui tessuti) molto spesso è una ricerca che porta a mettere in risalto la continuità e l’orientamento teleologici, piuttosto che a mostrare le sconnessure e gli errori di percorso “(Platone a Siracusa non è diventato Maometto…)”3. La storia per Foucault è da liberare. Una storia che sia genealogia comincia ponendo, se proprio, in discussione lo stesso concetto di origine che, per tornare ad Adorno, “è a sua volta un principio ideologico”. L’unica origine accettabile è per entrambi quella che emerge minando dall’interno i concetti, facendoli implodere su loro stessi per liberare le costellazioni con cui avvicinarci al mondo che ci circonda; “ogni origine della morale, (..) vale come critica”4.
là dove le cose iniziano la loro storia, quel che si trova non è l’ideantità ancora preservata della loro origine, ma la discordia delle altre cose, il disparato.5
Questo significa, in altri termini, che, in qualsivoglia studio sul potere, non è possibile alcuna disquisizione terminologica iniziale che apra una chiarificazione che a sua volta consenta un discorso scientifico sul potere. Ogni adozione di metodi e termini è già in sè una presa di posizione sul potere. Possiamo parlare del potere solo nei termini e nei modi che il potere ci garantisce come franchigia. Una franchigia controllata, plasmata, subdolamente profumata di neutralità, come il miele intorno alla tazza.
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Il potere informa di sè ogni espressione e relazione umana rendendo una sua trattazione neutra impossibile. Ogni parola che si spende sul potere entra automaticamente in una negoziazione di senso e di posizione con e contro quest’ultimo. Ogni definizione richiede la sua giustificazione agli occhi del sovrano. Dunque uno studio sul potere non è un semplice elenco di studi precedenti ma è una potenziale critica del potere e delle sue manifestazioni. La ricerca dell’origine è perciò conducibile in due modi: o con il potere, cantandone la storia, o contro il potere, cantandone la critica e la futura distruzione. Ma in entrambi questi atteggiamenti si annida l’ideologia raziocinante. Tertium non datur, verrebbe da dire. Eppure una terza alternativa impossibile sembra esistere. È quella della negazione determinata, del negare per aprire e affrontare criticamente. In questo la lezione adorniana risulta incomparabile per lucidità ed importanza. L’andare oltre l’eteronomia data dall’alternativa sempre proposta dal pensiero identificante tra vero e non vero: tra possibile e impossibile, il comportarsi liberi dall’identificazione pur riconoscendosene determinati, è un gesto etico di portata enorme. Il fulcro del pensiero adorniano è tutto nel suo riconoscersi come trosas iasetai (ferita aperta che è però paradossalmente è anche prima precondizione di qualsiasi guarigione), come unico paradosso percorribile verso un’apertura che non è raggiungibile in vita. Nel muoversi secondo le regole del dominio contro di esso, riconoscendone l’obbligatorietà e l’ubiquità. È qui si gioca in tutta la sua complessità la possibilità stessa della libertà umana. Possiamo quindi dire, parafrasando Adorno, che la libertà è l’immagine dell’assenza di potere sotto il dominio del potere stesso, la possibilità dell’assenza di determinazione all’interno dell’orizzonte determinista. Immaginare dunque delle individualità non soggette secondo le regole della soggettività. In questo paradosso si può allora effettivamente nominare la parola libertà. Fuori dalla dicotomia, libertà positiva vs libertà negativa, è pensabile una libertà nell’autonomia che si riconosce come non autonoma.
Senza l’unità e la coercizione della ragione non si sarebbe mai potuto anche solo pensare a qualcosa che somigliasse alla libertà, tanto meno sarebbe mai potuto esistere (…) Nessun modello di libertà è disponibile se non quello di un intervento della coscienza sull’intero consesso sociale e per suo tramite, sulla complessione dell’individuo.6
Lo spazio che ci è dato come individualità è proprio quello che ricaviamo dal nostro rapporto con gli altri. La cesura nella trama del mondo è intermittente e in quella intermittenza prende spazio, come il respiro, la libertà altalenante dell’essere umano, sempre schiacciato tra determinazioni biologiche e sociali, che sono poi, come nota Adorno, le une in continuità con le altre. La stessa cosa e non la stessa cosa, e in quel non, noi ci ritroviamo a vivere, a muoverci nel mondo. È una finestra non sempre aperta nell’orizzonte delle nostre vite, difficile da cogliere al volo ed impossibile da attraversare. La realtà è che non esiste esistenza umana senza potere. La relazione di potere è ovunque, in qualsiasi nostro rapporto umano. Nel nostro stesso rivolgerci al mondo. La mia stessa esistenza è determinata da un atto di potere assoluto nei miei confronti: essere messo al mondo e curato in uno stato di totale inermità. E ancora poi educato e plasmato da figure sociali tra le più disparate che insegnano, educano al giusto comportamento. Questo fa sì che la sola fortezza che illusoriamente ci rimane, l’interiorità, un’interiorità da difendere ad ogni costo contro ogni intrusione, è già inficiata dal potere prima ancora che noi se ne assuma il possesso completo.
Una relazione passiva con altri essere precede la formazione dell’ego o del moi, o, per metterla in modo leggermente diverso, diviene lo strumento in virtu del quale quella formazione può avere luogo. Una formazione nella passività costituisce quindi la preistoria del soggetto, insediando un ego come oggetto, agito dagli altri prima ancora che possa agire per conto suo. Questa scena è persecutoria, perchè non voluta nè scelta. Indica un modo di essere agiti che precede la possibilità di agire direttamente o in proprio nome.7
Dunque l’origine del potere, che stupidamente inseguiamo attraverso i meandri della storia e della biologia evolutiva, ci ricompare vicinissima, come un punto nero che si credeva di vedere nel cielo e che invece naviga nell’umor acqueo del nostro occhio. Fisiologicamente e psicologicamente il potere ci compenetra non lasciandoci alcuna via di scampo. Nei fatti siamo determinati, da altri o da noi stessi, in ogni nostra azione o pensiero quotidiani. Questa consapevolezza apre possibilità molteplici, oltre che non scontate. Da un lato siamo costretti ad abbassare l’asticella delle nostre pretese all’unicità e all’indipendenza. Quella stupenda autoillusione di essere i migliori ed unici esseri liberi sulla terra, e come singoli e come specie umana, ce la possiamo dimenticare per sempre. Dall’altro però questa visione si apre la prospettiva etica della resistenza, dell’esame critico del reale e della presa di posizione pubblica, di quella che Hannah Arendt chiama, appunto, l’azione.
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Il ritrovamento del potere sotto forma di determinismi e condizionamenti sin nelle profondità del nostro essere individui ci spinge ad interrogarci sul valore del nostro stare insieme agli altri e del nostro stare da soli: su ciò che crediamo appartenerci e su ciò che ci è instillato dall’esterno e che ci illudiamo di padroneggiare. Se le relazioni umane sono la sede delle relazioni di potere sempre e comunque, la resistenza nel suo senso più basilare, l’antifascismo, per usare una definizione più politically engaged si ritrova nell’analisi critica costante di queste relazioni e nell’essere capaci di controllarle il più possibile. Risalire la trafila delle dominazioni verso l’alto per scoprire l’illusione della libertà, ma essere capaci verso il basso, il nostro basso, di emanciparci dal replicare la violenza etica verso il prossimo (che non è per forza violenza fisica, ma in generale sottomissione del prossimo con qualsiasi mezzo ce lo renda malleabile ed inferiore). Non applicare il potere. Sacrificarci. “Dire di no” nel momento di esercitare il potere, di scendere a patti, di obbedire, di dire, in ultima analisi, “sì lo farò”, è la più semplice, ma anche l’unica, forma di resistenza in nostro possesso. Le altre discendono tutte da qua: dall’uso della violenza antifascista (giusto e corretto laddove la democrazia fallisca nei suoi strumenti di controllo e autotutela) a quello della polemica intellettuale. Agire diversamente sul nostro prossimo, diversamente dalle regole invalse della sopraffazione e dello sfruttamento, dell’utilitarismo senza se e senza ma, è la via principale per accedere allo spazio dell’azione morale responsabile. È l’atrio di quello che Kant chiamava “il regno dei fini”. È lo spazio che balena “tra il bisogno di rivendicare il diritto a non essere offesi o respinti e la necessità di resistere a un tale bisogno, (in cui) si può davvero diventare umani”.8 Possiamo iniziare un modo diverso di rapportarci col mondo a titolo completamente gratuito. Spezziamo la catena dei mezzi per uno scopo e agiamo in qualche modo liberi, poiché in contrasto con ciò che ci si aspetta da noi. Non abbiamo diritto a rivendicare l’amore dell’altro eppure lo amiamo comunque: l’amore non è uno scambio ma un dono libero che si fa disinteressatamente. E in questo sta la sua portata etica. “Ogni rapporto non deformato, e forse l’elemento conciliante nella stessa vita organica, è un dono. (…) la vera felicità del dono è tutta nell’immaginazione della felicità del destinatario: e ciò significa scegliere, impiegare tempo, uscire dai propri binari, pensare l’altro come un soggetto”9. L’altro non si limita ad essere un terreno di prova per le nostre interiorità ma è il terreno su cui queste interiorità diventano umane imparando e comprendendo la loro propria contraddittorietà: la dicotomia che apre ogni risposta verso l’altro è ciò su cui si costruisce la nostra umanità.
1 Foucault, Nietzsche, la genealogia e la storia, in M. Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, a cura di Alessandro Fontana e Pasquale Pasquino, Einaudi, Torino, 1972.
2 Adorno, Dialettica Negativa, Einaudi, Torino, 2004, p. 140.
3 Foucault, Nietzche, la genealogia e la storia, op.cit., p. 29.
4 Ivi, p. 35.
5 Ivi, p. 32.
6 Adorno, Dialettica Negativa, op. cit., p. 237.
7 Butler, Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 120.
8 Ivi., p. 139.
9 Adorno, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa (1951), Einaudi, Torino, 1979, p. 39.