Il nesso necessario tra cultura politica, democrazia e lavoro
- 12 Maggio 2015

Il nesso necessario tra cultura politica, democrazia e lavoro

Scritto da Tommaso Sasso

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L’intervento che segue è stato pronunciato dall’autore al tavolo “Quale cultura politica?” nell’ambito dell’iniziativa “Think Left”, tenutasi a Roma sabato 9 maggio


Nella mia breve relazione mi soffermerò sul legame imprescindibile che un partito che voglia gravitare nell’orbita della sinistra occidentale non può che avere con il fronte del lavoro e della qualità della democrazia. Tale legame, come è ovvio, non può limitarsi alla pur fondamentale dimensione programmatica costruita attorno ai cicli elettorali ma deve costituire le basi in termini di orientamento generale e, appunto, di cultura politica della parte in questione. È su questo aspetto, essendo la cultura politica il tema alla base della discussione di questo tavolo, che concentrerò il mio contributo.

Ho innanzitutto bisogno di una premessa che giustifichi l’impostazione che vi propongo, che investe il ruolo che definirei fondativo della democrazia e del lavoro, o meglio della qualità della democrazia e della politicità del lavoro, nella definizione di una cultura politica conseguente ai nostri obiettivi e in definitiva alla nostra stessa ragion d’essere.
La democrazia è la dimensione dove, a determinate condizioni, si partecipa alla determinazione del destino della collettività di cui si è partecipi, naturalmente attraverso strumenti di cui staranno proficuamente discutendo al tavolo sul partito e su cui non mi soffermo per non sviare dalla nostra discussione. Ed è una dimensione fondamentale per la sinistra principalmente per un motivo forse banale, ma che talvolta si tende a dimenticare. La destra ha costitutivamente altri terreni su cui ingaggiare proficuamente la lotta, sia essa di classe, per l’egemonia, o più semplicemente per la vittoria nel momento elettorale. La sinistra democratica no. Noi non disponiamo che di strumenti che derivano direttamente dalla dimensione democratica, quali il partito, il sindacato, le organizzazioni sociali e culturali.
Quanto al lavoro, esso è la dimensione che ci fa incontrare noi stessi, dove incontriamo l’altro, dove trova espressione e compiutezza la dignità che riteniamo essere intrinseca in ogni essere umano. E dove l’uomo acquista contezza della propria condizione e, conseguentemente, può organizzarsi.
E di organizzazione di questa coscienza la sinistra ha bisogno come poche cose, dovendo raccogliere le forze, educarle, orientarne l’azione.

Penso di non essere il solo a pensare che esista una relazione molto forte tra la solidità delle basi della nostra cultura politica e il compito della sinistra stessa. È evidente che una declinazione della democrazia all’insegna della rappresentanza, dell’inclusione politica, della responsabilizzazione di eletti ed elettori costituisca a un tempo un tratto qualificante della nostra parte e un orizzonte di massima verso il quale orientare l’iniziativa politica; ed è altrettanto evidente come da una ripoliticizzazione del lavoro passi la possibilità di ricostruire riferimenti sociali chiari a partire dai quali svolgere una funzione nazionale e, nella migliore delle ipotesi, sovranazionale.

Ciò detto, si pongono a mio avviso due ineludibili problemi di fondo.
Il primo sta nella difficoltà di veicolare ai più una nuova declinazione di questi due fronti, nella consapevolezza che una cultura politica si consolida là dove è stimolata e arricchita da un confronto, sicuramente orientato da una leva di intellettuali adeguata, ma che deve avere il suo baricentro tra coloro che compongono il corpo sociale di riferimento. E da qui consegue un primo assunto importante, da tenere ben presente: nel bene e nel male, a seconda dei giudizi di ciascuno, i vorticosi cambiamenti (o forse dovremmo dire sommovimenti) del nostro tempo confermano che la cultura politica di un partito non può prescindere da chi si vuole rappresentare, da quale analisi, da quale lettura si dà della storia recente e dei mutamenti ideologici che hanno segnato i passaggi fondamentali della storia mondiale. E qui sta il secondo problema, sempre stando al filo del nostro ragionamento. Una cultura politica non è tale se non fornisce gli strumenti adatti a sviluppare un proprio senso della Storia, a sviluppare l’indispensabile padronanza del passato, e cosa fondamentale, un’autonoma chiave di lettura di esso. Se non c’è questo, inevitabilmente il grado di permeabilità alle narrazioni altrui diviene via via più elevato. Ed è un attimo non vedere le origini dottrinarie, avverse alla tua parte, di chi ti dice, a voler fare qualche esempio, che l’economia è qualcosa di troppo complesso perché se ne occupino i Parlamenti, che l’estensione della partecipazione democratica rappresenta un rischio per lo sviluppo e la corretta conduzione dell’andamento economico generale, che, certo dispiace, ma i diritti del lavoro in momenti di crisi non possono che essere ragionevolmente sacrificati sull’altare della competitività. Di chi ti vuole convincere infine, e mi pare ci sia riuscito, di quanto sia anacronistica, obsoleta quella visione del mondo che guarda al lavoro come strumento di liberazione dai vincoli (che oggi sembra invece essere un’individualismo sfrenato con i risultati che vediamo), come mezzo di partecipazione al progresso materiale e spirituale della società di cui si è parte.

Per abbattere questi e altri ostacoli, la nostra cultura politica deve essere a mio avviso all’altezza di una sfida di notevole portata, che consiste nel dotarsi della giusta radicalità di analisi da rivolgere alla causa prima del nostro “impoverimento”, della nostra flessibilità ideale non intesa come necessaria apertura al nuovo, ma piuttosto come possibilità per chicchessia di compiere continue scorribande ideologiche nel nostro campo, facendo progressivamente a pezzi i nostri convincimenti fondamentali. Parlo in una parola della causa prima della nostra supina subalternità: gli esiti della quarantennale rivoluzione neoconservatrice1.

La sfida di cui parlo sta nella decostruzione verticale degli assunti di fondo della dottrina neoliberale, su cui si è opportunamente soffermato Salvatore [prof. Biasco, relatore, NdA]. La sua affermazione risale agli inizi degli anni ’70 ed è stata preparata da una lunga fase di incubazione e gestazione che affonda le sue radici addirittura prima della guerra. Badate, parlarne non è complottismo spicciolo o banale sottovalutazione degli agenti storici, di altra natura, intervenuti dal secondo dopoguerra, ma vuole essere una serena presa d’atto di una sconfitta subita non soltanto dalla declinazione sovietica della sinistra mondiale.
La rivoluzione neoliberale si è affermata sul campo, come dicevamo, del contrasto alle conquiste politiche e sociali che avevano portato alla declinazione della democrazia e del ruolo riconosciuto al lavoro sanciti, tanto per avere un riferimento politico e storiografico, nelle costituzioni occidentali, che non a caso sono ancora oggi il primo bersaglio della propaganda neoconservatrice.
Una cultura politica sufficientemente ambiziosa non può che porsi l’obiettivo di rovesciare l’antropologia sedimentata da questa straordinaria costruzione egemonica, proponendosi come alternativa radicale ad essa. In questo senso, non possiamo che ripartire dalla costruzione di una narrazione capace di affermare innanzitutto che un’alternativa al presente stato di cose è possibile. Non possiamo permettere che l’egemonia pur quarantennale di una parte possa ancora essere veicolata come il naturale comportamento dell’uomo. Dalla rilevanza quasi spirituale assegnata alla dimensione del consumo, alla libertà individuale come rinnegamento della dimensione collettiva, e potremmo continuare a lungo. Per far sì che una sfida di questo tipo non sia una battaglia di élite ma progressivamente acquisti le forme di una battaglia di popolo, cosa si presta meglio a una nostra controffensiva, se non gli ambiti dove l’uomo assume le proprie responsabilità dinnanzi a sé e agli altri e dove ha modo di realizzarsi in armonia con l’interesse generale, quali la democrazia e il lavoro?
Attraverso una loro declinazione che rifiuti la narrazione avversaria, e selezionando con il giusto rigore gli elementi di novità positivi che indubbiamente possono nascere nel nostro tempo, la nostra cultura politica potrà forse riuscire in quello che forse è il suo compito fondamentale: restituire, intanto nel senso comune (nei fatti è compito della politica propriamente detta farlo), centralità sistemica all’uomo, ai suoi bisogni, alle sue aspirazioni. Ci hanno messo 40 anni a convincerci che si tratta di velleità retoriche. Spero che ci occorrerà meno tempo per capire che ci siamo fatti prendere in giro.


1 http://www.pandorarivista.it/articoli/nel-labirinto-del-neoliberalismo/


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Scritto da
Tommaso Sasso

Studia giurisprudenza all'università di Roma 3. È membro del Comitato di redazione di Italianieuropei.

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