Recensione a: Piero Ignazi, Il polo escluso. La fiamma che non si spegne: da Almirante a Meloni, il Mulino, Bologna 2023, pp. 456, euro 19 (scheda libro)
Scritto da Andrea Germani
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Domenica 7 e lunedì 8 maggio 1972 si tennero le elezioni politiche anticipate per il rinnovo del parlamento italiano. La tornata elettorale si svolse regolarmente e i risultati non destarono grandi sorprese: con circa 13 milioni di voti, il 38,7% dei consensi, la Democrazia Cristiana (DC) si aggiudicò la vittoria mantenendo un ampio distacco dal concorrente principale, il Partito Comunista Italiano (PCI), fermo al 27,2% (9 milioni di voti); riconfermarono entrambi la precedente performance. Il Partito Socialista Italiano (PSI) tornò a correre da solo, dopo l’esperienza del Partito Socialista Unificato (PSU), raggruppando oltre 3 milioni di scelte, il 9,6%. La sinistra radicale del Partito Socialista di Unità Proletaria (PSIUP), nato da una scissione interna al PSI, perse oltre 700.000 voti; discorso analogo per uno storico partito di centro-destra, il Partito Liberale Italiano (PLI), che ne perse più di mezzo milione, fermandosi al 4%. Nel pieno del decennio di massima tensione, il partito che crebbe più di tutti fu il Movimento Sociale Italiano (MSI), fronte di estrema destra nato nel 1946 per radunare i reduci della Repubblica Sociale Italiana che intendevano partecipare al gioco democratico senza rinunciare alle idee dell’ultimo fascismo. A schede conteggiate, il MSI poteva calcolare 2,9 milioni di voti alla Camera e 2,8 circa al Senato (8,7% e 9,2%), più che raddoppiando consensi ed eletti in parlamento e diventando il quarto partito italiano, posizionamento che mantenne fino alla fine della Prima Repubblica.
Quello del 1972 fu il miglior risultato di un partito relegato ai margini della vita politica italiana, considerato spesso un movimento illegittimo, non avendo mai aderito ai valori dell’antifascismo, a lungo ritenuti vincolanti per entrare a far parte dell’arco costituzionale. Non solo: il passato di molti dirigenti missini – provenienti dalle fila del governo fascista o delle milizie repubblichine – è sempre stato mal digerito dalla maggioranza degli italiani. Per non parlare dei molti casi di violenza e di dimostrata vicinanza a gruppi eversivi da parte dei militanti, soprattutto dell’organizzazione giovanile Fronte della Gioventù (FdG). Il MSI si altalenò fra legittimità e rischio di illegalità per mezzo secolo di vita, fino alla trasformazione in Alleanza Nazionale (AN), creatura voluta dall’ultimo segretario Gianfranco Fini, fautore di una svolta centrista e moderata resa pubblica al XVIII Congresso del partito, tenutosi a Fiuggi nel gennaio 1995.
Il 25 settembre 2022 si sono tenute le ultime elezioni politiche. Anche questa volta anticipate, anche questa volta una forza di estrema destra ha raggiunto risultati inauditi. Fratelli d’Italia (FdI) ha ottenuto il 26% dei consensi, guadagnando più di 7 milioni di voti e diventando il partito incaricato di formare il governo che giurerà il 22 ottobre 2022 (Meloni I). Mezzo secolo dopo quel 1972, un partito di destra, diretto erede del MSI, esprimeva per la prima volta nella storia un capo di governo. Fondato nel 2012 da dirigenti delusi dalla scelta di dissolvere AN entro il Popolo della Libertà, FdI sorse per recuperare l’identità nazionalista e social-conservatrice del MSI, declinandola in chiave “sovranista”, centrando tutto su politiche securitarie e tradizionaliste, unite ad un forte euroscetticismo. Oggi FdI usa lo storico simbolo missino, una fiamma tricolore. Simbolo di difficile interpretazione: secondo alcuni si tratta di un’analogia della fiamma che arde sulla tomba di Benito Mussolini a Predappio, secondo altri, niente più che un rimando alle fiamme nere degli arditi, reparto d’assalto dell’esercito italiano durante la Prima guerra mondiale entrato nella mitologia fascista sin dagli albori del movimento.
Molte cose sono cambiate in cinquant’anni; le prime a saltare all’occhio si notano confrontando la mappa del voto e i due modelli di governance proposti al Paese. Il MSI nel 1972 ottenne buona parte dei voti nelle sue tre roccaforti (le province di Roma, Napoli e Trieste) e nel meridione. Sicilia, Campania, Calabria, Lazio e, in misura minore, Puglia, Abruzzo e Sardegna furono le regioni più importanti per il partito in termini di voti, radicamento territoriale e numero di tessere. Per quanto Milano e Roma spiccassero come città di grande rilevanza per la gioventù missina e la sua enorme forza di mobilitazione, e Trieste come base strategica della propaganda anticomunista e nazionalista del partito, il MSI rimase una forza meridionale, a tratti meridionalista. Diversa la geografia della “terza ondata”: nel 2022 FdI ha superato il 30% quasi ovunque in Lombardia, in Veneto e nella ex “rossa” Umbria, e ha raggiunto il 25% in Liguria, Toscana ed Emilia-Romagna. Tutti territori in cui il MSI arrivava a fatica al 5% dei consensi. Caso opposto a Sud, con dei “miseri” 14% nel napoletano e 18% nella Sicilia occidentale.
Non solo numeri: il MSI era noto per essere un partito che sapeva fondere ribellismo e ordine, voto di protesta con voto poliziesco, e proponeva ricette economiche e politiche al limite del populismo, il tutto condito da una narrazione identitaria terzo-posizionista: avversari di Mosca quanto di Washington. FdI sembra aver allentato la presa sui temi cari al fronte nazionalista in favore di una piena adesione ai valori occidentali e all’alleanza con gli Stati Uniti, alle scelte militari e strategiche della NATO in merito alla resistenza ucraina, e a ricette economiche in linea con la governance liberista che accomuna pressoché tutti i Paesi occidentali. Il partito è sicuramente cambiato nel tempo, ma come si arriva ai successi del 1972 e, soprattutto, del 2022?
Piero Ignazi ha ricostruito la storia del partito fondato il 26 dicembre 1946 nello studio romano dell’assicuratore Arturo Michelini, che del MSI fu segretario dal 1954 al 1969, assieme, fra gli altri, ai giornalisti ed ex-repubblichini Giorgio Almirante, segretario dal 1969 al 1988, e Pino Romualdi, deputato dal 1953 al 1983. Il partito intendeva riunire tutti quei “vinti” che nel Dopoguerra formarono gruppuscoli di reduci – il Fronte dell’Italiano, il Movimento Italiano di Unità Sociale o il Fronte del Lavoro – giornali e fogli nostalgici – il Meridiano d’Italia, il Pensiero Nazionale, il Merlo Giallo o Rivolta Ideale – o anche gruppi clandestini paraterroristici – fra cui spiccano i FAR, Fasci di Azione Rivoluzionaria, attivi dal 1945 al 1951, noti per aver trafugato la salma di Mussolini nel 1946. Uomini guidati da ideologi (Julius Evola), leader militari (il principe Junio Valerio Borghese) e aspiranti capipopolo (Pino Rauti e Clemente Graziani), uniti dall’essersi trovati “dalla parte sbagliata della storia” per non aver tradito il regime a cui avevano giurato fedeltà, in nome di un codice d’onore che il democraticismo avrebbe reso obsoleto e il materialismo di liberali e socialisti annichilito in nome dei valori moderni.
«La volontà di trovarsi tra i “vinti” per mantenere viva “l’idea” e coltivare speranze (e illusioni) di riscatto aveva alimentato varie ipotesi, in un clima di grande incertezza» (p. 15). Queste parole aprono la seconda edizione di Il polo escluso di Piero Ignazi (il Mulino 2023), data alle stampe 34 anni dopo la versione originale, aggiornata proprio per rendere conto dell’evoluzione del partito nel trentennio che separa gli ultimi anni del MSI dall’apoteosi di FdI. Il salto qualitativo e “istituzionale” è decisamente notevole: volendolo immaginare come un unico partito – nella sua evoluzione temporale MSI-AN-FdI –, vediamo una forza politica passata dalle violenze di piazza (come la battaglia di Valle Giulia a Roma del 1° marzo 1968, e il “Giovedì nero” di Milano del 12 aprile 1973), dalla connessione con formazioni ritenute dagli studiosi il luogo di provenienza di stragisti ed eversori (Centro Studi Ordine Nuovo, attivo dal 1956 al 1969, Avanguardia Nazionale, attiva discontinuamente dal 1960 al 1976) e dall’ingresso di militari sospettati di aver preso parte a progetti eversivi (Vito Miceli, probabile partecipante dell’organizzazione Rosa dei Venti, deputato MSI dal 1976 al 1987; Giovanni de Lorenzo, sospetta mente del “Piano Solo”, deputato MSI dal 1971 al 1973) a una completa legittimazione, frutto di un abbandono progressivo degli elementi di illegalità, della violenza di piazza e degli incitamenti all’eversione.
Questa evoluzione lunga quasi ottant’anni viene ricostruita nei dettagli da Ignazi, autore, allora trentenne, del primo studio organico sulla quarta forza politica italiana e, forse, la seconda più attenzionata d’Italia (dopo il PCI) da amici e nemici politici, ma anche da servizi segreti nazionali e internazionali. La prima versione del 1989 ottenne il plauso di colleghi accademici e giornalisti di area[1] diventando presto una pietra miliare della “partitologia” dell’Italia primo-repubblicana; oggi torna nelle librerie per aiutare lettori, ed elettori, a comprendere tanto le linee di continuità quanto i punti di rottura che stringono legami, sciogliendone altri, con quello che nacque come il movimento ufficiale dei nostalgici del fascismo. «Non rinnegare e non restaurare» è il motto che «codifica l’atteggiamento del MSI nei confronti del fascismo» (p. 50) nella sua forza sindacale, CISNAL (Confederazione Italiana Sindacati Nazionali dei Lavoratori), nel suo organo di stampa, Il Secolo d’Italia, nella sua formazione reducista, FNCRSI (Federazione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale Italiana) poi UNCRSI (Unione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale Italiana), in quella giovanile, FdG, e in quella universitaria, FUAN (Fronte Universitario d’Azione Nazionale), oltre che nelle sue fazioni interne: la sinistra e la destra, le correnti “spiritualista”, “micheliniana”, “rinnovamento”, l’anima cattolica e quella laica, o magari quella internazionalista e rivoluzionaria e, dall’altra parte, la più reazionaria e antiegualitaria. Tutti accomunati da quello che è l’unico vero dogma che serrava i ranghi del partito: l’anticomunismo. Anche Dio e Patria furono progressivamente sacrificati in favore di laicità o neopaganesimo (i “Campi Hobbit” e la via italiana alla nouvelle droite di fine anni Settanta e inizio anni Ottanta), e di fronte al riconoscimento della rabbia autonomista sarda e, soprattutto, altoatesina.
«Ci sono vari modi di essere anticomunisti: il nostro è quello di Nazione e Lavoro, non della destra economica» (p. 86): così Almirante al V Congresso del 1956, con una frase che potrebbe definire la cifra di buona parte del popolo missino e dei suoi eredi. La battaglia culturale, politica e “di piazza” contro il comunismo ritorna sempre e costituisce la base fondante di una storia di inimicizie e vendette che resero il MSI il partito più odiato d’Italia. “Genova 1960” è una delle prove del rigurgito antifascista, dunque anti-missino, di una città medaglia d’oro della Resistenza (si veda il capitolo 4: Genova 1960: fine dell’illusione, pp. 92-99). Ma anche i Moti di Reggio (luglio 1970 – febbraio 1971), in cui il MSI mostrò di non essere necessariamente un partito d’ordine ma, anzi, una forza anche ribellista, soprattutto nelle aree urbane del Sud.
Almirante definì il MSI un partito «proletario con una base meridionale» e un «movimento prima di tutto degli emarginati» (p. 146). Gli anni Settanta segnano la fine del neofascismo e l’inizio della svolta non-fascista, del “compromesso almirantiano” e del grande progetto della “Destra Nazionale” (MSI-DN dal 1972, si veda il capitolo 3. La Destra Nazionale: presupposti politici e culturali, pp. 148-158), ma, allo stesso tempo, gli anni della feroce violenza giovanile che, nei casi più eclatanti, portò fuoriusciti del MSI a prendere parte al terribile “spontaneismo armato” dei Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR), giovani in rotta di collisione con la dirigenza che scelsero il terrorismo per muovere guerra alla democrazia dei partiti, dunque anche al MSI. Ma non esclusivamente momenti bui, anche relativa calma e pacifico inserimento (si veda il capitolo IX: La legittimazione, pp. 219-252).
Il MSI era un partito strutturato corporativisticamente (si veda: Le strutture corporative, pp. 278-281) che toccò 451.897 iscritti proprio in quel vittorioso 1972 e 3.784 sezioni nel 1979: circa la metà dei circoli e dei tesserati si concentrò nelle regioni meridionali per pressoché tutto il cinquantennio di vita del movimento. Le macrocategorie di riferimento furono sempre «giovani», «militari e reduci», e «il mondo del lavoro» (p. 300) e la periodizzazione può dividersi in sei fasi – al 1987, anno in cui l’autore termina la raccolta dei dati –: 1946-1948, la fase fluida; 1948-1954, l’istituzionalizzazione; 1954-1970, la stabilizzazione; 1970-1973, la rivitalizzazione; 1973-1977, l’apertura; 1977-1987, il cesarismo. La narrazione popolarista e masaniellista che il partito tentò a lungo di vendere viene smentita da molti dati, riportati approfonditamente da Ignazi: la dirigenza veniva dalle classi più agiate della borghesia, spesso residente a Roma; più della metà di militanti e funzionari (quasi esclusivamente maschi) aveva svolto studi universitari, perlopiù liberi professionisti, o quadri e dirigenti nella pubblica amministrazione o nel terziario. Quasi tutti i tesserati provenivano da famiglie conservatrici.
Più vario il profilo elettorale. Sicuramente alcuni punti fermi restano: la provenienza medio-borghese della maggioranza della base (molti studenti); l’urbanità del voto; un alto tasso di preferenze; la vicinanza al partito di membri della forza pubblica (che, assieme a un basso numero di disoccupati, costituivano la fazione più popolare del partito); la maggioranza di voti raccolti nelle città meridionali, cui si aggiungevano Roma – 258.000 voti nel 1971, pari al 16% dei consensi – complice la fascistizzazione della Capitale voluta da Mussolini e l’ingombrante presenza di molti fascisti impenitenti a guerra finita; Trieste – 34.000 voti nel 1958, 16% del totale – e Bolzano – 31.000 voti nel 1987, il 10%, ottimo risultato vista la media dei partiti italiani in Alto Adige – per una più ampia questione “italiana” delle terre di confine; il movimentismo nelle città universitarie e nelle metropoli, con il caso scuola di Milano.
Proprio dalla gioventù missina viene Giorgia Meloni, primo ministro e leader indiscusso di FdI. Aderì a FdG nel 1992, diventando responsabile nazionale di Azione Studentesca, gruppo di raccolta degli studenti medi di AN, parte della più ampia formazione giovanile “aennina” Azione Giovani, di cui Meloni divenne dirigente nazionale nel 2000. Gavetta che la portò prima al Consiglio della Provincia di Roma (1998 – 2002), poi alla Camera dei deputati a soli 29 anni, nel 2006. Intanto il partito cambiava volto e stringeva alleanze con le altre forze di destra, arrivando a Palazzo Chigi nel 1994 e tornandovi più volte, sempre nei governi guidati da Silvio Berlusconi. Proprio nell’ultimo di questi (Berlusconi IV, 2008-2011) Meloni diverrà Ministro per la gioventù. Gli anni Dieci del XXI secolo saranno fondamentali per il posizionamento di FdI nell’arco partitico italiano, e di Meloni nell’arena politica europea (presidente del Partito dei Conservatori e dei Riformisti Europei dal 2020) e globale (invitata come speaker alla più importante conferenza dei conservatori americani, la Conservative Political Action Conference – CPAC, dal 2019 al 2022).
Ignazi nella postfazione aggiunta (L’altalenante percorso della fiamma, 1990 – 2022, pp. 411-453) ricompone il filo che collega Almirante a Meloni, facendo luce sull’evoluzione di un partito, il MSI, nato quasi clandestinamente un anno dopo la fine delle ostilità, faticosamente diventato la quarta forza politica, e il cui maggiore successo passò da un 9% scarso nel 1972 al 13,5 % di AN nel 1994, per arrivare al 26% dello scorso anno, e alla nascita del primo governo di destra della storia repubblicana. Come qualcuno ha commentato, “il governo più a destra dai tempi del fascismo”. Quel fascismo con cui i conti non sono, probabilmente, ancora chiusi del tutto.
[1] Il Secolo d’Italia il 29 giugno 1989 scrive: «L’autore è estraneo al nostro percorso politico-culturale, ma questo non gli impedisce, anzi forse lo aiuta a rompere i vecchi schemi e a fornire un lavoro completo e organico».