Il populismo: una ermeneutica globale per narrazioni particolari
- 05 Novembre 2014

Il populismo: una ermeneutica globale per narrazioni particolari

Scritto da Fabio Gualandri

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Populismo è la categoria socio-politica che informa inequivocabilmente il dibattito contemporaneo, scagliato come un anatema contro l’avversario elettorale, ripreso e volgarizzato dall’informazione di massa e infine sviscerato dagli intellettuali. È il popolo che si vorrebbe fare demiurgo senza intermediari ma nell’epoca dei media questo spesso avviene solo attraverso una un catalizzatore carismatico.

Popolo, people, narod, peuple, pueblo, wolk, renmin potrebbero apparire i referenti lessicali di un unico e univoco concetto: quella comunità umana che si auto identifica come tale, fondandosi su una presunta omogeneità di elementi materiali ed ideali, nella modernità sanciti dalle costituzioni, o quella racchiusa all’interno di un territorio definito. Questa equazione semantica si colloca necessariamente nella Storia, ovvero nel tempo e nello spazio e queste variabili introdotte possono alterarne la correlazione logica lineare fra l’oggetto del popolo e la sua stessa definizione, poiché i fattori che delimitano i confini fra differenti raggruppamenti umani sono instabili e variegati, mutando con la metamorfosi delle condizioni storiche.

La sua genesi è quasi paradossale se pensiamo che il termine populismo è entrato nel vocabolario politico al tramonto del XIX secolo legato a movimenti sorti al di fuori del Vecchio continente, in quel limbo culturale in cui gli influssi europei si fondono con peculiarità locali facendo emergere gli opposti ma speculari eccezionalismi russo e nordamericano.

Il “people” e il “narod” a cui fanno appello i movimenti delle origini vivono nelle sterminate pianure continentali innervate dal tradizionalismo religioso, da una cosmologia millenarista, dalle consuetudini agricole e dallo spirito della frontiera. Il richiamo alla redenzione palingenetica del popolo come unità organica e agente salvifico contrapposto alle soverchie delle élites, che assume i tratti evangelici della cacciata dei mercanti dal tempio, è un aspetto tipizzante della maschera messianica indossata dai conducadores animatori delle folle di ogni latitudine.

Anche se si manifesta come un epifenomeno post-moderno, in Italia plasticamente reso dal feticcio dell’invisibile Leviatano informatico e si materializza esteticamente travolgente come le avanguardie degli anni ’20, non è certo l’homme citoyen della Bastiglia o il proletariato urbano della rivoluzione industriale il referente originario del discorso populista.

In quell’humus ideologico e culturale, ancora vitale nell’America profonda e nella nuovelle vague eurasiatista dei salotti politici moscoviti, si innestano sia il Tea Party nella sua crociata contro i burocrati della capitale e il bellicismo interventista dei falchi repubblicani sia le gesta spettacolari del presidente russo, protettore del suolo e dello spirito patrio, rinsaldando una antica alleanza di sapore zarista fra trono e altare.

Per quanto intrinsecamente conservatore e talora arcaico, plasmando nuove sub identità o ritrovati sciovinismi xenofobi, lo spettro del populismo s’aggira per l’Europa secolarizzata del nuovo millennio, minacciata dalla globalizzazione che solo i paesi egemoni riescono fronteggiare: dalle avvisaglie transalpine e subalpine in nome della France éternelle di Le Pen o delle camicie verdi leghiste fino alla calata dei Farage, Wilders, Alba Dorata e Orban, tutta la periferia, e i nuovi centri della semi-periferia rispetto al monolita teutonico ,sono attraversati da un sisma antisistemico.

Come dimostra l’eterogeneità dei movimenti emersi a cavallo di tre secoli, il populismo come categoria politica crea problemi di classificazione e inquadramento. La tassonomia dei recenti populismi europei dunque è necessario filtrarla attraverso una prospettiva storica di lungo periodo e una panoramica globale di ampio respiro. “Provincializzare l’Europa” non è una operazione di paternalismo intellettuale ma un dato di fatto imposta dalla demografia e dall’economia.

Se del populismo peronista, di Nasser o nell’alveo delle democrazie liberali europee molto si è già scritto, meno si sono analizzati da questa prospettiva fenomeni più lontani culturalmente o cronologicamente molto recenti.

Nel socialismo, che come forma politica nelle sue strutture amministra una superpotenza in fieri, sono stati scorti i tratti del populismo quando un leader forte emerge sul collettivo della classe dirigente e in particolare sul Politburo ristretto al vertice supremo dello Stato – partito. Nell’era sovietica, il periodo staliniano con le sue simbologie e le sue mobilitazioni potrebbe attagliarsi ma la veloce normalizzazione di Kruscev e la spossatezza del sistema che lo ha successivamente portato al collasso, forse lo contrassegnano più come una parentesi eccezionale che come un tratto caratteristico dell’epoca.

Il caso storico più pertinente potrebbe essere considerata la Cina post-rivoluzionaria, dalla cui dirigenza collegiale formata nella Lunga Marcia e nella guerra di liberazione antigiapponese emerse lo stratega Mao Tze-Dong. La Cina popolare dagli anni ’50 agli anni ’70 esprime una delle forme più compiute di populismo carismatico attraverso il rapporto diretto con le masse e la mitizzazione del contadino, soggetto rivoluzionario nella rielaborazione maoista del marxismo e motore della millenaria evoluzione storica cinese, fino a giungere agli eccessi della Rivoluzione culturale.

La storiografia potrà qualificare quei tumultuosi sommovimenti sociali solo come una grandiosa operazione contro avversari di fazione e un folle esperimento economico comunitarista ma quei terremoti che hanno segnato la coscienza storica della Cina continentale, restano dalla prospettiva di una analisi dei fenomeni populisti una ineguagliabile testimonianza della fede nella visione e nelle qualità quasi taumaturgiche del condottiero a cui volontariamente o forzosamente è stato dedicato lo sforzo estremo di un popolo, tendendo all’orizzonte di una rigenerazione morale e di un sogno di prosperità. Il maoismo è disseminato di richiami alla forza dirompente della volontà collettiva capace di trasformare radicalmente la società e addirittura forzare le tappe dell’accumulazione capitalista primaria durante il Grande Balzo in Avanti.

L’ingloriosa fine della cosiddetta Banda dei Quattro alla morte del Grande Timoniere sancì però una cesura irrevocabile con l’integrazione del titano giallo nel sistema economico globale sotto la guida di Deng Xiaoping e questa mutazione comportò trasformazioni profonde generando nuovi attori sociali e centri di potere. La comparsa di un affluente ceto urbano e la necessità di rappresentare gli emergenti ceti imprenditoriali motori della crescita economica, rese gradualmente più complesso governare un ambiente socio-politico più stratificato attraverso il contatto non mediato con il popolo e le generazioni successive si risolsero di conseguenza ad adottare uno stile di comando collegiale ed estremamente pragmatico.

La profusione di elementi simbolici non si eclissò con la scomparsa del padre della Repubblica Popolare ma è una condizione strutturale della narrativa politica cinese. L’epifania delle aperture è stata sancita dal viaggio al Sud, tradizionalmente più ricco e dinamico, del Piccolo Timoniere, un gesto che ha richiamato un antico rituale imperiale di riaffermazione del potere politico e dell’autorità centrale verso le riottose provincie meridionali, prodromo necessario ad ogni cambiamento nel tragitto storico del gigante asiatico. Dalla campagna maoista delle “Cento scuole”, alla costruzione delle ciclopica diga delle Tre Gole, dalle “le tre rappresentanze” alla “società armoniosa” gli slogan che hanno segnato il susseguirsi delle leadership sono parte di un racconto specificamente nazionale e culturalmente autoreferenziale che solo una esperta platea di esperti di sinologi ed analisti riesce a cogliere nelle sue raffinate sfumature, una descrizione di sé stessi trasmessa all’esterno solo nei suoi aspetti più evocativi e intellegibili.

I diversi populismi sono intrisi dello spirito del tempo. Una panoramica latinoamericana dell’ultimo decennio riflette il populismo di sinistra come il prodotto del rigetto delle ricette economiche neoliberali imposte dalle istituzioni del Washington consensus. Dagli esperimenti bolivariani in Venezuela e in Bolivia, alle varianti più orientate verso il mercato dell’Argentina dei Kirchner, del Brasile di Lula e del Cile della Bachelet, fino all’Ecuador e all’Uruguay, tutto il continente ha espresso differenti ma peculiari modelli socio-politici di populismo progressista, coniugandoli con progetti integrazionisti.

Il ritorno della religione sulla scena, riporta ancora una volta alle radici del populismo. L’avanzata irrefrenabile dell’ISIS e il precipitare dell’intero Medio Oriente in un conflitto settario sono solo un aspetto di un arco di consenso più ampio da cui si alimenta Hamas, Hezbollah, la teocrazia iraniana e la Fratellanza Musulmana nel Maghreb e nel Mashriq islamico, capaci di supplire attraverso l’applicazione delle prescrizioni di carità e solidarietà sociale del dettato coranico all’inesistenza del welfare statale. L’AKP di Erdogan in Turchia è progressivamente riuscito a conquistare il sostegno silenzioso del cuore anatolico di un paese di salde tradizioni kemaliste e laiche, coniugando libero mercato e tradizionalismo morale in salsa revanscista neo-ottomana.

L’India del nuovo primo ministro Narendra Modi costituirà un laboratorio estremamente interessante per i populismi in cui si uniscono diverse tendenze della globalizzazione, attuato in una arena democratica e multiculurale. Il Partito del Popolo al governo si ispira ad una versione edulcorata dell’Hindutva, la teoria secondo la quale il subcontinente caleidoscopio di lingue e culture apparterrebbe legittimamente solo alla comunità induista. Modi non rinnega l’appartenenza all’associazione di estrema destra a cui apparteneva l’assassino di Gandhi ma la sua retorica sfavillante e la cura neoliberista di successo con cui ha guidato con piglio autoritario lo Stato del Gujarat, faranno passare sogno indiano per questa bizzarra fusione fra Milton Friedman e i Veda.

Al termine di questa disamina, si potrebbe affermare che una piattaforma programmatica unitaria dei movimenti populisti è intrinsecamente impossibile. Il problema fondamentale del populismo, né di destra né di sinistra né religioso, è che non verte su alcuna teoria, non vi è alcuna Weltanschaaung su cui soggiace. Il liberalismo ha dato vita e plasmato la scienza politica stessa, le ideologie novecentesche hanno spesso costruito sulla prassi le proprie dottrine ma il socialismo e il liberalismo erano sempre declinazioni nazionali di una narrazione universale, il populismo è invece una somma di particolarismi senza alcuna possibilità di reciproca interrelazione e dunque di codificazione ermeneutica. O forse la contemporaneità si riduce ad un mero equivoco di significati.

Scritto da
Fabio Gualandri

23 anni. Dottore con lode in Scienze sociali per la globalizzazione all’Università di Milano. Laureando in Scienze cognitive e processi decisionali. Ha studiato l’area ex sovietica all’I.S.P.I. poi a Mosca, S.Pietroburgo, Odessa e Politiche pubbliche della R.P.C. presso l’Università di Pechino. Ha coordinato progetti di cooperazione europea. Parla 7 lingue straniere. Presidente commissione Affari istituzionali del C.d.Z 8 del Comune di Milano, è segretario del circolo G.D. Zone 7-8.

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