Il potere della crisi: dal nuovo libro di Ian Bremmer
- 08 Luglio 2022

Il potere della crisi: dal nuovo libro di Ian Bremmer

Scritto da Ian Bremmer

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Ian Bremmer è uno dei più autorevoli politologi a livello internazionale. Il suo ultimo libro, Il potere della crisi. Come tre minacce e la nostra risposta cambieranno il mondo, è recentemente uscito in edizione italiana per Egea Editore. L’opera affronta le implicazioni di un trittico di crisi incombenti a cui i conflitti nazionali e internazionali ci espongono: le emergenze sanitarie globali, un cambiamento climatico catastrofico e la rivoluzione dell’intelligenza artificiale. Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’editore, un estratto del testo.


Un sorridente Xi Jinping agitava la mano in segno di ringraziamento per il caloroso applauso che lo accompagnava sul palco dove avrebbe tenuto il discorso più atteso del World Economic Forum 2017. È stata la prima volta in assoluto che un presidente cinese faceva la sua apparizione a Davos, e una platea solitamente distratta, composta principalmente dall’élite politica e imprenditoriale del mondo capitalista, era ansiosa di ascoltare ciò che Xi aveva da dire. Il presidente ha impiegato pochi minuti per dirci che per la Cina era giunto il momento di cambiare la storia. Due anni prima Xi aveva presentato la sua strategia «Made in China 2025», un piano programmatico per conquistare la supremazia globale nell’intelligenza artificiale, nell’informatica quantistica, nella robotica e in altri ambiti tecnologici. Come disse nel 1990 l’ex leader Deng Xiaoping, la Cina avrebbe fatto meglio a «tenere nascosta la sua forza e ad aspettare il momento giusto». Ma in quella mattina di gennaio del 2017 a Davos Xi ha fatto capire senza mezzi termini che la Cina aveva smesso di nascondersi e di aspettare.

«Era il migliore dei tempi, era il peggiore dei tempi», ha esordito Xi. L’incipit di Charles Dickens era chiaramente stato scelto per far presa sul suo auditorio. Il presidente ha spiegato perché la Cina aveva fatto bene ad adottare una strategia di sviluppo economico stabilita dallo stato, in cui le aziende leader del paese sarebbero state cinesi, seguite a debita distanza dalle multinazionali. Ma il momento clou è stata la sua energica e accalorata difesa del globalismo, la tesi secondo cui l’interdipendenza tra le nazioni rende tutti più forti. Ha condannato il populismo e il protezionismo, due biasimi tanto più vistosi per il loro implicito sottinteso: l’altra notizia di spicco quella settimana sarebbe stata l’insediamento del nemico giurato del globalismo Donald Trump tre giorni dopo.

Nove mesi dopo Xi parla da un altro palco, quello del 19° Congresso del Partito comunista cinese. In tale occasione si spinge ben oltre nel presentare la sua visione per il futuro della Cina[1]. Annuncia per il suo paese e il suo popolo «una nuova era», in cui la Cina conquisterà una posizione «più vicina al centro» sulla scena politica globale. Presenta la Cina come una «nuova opzione per altri paesi», un’alternativa alla democrazia occidentale, e illustra quella da lui stesso definita la «soluzione cinese» ai problemi del mondo. Sotto la leadership di Xi la Cina è passata dall’invocare una riforma dell’attuale sistema internazionale a contribuire a ideare tale slancio riformista e quindi all’ambizione di guidarlo. I suoi leader immaginano una Cina che domina l’Est asiatico, e a tal fine intendono inasprire il controllo politico a Hong Kong, fare pressioni su Taiwan affinché smetta di opporre resistenza alla richiesta di Pechino di riunificazione con la terraferma e costruire metodicamente la sua forza militare nel Mar cinese meridionale.

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Focolai

Sono molti gli inneschi in grado di portare i due paesi allo scontro negli anni a venire. Iniziamo dal più pericoloso. Nel 1996 la Cina lanciò dei missili balistici in mare per intimidire Taiwan. Per mandare un messaggio di risposta a Pechino, il presidente Clinton inviò due portaerei nello Stretto di Taiwan. La Cina arretrò. Questo succedeva un quarto di secolo fa. Negli anni che seguirono la Cina ha speso migliaia di miliardi in missili, sistemi di difesa aerea e sottomarini moderni, armi cibernetiche e altre armi da guerra degne del XXI secolo. A marzo 2021 il quotidiano del Partito comunista People’s Daily riferiva che il presidente Xi aveva esortato l’esercito e la polizia cinesi a «prepararsi al combattimento»[2] per difendere la sovranità del paese, e un noto studioso cinese formulava la previsione che Xi avrebbe voluto «accelerare la risoluzione della questione di Taiwan durante il suo terzo mandato da presidente». Vale a dire tra il 2022 e il 2027. A marzo 2021 un alto ammiraglio statunitense ha avvertito che la Cina potrebbe invadere Taiwan «nei prossimi sei anni»[3]. Se oggi la Cina lanciasse dei missili su Taiwan, come risponderebbe il presidente Biden? Se dovesse seguire l’esempio di Clinton, Pechino arretrerebbe anche questa volta? E se così non fosse? E tra cinque anni?

In Asia l’equilibrio del potere militare è cambiato. Gli Stati Uniti hanno stipulato accordi in materia di difesa con decine di paesi, mentre la Cina si è impegnata a difendere solo la Corea del Nord. Ma gli Stati Uniti andrebbero realmente in guerra con una potenza nucleare come la Cina per conto del Vietnam e delle Filippine per impedire il predominio cinese nel Mar meridionale? Se decidessero di farlo, quanti alleati si schiererebbero al loro fianco?

Uno scontro USA-Cina sarebbe più pericoloso della Guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’URSS perché verrebbe combattuto con armi cibernetiche e di altro tipo che, come discusso, impedirebbero a entrambe le parti di visualizzare il reale equilibrio di potere, rendendo più probabile un’escalation. E il conflitto riguarderebbe meno l’ideologia comunista o capitalista e più il potere economico e tecnologico. A differenza dell’Unione Sovietica, la Cina non sta esportando un’ideologia, per quanti principi marxisti-leninisti possa enunciare Xi Jinping in patria. Sta chiedendo al mondo di essere vista come una nazione forte, capace, saggia, benevola e intera (dove «intera», per inciso, significa che Taiwan fa parte della Cina).

La questione più destabilizzante non riguarda una determinata isola o uno specchio d’acqua in particolare, e non ha niente a che fare con i dazi. È una battaglia sul futuro della tecnologia – strumenti di comunicazione di prossima generazione, machine learning, software di sorveglianza, intelligenza artificiale – cui è dedicato un intero capitolo di questo libro. La Cina è già una superpotenza tecnologica, e c’è già un assetto bipolare da Guerra fredda nel rapporto tecnologico USA-Cina, che inciderà su tutte le regioni del mondo. Nei mercati delle materie prime, dei beni e dei servizi, America e Cina sono sia concorrenti che (potenziali) alleate. Entrambe vogliono aumentare la propria quota di mercato, ed entrambe beneficia- no di un sistema di scambio aperto. Le guerre commerciali possono essere iniziate per conseguire obiettivi specifici, ma il commercio non è di per sé una competizione a somma zero. Nel commercio l’«ordinaria amministrazione» conviene a tutti. È un fondamentale argomento a favore della pace e della prosperità globale.

Ma il mercato globale dei dati e delle informazioni si sta ora spaccando in due. In principio internet – il World Wide Web – era retto da un unico insieme di standard e regole. Salvo pochissime eccezioni, ogni utente aveva praticamente lo stesso accesso di qualsiasi altro. Non più. La Cina e gli Stati Uniti stanno ora costruendo due ecosistemi online completamente distinti. Ciò vale per la trasformazione di internet così come lo conosciamo oggi ma anche per l’internet delle cose (Internet of Things, IoT), la rete creata dalla connessione a internet di dispositivi di vario tipo come elettrodomestici, automobili, dispositivi medici indossabili e satelliti. L’ecosistema tecnologico americano, con tutti i suoi pregi e difetti, è costruito dal settore privato e (blandamente) regolamentato dal governo. Il sistema cinese è dominato dallo stato. Lo stesso dicasi per la raccolta dei big data, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, il lancio della tecnologia 5G e le azioni di difesa e ritorsione contro gli attacchi cibernetici.

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Attraverso la sua strategia della Nuova Via della Seta, la Cina ha già investito più di cento miliardi di dollari in infrastrutture di altri paesi. Questa iniziativa potenzia l’influenza di Pechino nelle nazioni interessate, ma, una volta realizzate, tali opere possono essere utilizzate da tutti. La competizione tecnologica è diversa. Spaccare in due l’ecosistema tecnologico globale crea spazi di informazione e di dati separati. In questo modo una Guerra fredda tecnologica tribalizzerebbe l’umanità in modi nuovi. Se gli americani che guardano canali via cavo diversi vedono versioni completamente diverse del proprio paese, immaginate l’antinomia USA-Cina in un mondo diviso da regole e standard diversi. È un «noi contro di loro» su scala globale. Lo scenario di uno «splinternet», ossia di due ecosistemi tecnologici paralleli, non è solo una minaccia alla globalizzazione; è uno scontro che chi crede nelle libertà politiche rischia di perdere. Il risultato ideale di ciascuna parte è l’eliminazione dell’altro sistema. È un gioco a somma zero, nonché la maggiore sfida alle speranze di una futura alleanza tra le rivali America e Cina.

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L’ascesa cinese offre delle opportunità

Per costruire l’alleanza che serve a evitare una Guerra fredda e lavorare insieme sui problemi mondiali più urgenti, gli americani devono riconoscere il valore dell’ascesa cinese. Innanzitutto, chiunque affermi che i valori e la leadership occidentali sono il fondamento essenziale di un futuro sicuro, equo e prospero deve fare i conti con la realtà: la leadership occidentale ha contribuito a portarci nell’attuale caos globale, in cui la crisi è sempre dietro l’angolo. Le divergenze di vedute tra Europa e Stati Uniti – e la polarizzazione sempre più aspra in molti paesi occidentali – sono davanti agli occhi di tutti.

La crisi finanziaria globale non è cominciata in Cina. La responsabilità di quella crisi è degli Stati Uniti, poiché l’incapacità di Washington di regolamentare adeguatamente i prestiti ha innescato una reazione a catena nel settore bancario globale che ha inferto danni gravissimi in tutto il mondo. Chi sostiene che il commercio transfrontaliero sarebbe in grado di creare una prosperità diffusa deve riconoscere che è la Cina, non l’America, a essere diventata una potenza del commercio globale. Non solo: le potenze occidentali non sono riuscite a contenere il coronavirus con la stessa efficacia di Pechino. I paesi occidentali sono in disaccordo su come combattere il cambiamento climatico, su come regolamentare le nuove tecnologie, su come gestire i confini, su come mediare con la Russia e su come rispondere all’ascesa della Cina. E non illudiamoci che l’intervento militare americano produca sempre stabilità. I leader cinesi, timorosi di un intervento estero nel loro paese, e con una lunga storia a giustificazione di tali paure, insistono che nessuna nazione ha il diritto di invaderne preventivamente un’altra o di interferire nei suoi affari interni. La maggior parte degli americani non è d’accordo, e dalla fine della Guerra fredda l’esercito statunitense è intervenuto a più riprese, anche militarmente, in paesi esteri, talvolta insieme alla NATO o ad altri alleati. Gli esempi più lampanti sono Panama, Haiti, Somalia, la ex Iugoslavia, l’Iraq (per ben due volte) e l’Afghanistan. Gli obiettivi dichiarati erano di volta in volta diversi: arrestare un criminale, bloccare una catastrofe umanitaria, impedire la pulizia etnica, punire l’invasione di una nazione confinante, bloccare la produzione di armi pericolose o combattere il terrorismo. Alcune di queste imprese – Panama e la ex Iugoslavia e la prima guerra del Golfo – hanno raggiunto, almeno in parte, gli obiettivi dichiarati. Altre, come l’intervento in Somalia e ad Haiti, la seconda guerra del Golfo e l’Afghanistan – sono state un fallimento. La Cina non avrebbe invaso l’Iraq nel 2003 per catturare inesistenti armi di distruzioni di massa, creando il vuoto politico che ha dato vita a una nuova generazione di terroristi. La guerra in Afghanistan non ha generato un impatto positivo durevole per gli Stati Uniti, ed è costata ai contribuenti americani migliaia di miliardi di dollari[4]. Alcuni dei soldati americani che hanno lasciato Kabul nell’agosto 2021 non erano ancora nati quando Al Qaeda attaccò gli Stati Uniti l’11 settembre 2001. Il costo di queste campagne, misurato come assistenza a lungo termine fornita ai veterani di guerra statunitensi, è destinato ad aumentare nei prossimi decenni. Dal canto suo, l’America accusa Pechino di non volersi fare carico dei costi e dei rischi associati agli interventi in paesi stranieri e finalizzati a impedire catastrofi umanitarie. Ma ci sono milioni di persone in Rwanda pronte a ricordare al mondo intero che gli Stati Uniti e i suoi alleati non sempre accorrono nel momento del bisogno.

Inoltre, la Cina può aiutare a risolvere molti dei problemi di sviluppo mondiali. Un primo esempio evidente: i paesi più poveri hanno un disperato bisogno di infrastrutture migliori. Come già accennato, Pechino ha istituito l’Asian Infrastructure Investment Bank, un prestatore multilaterale che comprende 78 stati membri[5], tra cui, nonostante i tentativi dissuasivi di Washington, molti alleati storici degli Stati Uniti: Regno Unito, Francia, Germania, Corea del Sud, Australia e Israele. L’obiettivo della AIIB è contribuire a finanziare i progetti della Nuova Via della Seta in Asia. Ha investito miliardi in progetti come strade, ponti, porti e aeroporti e in misure di contenimento anticovid. Pur essendo stata accusata di asservimento agli obiettivi politici di Pechino, a giugno 2020 la AIIB ha approvato un prestito da 750 milioni di dollari per aiutare l’India[6], rivale della Cina, a fronteggiare il coronavirus proprio nella settimana in cui le truppe cinesi e indiane erano impegnate in una schermaglia mortale in un territorio conteso lungo il confine sino-indiano settentrionale.

La Cina viene spesso accusata di aver creato la AIIB come alternativa al Fondo monetario internazionale (FMI) e ad altri prestatori regionali, per imporre nuove regole di erogazione dei prestiti al servizio degli obiettivi politici di Pechino. Tuttavia, resta uno dei maggiori finanziatori dell’FMI[7], e la AIIB ha collaborato con istituzioni quali la Banca mondiale, la Asian Development Bank, la Islamic Development Bank, la African Development Bank e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo. Il mondo emergente, ma anche molte delle nazioni più ricche, hanno urgente bisogno di investimenti in infrastrutture fisiche. E la Cina sta contribuendo a soddisfare tale esigenza.

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Lo scontro non è inevitabile

Pur riconoscendo le differenze tra il conflitto tra Stati Uniti e Unione Sovietica del XX secolo e l’odierno scontro sino-americano, gli esperti concordano sempre più sul fatto che siamo entrati in una nuova Guerra fredda. Lo storico e giornalista Niall Ferguson la chiama la Seconda guerra fredda: «Ci ritroviamo ancora una volta con una pace che pace non è. È la definizione di Guerra fredda»[8]. «È iniziata una nuova Guerra fredda», concorda Robert Kaplan in un articolo pubblicato su Foreign Policy nel 2019[9]. «Le differenze tra Stati Uniti e Cina sono nette e fondamentali. I negoziati possono fare ben poco per gestirle e assolutamente nulla per placarle.» Peter Beyer, coordinatore delle relazioni transatlantiche del governo tedesco, nel 2020 ha dichiarato che la «nuova Guerra fredda tra gli Stati Uniti e la Cina è già iniziata e plasmerà il nostro secolo»[10].

Io non sono d’accordo. Nonostante le loro numerose divergenze, alcune delle quali non hanno soluzione, Washington e Pechino non sono ancora intrappolate in una nuova Guerra fredda. E devono smettere di comportarsi come se lo fossero, perché un conflitto di questo tipo sarebbe il sommo fallimento strategico per entrambi i paesi. Un nuovo scontro tra grandi potenze minerebbe l’interdipendenza che alimenta le nostre economie, protegge la nostra sicurezza e ci consente di affrontare al meglio le imminenti crisi globali descritte in questo libro.

Stati Uniti e Cina si troveranno faccia a faccia su molti fronti. In qualche caso si tratterà di una competizione a somma zero: i governi dei due paesi non si accorderanno mai sul futuro di Taiwan, di Hong Kong o del Mar cinese meridionale. In altri, come il commercio e gli investimenti, sia la competizione che la cooperazione possono generare vantaggi reciproci. In altri ancora, come quelli di cui parlerò nei prossimi tre capitoli, la collaborazione è essenziale, o perderemo tutti. È nell’interesse di entrambi i governi definire con chiarezza, francamente e realisticamente, quali questioni rientrano in quali categorie.

Per il momento le maggiori minacce per l’America sono frutto delle sue stesse debolezze: la politica interna iperpolarizzata, l’allargamento delle disuguaglianze e la crescente sfiducia nelle istituzioni politiche e nei mezzi di comunicazione. Ma col passare del tempo la Cina rappresenterà una sfida inedita per l’America e per tutte le democrazie del mondo, perché una rivale di questo tipo non si è mai vista prima. L’Unione Sovietica è stata una sfida militare e ideologica, ma non è mai stata una rivale commerciale. Negli anni Ottanta il Giappone è stato un dinamico concorrente commerciale per gli Stati Uniti, ma è rimasto un alleato politico e militare. La Cina del XXI secolo è una rivale militare, politica e commerciale, e nella sfera delle nuove tecnologie i confini tra queste categorie fanno presto a diventare sfocati. Gli Stati Uniti e la Cina sono le due superpotenze in un mondo che non può essere nitidamente diviso da un muro costruito con cemento scadente proveniente dalla Germania dell’Est.

F. Scott Fitzgerald scrisse che «il banco di prova di un’intelligenza di prim’ordine è la capacità di tenere due idee opposte in mente nello stesso tempo e, insieme, di conservare la capacità di funzionare». Con questo spirito gli Stati Uniti devono lavorare con la Cina per affrontare le maggiori sfide che attendono i due paesi e il mondo intero, pur competendo ed entrando in conflitto in altre aree. Sì, gli Stati Uniti e i suoi alleati devono lavorare per proteggere i principi della democrazia, lo stato di diritto e i diritti umani ovunque (un lavoro che ovviamente va iniziato a casa propria, ma che non finisce lì). Ma l’ascesa della Cina non può e non deve essere arginata. È una crescita naturale, e la sua popolazione desidera e merita una vita migliore. L’ex segretario di stato Mike Pompeo una volta ha affermato che gli Stati Uniti e i suoi alleati devono fare in modo che «la Cina si limiti ad occupare il posto che le spetta nel mondo»; ma non sta agli Americani definire il «posto che spetta alla Cina». Dichiarazioni come quelle di Pompeo avallano gli argomenti di quanti in Cina affermano che l’America è determinata a frenare il loro paese. Ci sono degli ambiti in cui i contributi della Cina sono positivi per il mondo. In quelle aree l’America e gli altri paesi farebbero bene a riconoscerli e persino a parteciparvi, per esempio entrando nelle istituzioni commerciali e finanziarie capitanate dalla Cina. Se l’America supporterà realmente lo sviluppo della Cina, sarà molto più difficile per i nazionalisti cinesi sostenere che gli Stati Uniti vogliono arrestare la crescita del paese.


Copyright 2022 di Ian Bremmer
Editore originale: Simon & Schuster, Inc.
Edizione italiana pubblicata in accordo con la Berla&Griffini Rights Agency


[1] ​​E. Osnos, Making China Great Again, «The New Yorker», 1 gennaio 2018.

[2] Q. Long, China’s Xi Jinping Tells People’s Liberation Army to Get Ready for Combat, «Radio Free Asia», 10 marzo 2021.

[3] H. Davidson, China Could Invade Taiwan in Next Six Years, Top US Admiral Warns, «The Guardian», 9 marzo 2021.

[4] Reality Check team, Afghanistan: What Has the Conflict Cost the US and Its Allies?, «BBC News», 3 settembre 2021.

[5] Asia Infrastructure Investment Bank, Members and Prospective Members of the Bank.

[6] C. Zhou, India-China Tensions Will Not Influence AIIB as Newly Re-elected President Vows to Keep Lender an ‘Apolitical Institution’, «South China Morning Post», 29 luglio 2020.

[7] E.A. Feigenbaum, Reluctant Stakeholder: Why China’s Highly Strategic Brand of Revisionism Is More Challenging than Washington Thinks, «Macro-Polo», 27 aprile 2018.

[8] N. Ferguson, Is the United States in a New Cold War with China?, Silverado Policy Accelerator, Debate Series, 17 novembre 2020, video disponibile su YouTube.

[9] R.D. Kaplan, A New Cold War Has Begun, «Foreign Policy», 7 gennaio 2019.

[10] R. Percival, ‘Cold War Has Begun!’ China Warning Issued as Tensions Erupt ’It Will Shape This Century’», «Express», 29 settembre 2020.

Scritto da
Ian Bremmer

Politologo, fondatore e Presidente di Eurasia Group e di GZERO Media. Già professore alla New York University, attualmente insegna presso la School of International and Public Affairs della Columbia University. Editorialista per gli affari esteri ed editor-at-large della rivista «Time», in Italia scrive sul «Corriere della Sera» ed è ospite frequente di emittenti televisive di tutto il mondo. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: “Il potere della crisi. Come tre minacce e la nostra risposta cambieranno il mondo” (Egea 2022) e “Noi contro di loro. Il fallimento del globalismo” (Egea 2018).

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