“Il Presidente del Consiglio dei Ministri” di Francesco Clementi
- 29 Marzo 2024

“Il Presidente del Consiglio dei Ministri” di Francesco Clementi

Recensione a: Francesco Clementi, Il Presidente del Consiglio dei Ministri. Mediatore o decisore?, il Mulino, Bologna 2023, pp. 240, 16 euro (scheda libro)

Scritto da Giulio Pignatti

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La mattina del 29 marzo 1961, a cento anni dall’Unità d’Italia e a quindici anni dalla proclamazione della Repubblica, viene inaugurata la sede della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Palazzo Chigi, alla presenza del primo ministro Amintore Fanfani e del capo dello Stato Giovanni Gronchi. Fino ad allora la sede della Presidenza era combaciata con quella del Ministero degli Interni, come già nel periodo monarchico pre-fascista. Si dovrà poi aspettare la legge n. 400 del 1988 per una determinazione dell’ordinamento e delle strutture concrete (uffici, personale…) della Presidenza. Il ritardo della struttura riflette l’indeterminatezza della funzione: la figura di fatto protagonista della vita politica del nostro Paese, il presidente del Consiglio, non ha mai trovato, nella storia dell’Italia unita – per ragioni diverse, legate a fasi storico-politiche tra loro eterogenee – dei contorni determinati e solidi. Non era così nello Statuto albertino, il che ha permesso a Mussolini di forzare un ordinamento troppo flessibile; non è così – per ragioni opposte, in parte legate proprio alla “paura del Tiranno” post-bellica – nella nostra Costituzione, dove la Presidenza rimane «un’istituzione incompiuta» (p. 11).

Il presidente del Consiglio oscilla quindi tra il ruolo di mediatore delle parti – i suoi ministri e le forze politiche di cui sono espressione – e quello di decisore, protagonista della linea politica del governo. È questa fluttuazione che viene ricostruita nel libro di Francesco Clementi, Il Presidente del Consiglio dei Ministri. Mediatore o decisore?, pubblicato per il Mulino nell’ambito della nuova collana diretta dall’autore, “Riscoprire le istituzioni”. In questo caso è l’istituzione stessa a doversi scoprire: seguendo le linee di evoluzione della società, le fratture e le degenerazioni, essa ha mutato forma – a volte monocratica, altre volte collegiale – a seconda di chi l’ha incarnata. Con una sola costante: la scollatura tra la norma e il fatto, il testo costituzionale e le pratiche, le convenzioni che trasformavano questo dall’interno e sopperivano a determinazioni giuridiche troppo deboli o incompiute.

Se oggi, in seguito al tramonto del relativo equilibrio garantito dal pluralismo di partiti solidi, l’incertezza sui poteri da assegnare al primo ministro si manifesta con estrema nitidezza (tra governi di coalizione, abuso della decretazione d’urgenza e appello ai “tecnici”), il vulnus non riguarda solo la Repubblica e la sua Carta del 1948. Lo Statuto albertino, promulgato – anzi, octroyé – cent’anni prima, prevedeva che il potere esecutivo rimanesse, de iure, nelle mani del re. Il Consiglio dei Ministri e la figura di chi lo presiedesse emerse così de facto, in balia delle congiunture e delle personalità susseguitesi sotto i Savoia e durante il Regno d’Italia. Tra queste l’autore – che dedica tutto il primo capitolo del libro alla storia pre-repubblicana – sottolinea in particolare Camillo Benso di Cavour, che «con la sua guida attenta, diede vita e spessore, nella pratica e nella vita politica di quegli anni, a un figurino istituzionale che, appunto, prima non esisteva» (p. 27). Per Cavour il modello era quello del governo di gabinetto di stampo britannico, in cui il premier è tale in quanto leader del partito di maggioranza in Parlamento – in una sovrapposizione tra leadership e premiership con cui simpatizza Clementi e che riemerge più volte nel corso del libro. Nondimeno, Cavour, per altri versi tra i padri della burocrazia italiana, scelse di non codificare questo nuovo ruolo emerso dalla pratica, celandolo piuttosto all’interno delle spesse mura del Ministero degli Interni. Questa rimase la costante presso i primi ministri che dovevano navigare tra gli Scilla e Cariddi del Parlamento e del re: anche chi, a fine Ottocento, incentivò la tendenza ad attribuire al presidente del Consiglio il ruolo di indirizzo politico, come Francesco Crispi, non sancì mai nello Statuto tale funzione.

Quando infine si intervenne giuridicamente sull’istituzione della Presidenza del Consiglio, nella direzione di un rafforzamento dell’esecutivo, fu la catastrofe. Sfruttando l’incapacità dell’establishment liberale di leggere il disagio sociale del primo dopoguerra, che dava forma ai nascenti partiti di massa, ma anche attraverso una violenza sistematica e infine grazie a una legge elettorale scellerata, la Legge Acerbo, Benito Mussolini riuscì a trasformare da dentro lo Statuto albertino e rendere il Regno d’Italia una dittatura. Fu infatti la legge 24 dicembre 1925, n. 2263, «la prima in assoluto ad aver modificato lo Statuto albertino, vero giuridico “spartiacque” nel passaggio da uno Stato liberale a uno autoritario» (p. 46), sancendo la nascita del capo del Governo, al tempo stesso primo ministro e segretario di Stato, nonché leader del partito unico, quello fascista, dettante la linea politica senza nessuna necessità di confrontarsi col parlamento (ma solo col re).

È evidentemente impossibile disgiungere i dibattiti in seno all’Assemblea costituente dal riferimento a questo scardinamento dello Stato liberale e alla ventennale dittatura che ne seguì – oltre che alle ombre che iniziava già a gettare, pure sull’Italia e sui suoi partiti, l’incipiente Guerra fredda. Dagli accesi dibattiti dell’Assemblea, e in particolare della seconda sottocommissione dei 75 padri costituenti, per l’autore «tutt’oggi una vera miniera di idee per il pensiero costituzionalistico» (p. 62), prevalse così un’interpretazione più riduttiva della funzione dell’esecutivo. Ciò si manifesta nello slittamento tra due termini che pur nel dibattito pubblico spesso fungono da sinonimi, “premier” (o “primo ministro”, “capo di governo”) e “presidente”: il nodo lessicale, involucro del nocciolo concettuale, venne sciolto a favore della seconda formula, quella di un presidente del Consiglio primus inter pares, come emerge dall’art. 92 della Costituzione repubblicana. Che pur rimane una «formulazione assai generica, piena di vuoti, di impliciti e di non detti» (p. 66), figlia di un clima di tensione crescente tra democristiani, comunisti, socialisti e liberali.

Il paradosso che si manifesta, sottolinea Francesco Clementi, professore ordinario di Diritto pubblico comparato alla “Sapienza” Università di Roma, è che «tutto è cambiato con il passaggio dalla monarchia alla repubblica, dallo Statuto albertino alla Costituzione repubblicana, dalla dittatura del Partito fascista al pluralismo della libertà espressa dai diversi partiti politici, ma che il presidente del Consiglio è rimasto invece, innanzitutto in termini formali, pressoché quel che era prima dell’avvento del regime fascista» (p. 68), cioè poco più che un ministro. Proprio l’irrequieta dialettica tra costituzione formale e costituzione materiale innerverà le trasformazioni dell’istituzione della Presidenza del Consiglio in quella che Pietro Scoppola definirà “Repubblica dei partiti”. Con l’eccezione di Alcide De Gasperi, per l’autore un unicum nella storia politica italiana – grazie, oltre alla sua caratura umana, alla coincidenza tra leadership politica della Democrazia Cristiana e premiership istituzionale (mantenutasi per otto mandati).

La storia del presidente del Consiglio in periodo repubblicano, che il libro sa ricostruire coniugando la dovizia di particolari con uno stile che rimane sempre fluido e accessibile, è quella di un ruolo stretto tra i partiti: da primus inter pares, mediatore delle forze di coalizione (o delle correnti partitiche) a «mero garante di accordi politici presi da altri», «per finire poi col vedersi imposto dai “suoi” ministri l’indirizzo politico; ministri più forti di lui, in quanto solidamente espressione di ciascun partito della coalizione» (p. 187). L’esito inevitabile è dunque quello dell’instabilità, di formazioni governative troppo succubi delle dinamiche partitiche, per cui la crisi è sempre dietro l’angolo. Ne è una prova il numero di governi che si sono susseguiti nelle 19 legislature repubblicane: 68 formazioni governative presiedute da 31 diversi primi ministri.

Per l’autore de Il Presidente del Consiglio dei Ministri le questioni della governabilità e della stabilità non si sono mai volute affrontare di petto in Italia. In realtà, proprio a partire dalla crisi del sistema dei partiti, dagli anni Ottanta, si aprì una stagione di riforme e di tentativi di riformulazione dell’istituzione della Presidenza: ne è un prodotto la già citata legge del 1988, così come gli importanti decreti legislativi n. 300 e n. 303 del 1999. La direzione è quella di allontanarsi dal modello ministeriale, per tracciare una specificità marcata della Presidenza in seno all’organo governativo. Ma anche in questo caso la regolamentazione rincorre processi sociali e politici che, a cavallo del nuovo secolo, già avevano trasformato (nuovamente) il ruolo del primo ministro, in un’ottica senz’altro “decisionista”. Oltre allo sviluppo della mediatizzazione sempre più pervasiva delle figure politiche e alla crisi dei partiti di massa e delle relative narrazioni, l’autore sottolinea il ruolo che l’Unione Europea ha giocato in questa direzione: dovendo i presidenti del Consiglio rappresentare l’Italia in sede comunitaria e presso altri organismi internazionali (come il G7), essi hanno sempre più il bisogno di accentrare in sé l’unità politica e ideologica del governo.

L’accelerazione della storia negli ultimi decenni, la necessità di governare emergenze inedite (come la pandemia) hanno spinto il ruolo protagonistico del premier anche oltre: Clementi non manca di sottolineare, ad esempio, gli abusi della decretazione d’urgenza. Sintomi di un’ennesima scissione tra norme e prassi che è senz’altro il perno del libro e che sarebbe interessante sviluppare in un’altra sede da un’ottica complementare a quella del diritto (se, come ricorda Clementi, ex facto oritur ius, il “fatto” a sua volta è il frutto di determinate tendenze sociali, di rapporti di forza, di immaginari collettivi). Ciò che è indubitabile è che, in questa scissione, a perderci sia innanzitutto il sistema politico e la sua credibilità di fronte ai cittadini: nel susseguirsi di crisi di governo, di coalizioni e governi tecnici – instabilità che richiede un inedito ruolo protagonistico e politico pure del presidente della Repubblica, i cui rapporti col primo ministro sono anch’essi poco definiti costituzionalmente –, aumenta l’astensionismo e si indebolisce il rapporto tra l’establishment e gli elettori.

Se insomma a partire ormai dagli anni Ottanta e Novanta è emersa la necessità inaggirabile di una revisione del ruolo costituzionale del presidente del Consiglio, tali dibattiti sono tornati in primo piano sulla scena pubblica anche recentemente, attraverso la proposta di riforma costituzionale sul “premierato” avanzata dall’attuale maggioranza di governo. Di qui certamente anche la preziosità del libro, rivolto a un pubblico ampio, che possa formarsi una concezione più critica e storica dell’istituzione in questione. In sede conclusiva Clementi analizza brevemente le diverse opzioni attualmente in campo, invitando innanzitutto a diffidare dagli slogan semplicistici – come quello del premier come “sindaco d’Italia”, che confonde due piani istituzionali ben differenti, locale e nazionale – o da modelli troppo rigidi. Presidenzialismo e semipresidenzialismo sono, per l’autore, soluzioni troppo drastiche per il fragile equilibrio italiano, e che tra l’altro mostrano, come nel caso della Francia, tutte le loro debolezze (nell’aumentare, ad esempio, la polarizzazione politica e sociale). Piuttosto, al fine – prioritario per Clementi, sulla scorta di Cavour e De Gasperi – di far coincidere leadership politica e premiership istituzionale, rafforzando così la stabilità e la credibilità del governo, «la soluzione può rimanere di certo […] dentro l’alveo della forma di governo parlamentare, cioè scegliendo una maggioranza che esprima un premier indicandolo sulla scheda, non eleggendo invece a prescindere un capo» (p. 219). È dunque un modello di tipo “neoparlamentare” che, secondo l’autore, porrebbe rimedio a questa ormai secolare ricerca, da parte della funzione di presidenza del governo, di una sua adeguata e precisa regolamentazione.

Al di là dei modelli immaginabili e dei loro contorni, rimane il fatto che la necessità è inderogabile: vi è «un’oggettiva riforma costituzionale che, alla luce delle trasformazioni e delle evoluzioni intervenute, nonché dei fatti che storicamente si sono consumati e di quelli che quotidianamente bussano – senza preavviso – alla porta del presidente del Consiglio del nostro Paese, attende, da troppo tempo, di essere realizzata» (p. 15). Piuttosto, quindi, che agitare delle invocazioni – spesso fin troppo retoriche – di un ritorno alla Costituzione, si tratta di mettersi all’opera.

Scritto da
Giulio Pignatti

Dottorando di ricerca in Filosofia politica all’Università di Padova, dove si è laureato, e all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Collabora con una testata giornalistica locale ed è stato alunno del corso 2023 della Scuola di Politiche. I suoi interessi di ricerca riguardano la storia dei concetti politici moderni e la tradizione sociologica francese. È autore di “L’opinione dei moderni. Scienza sociale, critica e politica in Durkheim” edito nel 2024 nella collana “Critica Sociologica” di Castelvecchi Editore.

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