Scritto da Giacomo Centanaro, Alberto Prina Cerai
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«Nel corso del suo sviluppo industriale, il nostro Paese ha manifestato, talvolta contemporaneamente, due diverse facce: clamorosi successi e sconfortanti fallimenti, scommesse vinte e occasioni perdute. Questa storia altalenante, sin dagli albori del moderno capitalismo italiano, ha visto come protagonista assoluta l’impresa pubblica».
È con questo incipit che Simone Gasperin, ricercatore in Innovation Theory and Public Policy presso lo UCL Institute for Innovation and Public Purpose di Londra, ha introdotto la presentazione del rapporto Missioni strategiche per le imprese pubbliche italiane. Un’opportunità per guidare lo sviluppo del Paese del Forum Disuguaglianze e Diversità. Lo studio, che nasce da una proposta del Forum del marzo 2019 sostenuta dal progetto GROWINPRO (UE Horizon 2020), propone al governo di ritornare ad assumere un ruolo di azionista propositivo nella gestione strategica delle società partecipate dallo Stato. L’importanza della proposta sta soprattutto nel cogliere lo “spirito dei nostri tempi”. Infatti, senza contestualizzare questa iniziativa si rischierebbe di cadere nelle consuete critiche, piovute ogni qual volta si sia auspicata una nuova stagione di intervento pubblico nell’economia. E in Italia lo abbiamo più volte sperimentato. Quell’eterno ritorno dell’IRI, come ci ha ricordato Alessandro Aresu.
Lo studio del Forum è stato pensato prima, e si è concluso durante, l’emergenza coronavirus, ma quest’ultima, con le sue drammatiche conseguenze economico-sociali, ha senz’altro confermato, nella prospettiva degli estensori, la validità degli intenti di fondo, ritenuti strategici per rilanciare il nostro Paese dalla più grave crisi dal secondo dopoguerra. In generale, nel dibattito pubblico prevale la sensazione che la pandemia abbia accelerato tendenze pregresse. Nel contesto mondiale, la rivalità tra Stati Uniti e Cina si è approfondita nella sua dimensione tecnologica. L’Unione europea sta per certificare un significativo cambio di paradigma nella sua politica economica, con la sospensione del patto di stabilità e l’approvazione del Recovery Plan. Che la crisi abbia finalmente sancito un salto di qualità nel processo d’integrazione, verso una dimensione più “geopolitica” e su misura per affrontare le sfide impellenti (rivoluzione digitale, climate change, transizione energetica, divari sociali, competizione internazionale) è un processo in divenire. Così come lo è il futuro della globalizzazione, su cui molto si è detto ma ancora poco si è compreso.
A confermare il mutare della marea è stato niente meno che Mario Draghi, sulle pagine del Financial Times lo scorso marzo con la consueta autorevolezza. «È di competenza dello Stato di impiegare il suo bilancio per proteggere i suoi cittadini e l’economia contro gli shock di cui il settore privato non è responsabile e che non può assorbire. Lo Stato ha sempre agito in questo modo nelle emergenze nazionali. […] Di fronte a circostanze impreviste, un cambio di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempi di guerra». Parole sicuramente riferibili in prima istanza al contesto emergenziale, ma il cui reale significato va forse oltre il necessario superamento della crisi sanitaria. Perché il coronavirus ci ha svelati nella nostra vulnerabilità, come esseri umani e come unità di un sistema di relazioni sociali, politiche ed economiche complesso e interdipendente, ma non così resiliente. E perché rappresenta un monito per un futuro che ci appare incerto con la disruption all’orizzonte: tecnologica, ambientale e sociale. L’Europa ha bisogno di ritornare a coltivare una «causa comune» e di impiegare strumenti adatti ai suoi interessi ed orizzonti. Quelle capacità di intervento nell’economia che ritroviamo già oggi nei due modelli del capitalismo politico – negli Stati Uniti e in Cina – che non lesinano ad anteporre le esigenze di sicurezza nazionale (che nel contesto di oggi si traduce sempre più in maggior capacità tecnologica) agli interessi economici dei privati.
Perché un discorso simile non dovrebbe valere anche per l’Italia? Paese fondatore, ma oggi anello indiscutibilmente più debole della catena europea. Pesano le nostre criticità strutturali: un pesante debito pubblico e un tessuto imprenditoriale troppo polverizzato, come ha ricordato Sergio Dompè nel suo intervento alla presentazione del rapporto. Questa realtà, tuttavia, non può esimerci dal confrontarci con un dibattito crescente, nella letteratura accademica e tra le classi dirigenti di tutti i paesi occidentali. E non sono mancate, per fortuna, acute riflessioni nel nostro Paese. In un articolo di ormai quattro anni fa, Alessandro Aresu e l’attuale Ministro Giuseppe Provenzano discutevano del ritorno della «politica industriale» e di come si rendesse necessario, di fronte al crescente peso di scienza e tecnologia nella competizione economica, di pensare la creazione di un «IRI della conoscenza». Specialmente per destare il Paese dal torpore del Washington Consensus. «La rinuncia ideologica a pensare lo Stato nel mercato ha contribuito a peggiorare i problemi strutturali dell’economia italiana», scrivevano, mentre era in atto «una tendenza internazionale», preceduta da una discussione avviata dopo la crisi finanziaria del 2008, che avrebbe potuto «portare a nuovi equilibri tra Stato e mercato». Altrove le cose stavano esattamente così. L’affermazione dei fondi sovrani ne costituiva un indizio, mentre in Germania, Francia e Gran Bretagna la discussione e promozione di piani strategici per l’Industria 4.0 in parte lo confermava.
Nessuna ricetta o “vincolo esterno” – si badi bene, stante la sua valenza in termini di alleanze, se non di comune adesione ad un certo sistema di valori democratici – può essere la panacea per i nostri mali. Come ricordavano Aresu e Provenzano, «ogni politica pubblica degna di questo nome deve essere calata in un territorio, e in quel contesto deve esistere capacità amministrativa». Ecco perché la proposta del Forum potrebbe essere un primo passo in questa direzione, conciliando una tendenza ormai globale con l’interesse particolare e le caratteristiche del sistema-Paese nell’affrontare la crisi attuale e le sfide del futuro.
L’impresa pubblica nella realtà italiana
La proposta del Forum nasce dalla consapevolezza delle potenzialità dell’impresa pubblica italiana, in un contesto globale in cui la partnership pubblico-privato torna ad essere vista come una leva importante per lo sviluppo. Dopo un breve riepilogo dei caratteri del capitalismo italiano, lo studio mette in evidenza come le imprese pubbliche siano rimaste un pilastro fondamentale dell’economia italiana, soprattutto per due lezioni della, più o meno recente, storia italiana: una fetta importante del capitalismo privato italiano non ha saputo affrontare la sfida tecnologica e l’approfondimento della competizione globale, specialmente in settori ad alto valore aggiunto; per l’alto livello di competenze tecniche e manageriali e investimenti costanti in R&D, capitale umano e sui territori, le imprese pubbliche sono rimaste un bacino di innovazione e competitività ineguagliato.
Come dimostrato dal capitolo uno, tra le prime dieci aziende italiane sei sono a controllo pubblico. Tra gli indicatori economici presi in considerazione, fatturato e utili, dimensione aziendale, investimenti in R&D, quotazione in borsa, competitività internazionale e settore strategico di riferimento. I numeri parlano da sé: le imprese pubbliche (ENI, Enel, Leonardo, Saipem, Poste Italiane etc.) sono centrali nella dinamica industriale italiana, dal momento che gran parte del tessuto produttivo nazionale, lungo le filiere di riferimento, si muove in sincronia con loro. Tuttavia, ed è questo elemento ad aver animato la proposta, l’enorme potenziale trasformativo dell’ecosistema delle imprese pubbliche risulta “parzialmente sottosviluppato”. A testimoniare questo dato, le considerazioni emerse in seno ai colloqui con gli Amministratori come riportato nel capitolo tre. Tra le cause di questo potenziale inespresso, il Forum ricostruisce due ordini di motivi. In primo luogo è carente l’integrazione verticale con lo Stato: infatti l’azionista pubblico, che esercita un controllo diretto attraverso il MEF e indiretto tramite la Cassa Depositi e Prestiti, è in gran parte “assente” dal momento che si astiene dal concordare missioni strategiche con le imprese di cui detiene il controllo. Inoltre, lo Stato azionista lamenta l’assenza di competenze tecniche nei campi in cui operano le imprese pubbliche nel settore di riferimento, relativamente al mercato e alle tecnologie con cui si confrontano. Persiste, inoltre, una debole integrazione orizzontale. Le imprese si auto-attribuiscono una o più missioni, senza che vi sia un coordinamento strategico con le altre realtà del tessuto produttivo. In generale, manca un interazione sistemica su temi e sfide rilevanti per il Paese.
Per ovviare a questo deficit di politica industriale, il Forum ha identificato un metodo per individuare missioni strategiche quinquennali per le imprese pubbliche e avanzato la proposta di creare un ambiente di confronto istituzionale per sintetizzare il dialogo verticale tra Stato azionista e imprese e il coordinamento orizzontale fra le stesse aziende. Nello specifico, e strumentale alla definizione delle missioni e al loro allineamento con il sistema produttivo, è la creazione di un Consiglio degli Esperti (CdE) all’interno del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF). Una squadra di 15 personalità competenti e impegnato a seguire l’operato delle imprese pubbliche, nominata secondo criteri trasparenti e sulla base di appurate expertise tecnico-settoriali. Questo “ponte tecnico” tra azionista e imprese sarebbe chiamato a favorire l’allineamento del primo con le seconde, in un’ottica di sistema-Paese, a definire le missioni strategiche sulla base del confronto tecnico e così a rafforzare le strategie industriali.
A seconda del settore in considerazione, le interazioni (definite “a geometria variabile”) tra Esperti, Amministratori delegati e Ministero di riferimento favorirebbero la definizione ed attuazione delle missioni, una volta sottoposte ad un adeguato procedimento di legittimazione tra Conferenza Stato-Regioni, Presidenza del Consiglio dei Ministri e Parlamento e in linea con le direttive europee. Tali missioni strategiche sarebbero concepite per affrontare le tre grandi stelle polari per il sistema-Paese, individuate preliminarmente dal Forum: competitività economica, sostenibilità ambientale e giustizia sociale. Questi tre temi rappresentano delle sfide per il sistema-Paese, ma se perseguite possono portare a effetti benefici diffusi per tutta l’economia nazionale. I futuri sistemi energetici, per esempio, forniranno implicitamente un impulso all’innovazione e alla competitività; allo stesso modo, la digitalizzazione oltre a garantire maggiore efficienza sarà fattore di inclusività sociale per le comunità isolate.
Il terzo capitolo del rapporto è dedicato ai colloqui con numerosi amministratori pubblici. Ciò che emerge è un consenso intorno ad alcuni punti cardine, come l’intensificazione del confronto con il personale governativo ma senza che questo si traduca in una burocratizzazione del processo. Processo che deve mantenersi lontano da derive dirigiste o da visioni di breve periodo: l’autonomia del management pubblico deve essere preservato e quest’ultimo esigerebbe la massima trasparenza nella nomina e nelle azioni del Consiglio degli Esperti.
Sfide e criticità. Parola agli amministratori
Nella mattinata di mercoledì primo luglio è avvenuta la presentazione ufficiale del Rapporto Imprese Pubbliche, a cui hanno partecipato alcune delle personalità coinvolte nel progetto. Sono intervenuti Francesco Caio (Presidente di Saipem), Matteo Del Fante (AD Poste Italiane), Alessandro Profumo (AD Leonardo), Sergio Dompé (Presidente e AD di Dompé Farmaceutici). Sono seguiti l’atteso commento del Ministro dell’Economia e delle Finanze Roberto Gualtieri e le analisi di Valentina Bosetti (Presidente di Terna) e Francesca Bria (Presidente del Fondo Nazionale Innovazione).
Come già evidenziato dai colloqui avvenuti con i più importanti esponenti del mondo delle imprese pubbliche italiane, è emersa una generale confidenza rispetto alla proposta: la necessità di intensificare il confronto con lo Stato azionista su basi tecniche, per sfruttare il “potenziale trasformativo” delle imprese pubbliche e così attivare dinamiche virtuose per il sistema-Paese. Nel corso degli interventi tenuti dai relatori durante la presentazione sono tuttavia emerse alcune criticità.
Il primo punto concerne la mancanza di una coesione politica nazionale, necessaria affinché possano innestarsi processi di policymaking di ampio respiro. Il tema, come ha sottolineato l’Ing. Caio, è capire “come identificare meccanismi che conciliano la fame e la necessità di consenso della classe politica con il raccordo su progetti di necessaria lungimiranza”. La proposta del Forum paradossalmente “riporta in modo centrale la politica nella gestione delle imprese” che in realtà, seppur formalmente, è già insita nell’azionariato pubblico. “Lo Stato è azionista perché attraverso queste grandi piattaforme industriali, di servizi, finanziarie e tecnologiche può contribuire all’attuazione di politiche industriali orientate al bene comune”. Dunque, se gli strumenti in parte ci sono, manca quel “sano trade-off tra le esigenze di consenso, spesso territoriali, e la necessità di un bene comune” per sfruttarli a pieno. Quest’ultimo è un concetto che è oggi più che mai centrale per la salvaguardia e la prosperità della democrazia, soprattutto dinanzi alle sfide future. “È un’epoca molto fertile”, prosegue Caio, “per obiettivi alti, se pensiamo ai grandi temi del climate change, della transizione energetica, dell’invecchiamento del welfare, della tecnologia e dell’inclusione sociale”, ma che richiedono “uno Stato paziente, competente, trasparente che trovi i meccanismi giusti e che non devii dai grandi obiettivi per il futuro”.
Il secondo aspetto riguarda il ruolo che il Consiglio degli Esperti dovrebbe ritagliarsi nell’attuale assetto istituzionale, specialmente nel rapportarsi alla Conferenza Stato-Regioni, al Consiglio dei Ministri e al Parlamento. La sua creazione trova il parere positivo del Dott. Del Fante, il quale tuttavia non ha nascosto che arrivare alla sua formazione “sarebbe già un grande risultato”, specialmente nell’ottica di “declinare le funzioni tecniche nell’ambito delle tre missioni” individuate preliminarmente dal Rapporto. Una potenziale confusione burocratica responsabile, già ora, di alcuni gravi ritardi di sviluppo. “Il fatto che abbiamo un Paese non connesso in fibra, che siamo ventiseiesimi per connettività, è forse figlio del fatto che non c’è stato un comitato che ha chiesto alle aziende liberalizzate nel settore di avere l’obiettivo di connettività”. Ecco perché, tramite il CdE, “chiedere ad ogni impresa di assolvere nel proprio settore la sua missione” rappresenterebbe già “un ottimo risultato”.
La terza questione riguarda il rapporto tra il CdE e la corporate governance delle imprese pubbliche, un aspetto fortemente evidenziato da Alessandro Profumo. L’AD di Leonardo non ha lesinato elogi per la proposta del Forum, ritenendo necessaria “un’interlocuzione di alto livello del nostro azionista” con il sistema delle imprese pubbliche allo scopo di definire “una chiara visione strategica di medio-lungo termine”. Virtuoso, allo stesso modo, risulterebbe anche “il coordinamento tra le aziende pubbliche” soprattutto in vista del rilancio economico dell’Italia dopo lo shock della pandemia nella cornice del Recovery Fund. Vi è tuttavia poca chiarezza sul “rapporto tra il Consiglio degli Esperti e il Consiglio di Amministrazione”, dal momento che quest’ultimo “esercita un ruolo chiave nella gestione dell’impresa” e risulta disciplinato dal Codice Civile italiano e, in ambito europeo, dalla Market Abuse Regulation. Dunque per Profumo è necessario “capire bene come funzionano queste interfacce, perché altrimenti il Consiglio degli Esperti difficilmente potrà avere un ruolo operativo come auspicato dal rapporto”. E quest’ultimo, a chi dovrà rispondere? Al di là della possibilità di inserire il CdE sotto l’alveo del MEF come prospettato dal rapporto, sarà auspicabile “che il ruolo di indirizzo politico debba essere svolto da soggetti che passano attraverso un sistema elettivo”. Condividendo l’idea che nel contesto attuale ci sia “un’opportunità di ritornare, finalmente, a parlare di politica industriale”, con le imprese pubbliche come “attori chiave”, l’AD di Leonardo non ha dubbi: “Penso che la Politica debba avere la priorità”.
Un’opinione altrettanto significativa l’ha offerta il Presidente di una delle aziende private di più successo nel panorama italiano. Nel suo intervento, Sergio Dompé ha auspicato che si riesca a trovare un equilibrio tra una politica industriale e le esigenze di un tessuto imprenditoriale che ha, in certe realtà, beneficiato dalla globalizzazione. Dompé ha evidenziato quanto l’esperienza delle tre aziende coinvolte (Saipem, Leonardo e Poste Italiane) offra un “valore complessivo dell’impresa [pubblica, n.d.r] che è molto ben coniugato con il sistema-Paese e con la filiera”. In un contesto di straordinaria e imprevedibile evoluzione del panorama economico e geopolitico globale, Dompé ha inoltre ricordato i successi delle piccole-medio e aziende italiane pienamente integrate nelle “catene del valore” e al passo tecnologico con “i sistemi a scalaggio internazionale”. Ecco perché “una visione diversa del sistema-Paese” potrebbe avere la capacità di mettere in campo “una strategia industriale integrata che faccia in primis sempre l’interesse delle aziende che devono rispondere ai loro azionisti, privati e non, al mercato e ai regolamenti nazionali ed internazionali”.
Il ministro Roberto Gualtieri sottolinea come il rapporto evidenzi un fenomeno positivo: le imprese pubbliche riescono ancora a sostenere la competizione e a collocarsi nella fascia alta di numerosi indicatori e a ricoprire una funzione strategica per il Paese. Molte delle pratiche suggerite dal Rapporto, sostiene, sono già presenti: l’autonomia gestionale delle imprese e l’interlocuzione strategica tra management e vertici politici del Ministero – l’azionista – sono realtà. Ci devono però essere delle prospettive di miglioramento e Gualtieri racconta come durante gli “Stati Generali”, vi sia stato un dialogo tra compagine ministeriale e vertici del management pubblico per discutere di obiettivi di medio periodo. È importante che l’autonomia gestionale sia preservata; tuttavia, l’istituzione di una Commissione di Esperti che costituisca un ponte tecnico tra Ministero e aziende può essere una strada per rendere più efficiente il dialogo tra le due parti, ma non è necessariamente l’unica. Il MEF, sottolinea Gualtieri, è già dotato di personale tecnico di alto livello che si occupa a tempo pieno di seguire l’azione delle aziende. Le aziende pubbliche devono essere parte attiva delle sfide che si presentano al sistema produttivo italiano e avere la capacità di “fare sistema” con attori privati.
Valentina Bosetti porta subito come esempio di progetto virtuoso il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima: esperti si sono visti affidare un piano strategico (sostenibilità ambientale nella generazione di energia), lo hanno affrontato con pragmatismo e poi grandi imprese hanno fatto proprie le riflessioni prodotte. Nel campo dell’energia e del clima, quindi, le dinamiche auspicate dal Rapporto sono già in atto, anche se il Ministero in questione è quello dello Sviluppo economico: è un esempio della visione di lungo periodo a cui devono aderire tutti i progetti di investimento. Bosetti cita quello che ritiene essere un principio fondamentale nell’elaborazione di politiche: “to be policy relevant but not to be policy prescriptive”. Il ruolo degli esperti è cioè quello di presentare alla politica tutte le possibili strade da percorrere, presentando per ognuna costi e benefici; sta poi alla politica scegliere quale di queste percorrere, interpretando le preferenze del corpo elettorale da cui ha ricevuto mandato. Secondo Bosetti, il fatto che nel rapporto venga più volte sostenuto come siano gli esperti a definire quale sia la via giusta da percorrere è un aspetto rischioso, poiché implica già un giudizio di natura politica.
Francesca Bria evidenzia alcune questioni di ampio respiro e di importanza fondamentale per la discussione, come la necessità di riacquistare una sovranità tecnologica europea, e quindi anche italiana. È uno dei fattori strategici più importanti, un fattore di competitività globale e di produttività nell’attuale rivoluzione tecnologica. Attualmente la supremazia a livello internazionale si gioca sulla supremazia tecnologica, un tema che influenzerà anche tutti gli altri settori. Lo scontro tra Stati Uniti e Cina sta portando gli Stati a rivedere le regole sulla concorrenza e sui monopoli e la capacità dei governi di bloccare acquisizioni da parte di aziende straniere. Secondo Bria è determinante capire quale ruolo possono avere le imprese italiane nel recupero della sovranità digitale.
Un altro fattore di cui tenere conto è l’attuale concentrazione di mercato: durante la conversione forzata alla digitalizzazione di questi ultimi mesi le vendite online sono cresciute del 22% e anche i GAFA e i loro equivalenti cinesi sono stati i vincitori della crisi. Mentre tutte le altre imprese rallentavano, le imprese tecnologiche hanno velocizzato investimenti e acquisizioni, dando vita a una concentrazione industriale inedita nella storia recente (Amazon ha aumentato la sua valutazione sul mercato USA di 400 miliardi di dollari). L’Europa non ha imprese che possano competere su questo piano e tutte le infrastrutture nazionali critiche (sia hardware sia software) sono costruite al di fuori dell’UE, così come sono extraeuropee le aziende che gestiscono data center, cloud e grandi flussi di dati: questo può rappresentare nel lungo periodo un grosso rischio per la crescita, l’occupazione e l’influenza dell’UE in settori chiave.
Secondo Bria, per fronteggiare crisi come quella ancora in corso si è dimostrata l’importanza di un progetto industriale, a livello di sistema paese ed europeo, con piani di investimento e rilancio coordinati. Un esempio viene da Francia e Germania, dove lo Stato sta progettando di intervenire massicciamente nell’economia per proteggere le aziende strategiche nazionali: leggi antitrust più permissive, partecipazioni azionarie del governo e il controllo su alcune acquisizioni estere nei settori strategici. Questa tendenza, secondo Bria, è in linea con i piani di recupero “verdi”, dove gli investimenti pubblici confluiscono nelle energie rinnovabili (cloud computing, veicoli elettrici e la nuova mobilità a idrogeno). Anche l’Italia avrebbe la possibilità di fare la sua parte, grazie ad alcune imprese pubbliche. In questa fase, però, si renderebbero necessarie nuove leggi sulla concorrenza: già nel Libro bianco “on levelling the playing field as regards foreign subsidies”[1] pubblicato dal Commissario Vestager, si prevede che gli Stati possano imporre restrizioni a investimenti stranieri in settori come energia, telecomunicazioni, robotica, biotecnologia e quantum computing.
Ma come è possibile accelerare l’innovazione facendo leva sulle imprese statali partecipate? Il Fondo Nazionale Innovazione compie già un’azione di incoraggiamento delle imprese pubbliche ad acquisire tecnologie innovative che provengano dalle start-up e dai centri di ricerca, anche attraverso il sistema del corporate venture capital. Il FNI incoraggia l’utilizzo di questo strumento giuridico, in quanto in Italia attualmente si investono 600 milioni di euro nel venture capital, un settimo di quanto viene fatto in Francia. Il fine è quello di intensificare il rapporto tra scienza e industria, alla base dell’innovazione. È quindi importante lavorare in un’ottica che sostenga tutto il sistema-Paese e che incoraggi l’innovazione nella scienza e nel capitale umano.
[1] https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/ip_20_1070