Il sacro, la morte e la storia: tra Eliade e de Martino
- 03 Aprile 2021

Il sacro, la morte e la storia: tra Eliade e de Martino

Scritto da Andreas Iacarella

12 minuti di lettura

Reading Time: 12 minutes

Sui rapporti e le distanze tra l’approccio storiografico dell’etnologo napoletano Ernesto de Martino (1908-1965) e dello storico delle religioni romeno Mircea Eliade (1907-1986) sono state spese molte e solidissime pagine[1]. La recente pubblicazione di due volumi spinge però a riproporre il discorso, provando ad offrire al lettore meno esperto alcuni spunti di riflessione, anche in una chiave di stretta attualità. Il demartiniano Morte e pianto rituale ha appena trovato una nuova veste editoriale, che in parte ne ha corretto il titolo[2]. Poco più di un anno fa è invece uscito, per Adelphi, il carteggio inedito tra Eliade ed Emil Cioran[3].

I due testi sono estremamente distanti per natura e composizione, ma la loro uscita quasi sincrona sembra suggerire un rinnovato, ma sarebbe meglio dire mai cessato, interesse per i temi trattati dai due autori. Nel dibattito accademico italiano, il confronto tra la concettualizzazione della storia delle religioni avanzata da de Martino e quella eliadiana si può dire un tema ormai classico. Siamo però convinti che di questo scontro culturale, portatore di due diverse e inconciliabili visioni della storia e dell’azione umana, poco o nulla sia giunto al lettore comune. È con questa convinzione che vorremmo riproporre alcuni termini della questione, con l’intento di mostrare come dietro quello che può apparire un dibattito squisitamente accademico, si celino in realtà le basi di uno scontro culturale dalle radici molto più profonde.

Due romeni della «giovane generazione», gettati dalla sorte in Occidente, elaborano simultaneamente, l’uno, la più precisa autopsia del cristianesimo, e l’altro, il tentativo più disperato di riattualizzarlo attraverso la «storia comparata delle religioni». Forse sarà così che entreremo tutt’e due nella Storia della Chiesa![4]

Con questa lettera, che Eliade scrive a Cioran il 19 maggio del 1969, possiamo cominciare a ragionare sul percorso intellettuale dello studioso romeno. In poche righe, egli dà il senso della sua intera opera intellettuale: la riattualizzazione della teologia cristiana, attraverso il recupero delle disperse e variegate «sopravvivenze di “religiosità cosmica”»[5] (in primis, lo yoga e lo sciamanesimo).

Quando scriveva questa lettera, lo studioso romeno conduceva da più di dieci anni una vita agiata negli Stati Uniti, lavorando come docente di storia delle religioni presso l’Università di Chicago e tenendo conferenze e convegni in giro per il mondo. Il momento più difficile della sua esistenza, quando era stato esule a Parigi dopo la Seconda guerra mondiale, era ormai alle spalle. A partire dagli anni Cinquanta, Eliade era andato conquistando un pubblico sempre più vasto, anche al di fuori degli ambienti universitari; le sue opere più importanti[6] erano tradotte e apprezzate in un numero crescente di paesi.

Stupisce, nello sfogliare le pagine dell’epistolario, l’esiguità dei riferimenti al movimento del ‘68 [7], sul quale pure Eliade doveva avere un punto di vista privilegiato. Stupisce in modo particolare se si considera che del ‘68 statunitense, o meglio delle controculture di cui questo si nutrì, Eliade era stato un fondamentale ispiratore. Ma procediamo con ordine.

Al centro, a fondamento, dell’intera riflessione eliadiana c’è lo sforzo inesausto di connotare l’essere umano non come homo faber, come aveva fatto il materialismo storico, ma come homo religiosus, affermando dunque il primato antropologico del sacro.

È difficile immaginare […] come lo spirito umano potrebbe funzionare senza la convinzione che nel mondo vi sia qualcosa di irriducibilmente reale; ed è impossibile immaginare come la coscienza potrebbe manifestarsi senza conferire un significato agli impulsi e alle esperienze dell’uomo. La coscienza di un mondo reale e dotato di significato è legata intimamente alla scoperta del sacro. Mediante l’esperienza del sacro lo spirito umano ha colto la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, ricco e dotato di significato, e ciò che è privo di queste qualità: il flusso caotico e pericoloso delle cose, le loro apparizioni e le loro scomparse fortuite e vuote di significato» […] In altre parole, essere – o piuttosto divenire – un uomo significa essere “religioso”[8].

Come ha ben sintetizzato in una recente intervista Leonardo Ambasciano, la metodologia eliadiana è «epistemologicamente fondata su assunti extra-scientifici (e perciò di facile presa)» e si fonda su un «modus operandi teologico e finalistico», basato «sul collasso dell’approccio etico su quello emico». Eliade propone dunque una sostanziale indistinzione tra il punto di vista dello studioso e quello dei soggetti studiati, legittimando di fatto in ambito accademico «credenze fideistiche ed ideologiche»[9].

Qui si consuma il salto, che Eliade compie, dal prodotto scientifico a quello letterario a larga diffusione, che però sottende un preciso progetto teologico-politico. «Mi piacerebbe che questo libro fosse letto dai poeti, dai drammaturghi, dai critici letterari»[10], scriveva il pensatore romeno nel giugno del 1949 a proposito di Le chamanisme. Come ha osservato Sergio Botta, la concettualizzazione eliadiana, generalizzante e decontestualizzante, di nozioni come quella di sciamanesimo «emergeva dunque anche nella sua qualità di prodotto letterario», ambendo di fatto a «tracciare una via estetica capace di rinnovare la funzione arcaica e originaria della poesia per riconsegnarla all’uomo contemporaneo»[11]. Questa creatività sciamanica avrebbe permesso anche all’uomo delle società industriali di nutrire la propria “nostalgia delle origini”[12], accarezzando il sogno di un ritorno a un tempo paradisiaco ormai perduto. Per Eliade, «la nostalgia del Paradiso non era […] appannaggio esclusivo dei mistici, ma dell’umanità intera»: la sua proposta, politica e di studioso a un tempo, si nutriva del desiderio di offrire una strada per l’abolizione della «condizione umana attuale – il Tempo e la Storia – per ritrovare una beatitudine primordiale»[13].

Nessuno stupore che questa mistica ad uso dell’uomo contemporaneo, che aveva però tutti i crismi dall’accademia, facesse presa sui movimenti controculturali giovanili, statunitensi in modo particolare. Lo yoga, lo sciamanesimo, la nostalgia delle origini: «Le lezioni americane di Eliade […] suscitarono […] grande entusiasmo giacché fornivano un linguaggio scientifico fondato su una condivisa proposta antimoderna» e irrazionalista[14]. La sua aspirazione di essere letto da poeti e artisti poteva dirsi raggiunta.

Sebbene la messa in relazione dell’elaborazione teorica di un pensatore con le sue esperienze politiche e di vita sia sempre una questione problematica[15], nel caso di Eliade questo nesso sembra irrinunciabile per comprendere a fondo le basi della sua prospettiva. Nella sua militanza giovanile nella natìa Romania, lo studioso aveva abbracciato pienamente la proposta politica di Codreanu e della Guardia di ferro, organizzazione fascista e antisemita. A sedurlo, secondo Alexandra Laignel-Lavastine, era stato «il fatto che il fascismo si presenta[va] come “rinascita spirituale” e rivoluzione cristiana, una rivoluzione “ascetica e virile” dirà nel 1937»[16]. La studiosa ha accuratamente ricostruito la parabola giovanile dello storico delle religioni attraverso l’analisi di articoli, lettere, discorsi: ne emerge quella che l’autrice definisce una figura di un «tipico rappresentante» del «fascismo spirituale»[17]. Giudeofobico, profondamente razzista e nazionalista, antiparlamentarista, Eliade vedeva nell’affermazione di un regime totalitario di stampo cristiano l’unica possibile salvezza, in senso politico ed escatologico, della nazione romena e del mondo tutto. Questi ideali lo studioso continuerà a perseguirli apertamente, prima attraverso l’appoggio al regime di Ion Antonescu, e poi nella celebrazione della dittatura salazarista in Portogallo (dove fu impiegato come consigliere culturale dell’ambasciata durante il conflitto mondiale)[18].

Dopo la fine della guerra, Eliade dovrà faticare non poco per far “dimenticare” questo passato ma, come visto, il suo seguito di studioso fu infine estremamente ampio. Quello che appare non questionabile è, però, che anche in questa seconda fase della sua vita Eliade resterà profondamente legato alle sue convinzioni giovanili. Le traslerà, certo, su un piano altro, in apparenza puramente accademico. Ma l’«avversione […] per la storia, considerata come una dimensione inessenziale»[19], e il tentativo di porre il sacro come apriori umano resteranno delle costanti del suo pensiero. Il suo antistoricismo militante prende la forma di un pessimismo «“esistenziale”» che si «sostanzia nella “nostalgia” del tempo perduto delle origini, nel dolore del ritorno che non ritorna elevato a categoria dello spirito, nell’anelito verso una irraggiungibile condizione aurorale impregnata di quella sacralità» ormai irrintracciabile nel mondo moderno[20]. Non una semplice storia delle religioni in ottica comparativa, dunque, ma un preciso progetto culturale e politico. Come ebbe a dire Pettazzoni in un appunto: «Eliade è un cripto-teologo cristiano (ortodosso)», «le sue teofanie implicano un destino trascendente che si rivela»[21]. Non stupisce che, essendosi nutriti di un tale antistoricismo, veicolato anche da altri autori, i giovani hippyes americani abbiano rinunciato a qualsiasi ipotesi di un’azione realmente trasformativa sul reale, limitandosi all’adozione di nuovi vangeli antimoderni (vedi le prospettive sciamaniche di personaggi come Michael Harner e Carlos Castaneda)[22].

Credo sia opportuno a questo punto introdurre il secondo protagonista della nostra trattazione, Ernesto de Martino, chiarendo le ragioni di questa opposizione tra le due figure. Come ha notato lo psichiatra Nicola Lalli, il sacro, che abbiamo visto essere la dimensione essenziale dell’essere umano per Eliade, è un meccanismo che «si è sviluppato nel corso dell’evoluzione dell’uomo come difesa contro l’angoscia dell’evento morte»[23]. Si tratterebbe però, per l’appunto, di un «meccanismo difensivo». In Morte e pianto rituale, de Martino sottopone ad analisi i processi culturalmente definiti di elaborazione del lutto, in particolare l’istituto del cosiddetto pianto rituale, ricollegando le forme residuali da lui studiate in Basilicata con il lamento funebre praticato nelle società agricole del Mediterraneo antico.

L’etnologo pone così come centrale non una dimensione del sacro aprioristica, connotata come negazione della morte, bensì l’esigenza umana di elaborazione del lutto, evidenziando le diverse declinazioni culturali che questa assume. Nella prospettiva demartiniana la dimensione essenziale e universale può essere allora indicata proprio nello sforzo di superamento del momento critico della morte attraverso l’attribuzione al defunto di una “seconda morte”, culturalmente connotata, che permetta al singolo di portare a compimento un processo di separazione.

Nella morte della persona cara siamo perentoriamente chiamati a farci procuratori di morte di quella stessa morte, sia destinando ad una nuova riplasmazione formale la somma di affetti, di comportamenti, di gratitudini, di speranze e di certezze che l’estinto mobilitò in noi finché fu in vita, sia facendo nostra e continuando ad accrescere nell’opera nostra la tradizione di valori che l’estinto rappresenta. Indipendentemente dalla situazione luttuosa come tale, è appunto questa la varia fatica che ci spetta in ogni momento critico dell’esistenza, che è sempre un attivo far passare nel valore, e quindi un rinunziare e un perdere, un distacco e una morte, e al tempo stesso una opzione per la vita[24].

Credo sia già evidente la distanza che intercorre tra la proposta demartiniana e quella eliadiana. La morte, come dato biologico inevitabile e ateisticamente riconosciuto, che esige però una risposta vitale umana, è al centro del pensiero dell’etnologo. Il sacro eliadiano opera invece una vera e propria rimozione del concetto.

Questa diversa prospettiva porta ovviamente i due autori all’edificazione di un’antropologia, e dunque a una concettualizzazione della storia, radicalmente opposta. Parlare di morte ha, seguendo la ricerca di de Martino, un senso più ampio: ha il valore di considerare a fondamento dell’esperienza umana lo sforzo di oltrepassamento di ogni momento critico, che impone all’uomo una separazione da quanto si è stato e una necessaria riproposizione in termini nuovi del proprio esserci. La presenza nel mondo come essere umano dotato di senso non è dunque un dato acquisito una volta per tutte, ma una sfida trasformativa continua.

Il rischio di non esserci è studiato da de Martino inizialmente nelle culture tradizionali, in cui erano operanti istituti magici, ma è da subito presentato in una dimensione più universale. La crisi della presenza si verifica in tutti quei «momenti critici» dell’esistenza in cui si manifesta il divenire: da quelli più legati al rapporto uomo-natura (le difficoltà incontrate dall’agricoltore o dal cacciatore), a quelli più squisitamente esistenziali, i «rapporti sessuali» e la «crisi della pubertà», il «rapporto con lo straniero», la «guerra alla malattia e alla morte»[25]. In tutti questi momenti, scrive l’etnologo, «la storicità sporge […], il compito umano di “esserci” è direttamente e irrevocabilmente chiamato in causa, qualche cosa di decisivo accade o sta per accadere, costringendo la stessa presenza ad accadere, a sporgere a se stessa, a impegnarsi e a scegliere»[26].

La storia umana è dunque, per de Martino, storia di evoluzione e trasformazione. Non è e non può essere pensata come ritorno indietro, ciclico ripresentarsi di situazioni già date, né a livello collettivo, né tanto meno a livello individuale. Questo è invece quanto, di fondo, proponevano coloro che erano da lui criticati come irrazionalisti, da van der Leeuw a Eliade stesso. Essi erano definiti dall’etnologo come fautori della ripetizione e portatori di una «fobia della prima volta» e del nuovo[27]. Il pensiero demartiniano, fondendo altezze teoriche e consapevolezza politica, afferma che la storia è tale solo in quanto storia umana, incarnata e trasformativa. E l’uomo non è riproposizione di categorie spirituali o proiezioni extramondane, la lotta per la presenza lo qualifica interamente.

Di fronte ai canti popolari sulle nascite e infanzie miserande, de Martino avverte che sarebbe sbagliato ricollegarle al Geworfenheit heideggeriano, alla deiezione. Il problema non è quello esistenzialista, «di cercare dei complementi teologici al non starci nel mondo, ma – semplicemente – di trasformare il mondo per starci tutti da uomini»[28]. L’esserci nel mondo dunque non è puro negativo, come voleva Heidegger, ma non è neppure datità indiscutibile[29]: è una lotta continua di affermazione di sé. Nel fare questa scoperta, de Martino pone due principi alla base dell’umano: crisi della presenza come momento negativo, di labilità, del quale analizza la risoluzione che storicamente se ne è data in chiave mitico-rituale; ed ethos del trascendimento, come proposta di una prassi trasformativa e valorizzante connaturata all’uomo nel suo agire nel mondo e nei rapporti. Risulta quindi chiaro quando scrive che il «fondamento dell’umana esistenza non è l’essere ma il dover essere, cioè quello slancio valorizzatore intersoggettivo della vita»[30].

La riflessione ultima di de Martino, ha scritto Carla Pasquinelli, «segna la morte del sacro»: l’«ethos del trascendimento diventa la forma attraverso cui l’uomo accetta di stare nella storia in una maniera che non sia pura ripetizione e imitazione del passato»[31]. All’ethos spetta il compito di fondare la presenza, ma al tempo stesso di plasmare un mondo in cui essa possa darsi[32].

Com’è noto, de Martino provò a mettere a frutto questa sua concezione progressiva dell’essere umano e della società in una concreta azione politica: dopo la giovanile infatuazione per la “religione civile” fascista, si avvicinò al Partito d’azione e partecipò attivamente alla Resistenza, con il Partito italiano del lavoro, fu poi segretario di federazione, in Puglia, per il Psi e infine aderì al Pci[33]. Da queste esperienze politiche uscì sempre deluso, vivendo una profonda solitudine umana e di pensiero. Come ha scritto ancora Pasquinelli: «De Martino è solo, perché non c’è nessuno che capisca quello che dice, nessuno che riesca a interpretare il suo linguaggio cifrato, nessuno in grado di fargli da sponda e rimandargli un’immagine minimamente corrispondente allo stato della sua riflessione»[34].

La ripubblicazione, oggi, di Morte e pianto rituale può essere però occasione di un proficuo ripensamento. «È l’elaborazione del lutto […] che permette, separandosi dal passato, di vivere il presente. È l’elaborazione del lutto che permette di vivere il presente come attimo vitale», di vivere il «tempo dell’uomo (come vissuto e come storia)»[35]. Quella che l’antropologia demartiniana propone è una storia in cui esserci tutti da uomini, una storia da plasmare e riplasmare attraverso l’ethos del trascendimento. La proposta eliadiana, al contrario, sembra riproporre la staticità di un tempo circolare al quale fare ritorno, l’impossibilità di un movimento di liberazione umana. Le due diverse prospettive sono fautrici, in chiave politica, di un opposto sguardo sull’uomo e sul mondo: il tempo sospeso del sacro, con le sue fantasticherie immortaliste, promuove un’abolizione della nozione di storia e, di conseguenza, invalida in partenza ogni opzione trasformativa sul reale. Che questa prospettiva, debitamente camuffata e riadattata, sia stata quella maggiormente adottata dalle controculture giovanili degli anni Sessanta può forse aiutare a comprendere le ragioni di un’azione che non ha saputo farsi concretamente politica, ma anzi ha consumato la sua parabola passando dalla contestazione dell’istituzione al farsi istituzione essa stessa. Ma se la battaglia culturale è stata vinta, nei decenni scorsi, dal pensiero di Eliade, forse oggi i tempi sono maturi per una riscoperta di quello di de Martino. Una nuova antropologia in cui la crisi e il suo creativo superamento siano posti come fondamento dell’umano agire nel mondo. Della riscoperta di un tale pensiero progressivo si sente, oggi, sempre più l’esigenza.


[1] Si vedano, tra gli altri: P. Angelini, L’uomo sul tetto. Mircea Eliade e la «storia delle religioni», Bollati Boringhieri, Torino 2001, pp. 77-139; A. Testa, “Le destin tylorien. Considérations inactuelles sur la realité de la magie”, Etnographiques.org Revue en ligne de sciences humaines et sociales, 21 (2010).

[2] E. de Martino (1958), Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, a cura di M. Massenzio, Einaudi, Torino 2021.

[3] E. Cioran, M. Eliade, Una segreta complicità. Lettere 1933-1983, Adelphi, Milano 2019.

[4] Ivi, p. 131.

[5] P. Angelini, L’uomo sul tetto, cit., p. 102.

[6] Tra i suoi filoni di ricerca principali quello sullo yoga, che lo impegnò sin dalla tesi dottorale, e sullo sciamanesimo. Si vedano in particolare: M. Eliade, Technique du Yoga, Gallimard, Parigi 1948; Id., Le chamanisme et les techniques archaïques de l’extase, Payot, Parigi 1950 (2° ed. 1968); Id., Le Yoga. Immortalité et liberté, Payot, Parigi 1954 (2° ed. 1968)

[7] E. Cioran, M. Eliade, Una segreta complicità, cit., pp. 117-120, 122-123, 127.

[8] M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. 1, Dall’età della pietra ai Misteri Eleusini, Sansoni, Firenze 1979, p.7.

[9] E. Manera, “L’eredità di Eliade. Intervista a Leonardo Ambasciano”, Doppiozero, 12 aprile 2017. Si veda, inoltre: L. Ambasciano, Sciamanesimo senza sciamanesimo. Le radici intellettuali del modello sciamanico di Mircea Eliade: evoluzionismo, psicoanalisi, te(le)ologia, Nuova cultura, Roma 2014.

[10] M. Eliade, Giornale, Bollati Boringhieri, Torino 1976, p. 78.

[11] S. Botta, Dagli sciamani allo sciamanesimo. Discorsi, credenze, pratiche, Carocci, Roma 2018, p. 112.

[12] Vedi: M. Eliade, La nostalgia delle origini. Storia e significato nella religione, Morcelliana, Brescia 2000.

[13] S. Botta, Dagli sciamani allo sciamanesimo, cit., p. 112.

[14] Ivi, p. 118.

[15] Su questo, si vedano gli spunti in: P. Gramigni, “Prefazione”, in A. F. Iannaco, Hegel in viaggio da Atene a Berlino. La crisi di ipocondria e la sua soluzione, L’asino d’oro edizioni, Roma 2021, pp. XVII-XVIII.

[16] A. Laignel-Lavastine, Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco. Tre intellettuali rumeni nella bufera del secolo, Utet, Torino 2008, p. 150.

[17] Ivi, p. 178.

[18] Vedi: M. Eliade, Diario portoghese, Jaca Book, Milano 2009.

[19] M. Carloni, “L’archivista del sacro”, in E. Cioran, M. Eliade, Una segreta complicità, cit., p. 289

[20] A. Testa “Estasi e crisi. Note su sciamanesimo e pessimismo storico in Eliade, de Martino e Lévi-Strauss”, in L. Arcari, A. Saggioro, Sciamanesimo e sciamanesimi. Un problema storiografico, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2015, p. 109.

[21] Cit. in: L. Arcari, “Chamanisme di Mircea Eliade alla prova della comparazione. L’assenza del profetismo ebraico antico”, in L. Arcari, A. Saggioro, Sciamanesimo e sciamanesimi, cit., p. 81.

[22] Vedi, ancora: S. Botta, Dagli sciamani allo sciamanesimo, cit., pp. 119-135.

[23] N. Lalli, “Il sacro, l’homo religiosus e la morte”, Il sogno della farfalla, 2 (1993), p. 43

[24] E. de Martino, Morte e pianto rituale, cit., pp. 8-9 (corsivo mio).

[25] E. de Martino, “Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto”, Studi e materiali di storia delle religioni, 24-25 (1953-1954), pp. 18-19.

[26] Ivi, p. 19.

[27] Id., “Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni”, Società, n. 3 (1953), pp. 17-18.

[28] Ivi, p. 14.

[29] Id. (1977), La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di Clara Gallini, Einaudi, Torino 2002, pp. 639-640.

[30] Id., La fine del mondo, cit., p. 668.

[31] C. Pasquinelli, “Trascendenza ed ethos del lavoro. Note su La fine del mondo di Ernesto de Martino”, La ricerca folklorica, n. 9 (1984), p. 34.

[32] Ivi, p. 33.

[33] Su questi temi, vedi in particolare: E. Andri, Il giovane Ernesto de Martino. Storia di un dramma dimenticato, Transeuropa, Massa 2014; R. Ciavolella, L’etnologo e il popolo di questo mondo. Ernesto de Martino e la Resistenza in Romagna (1943-1945), Meltemi, Milano 2018; V. S. Severino, “Ernesto de Martino nel Pci degli anni Cinquanta tra religione e politica culturale”, Studi Storici, n. 2 (2003), pp. 527-553.

[34] C. Pasquinelli, “Solitudine e inattualità di Ernesto de Martino”, in C. Gallini, M. Massenzio (a cura di), Ernesto de Martino nella cultura europea, Liguori, Napoli 1997, p. 295.

[35] N. Lalli, “Il sacro, l’homo religiosus e la morte”, cit, p. 59.

Scritto da
Andreas Iacarella

Laureato in Scienze storiche presso la Sapienza di Roma con una tesi di antropologia delle scritture personali. Svolge attività di ricerca presso il Gramsci centre for the humanities di San Marino e collabora a vario titolo con diverse riviste tra cui «Pandora Rivista», «Storiografia», «Il sogno della farfalla». Ha co-curato il volume collettivo “Conoscere per trasformare. La ricerca di Ernesto de Martino” (Left 2021), è inoltre autore di “Indiani metropolitani. Politica, cultura e rivoluzione nel ‘77” (Red Star Press 2018) e di diverse pubblicazioni sulla storia delle scienze della mente in Italia.

Pandora Rivista esiste grazie a te. Sostienila!

Se pensi che questo e altri articoli di Pandora Rivista affrontino argomenti interessanti e propongano approfondimenti di qualità, forse potresti pensare di sostenere il nostro progetto, che esiste grazie ai suoi lettori e ai giovani redattori che lo animano. Il modo più semplice è abbonarsi alla rivista cartacea e ai contenuti online Pandora+, è anche possibile regalare l’abbonamento. Grazie!

Abbonati ora

Seguici