Questo contributo fa parte di un dibattito su temi sollevati dall’articolo che apre il numero 6/2019 della Rivista «il Mulino», dal titolo Perché la democrazia è in crisi? Socialisti e liberali per i tempi nuovi, scritto congiuntamente da Giuseppe Provenzano ed Emanuele Felice. Tra i temi sollevati nella discussione la parabola storica del liberalismo e il possibile incontro con il pensiero socialista, le cause delle disuguaglianze, il ruolo e l’apporto delle culture politiche ai cambiamenti storici, le chiavi per comprendere il cambiamento tecnologico, le forme della globalizzazione e la crisi ambientale. Per approfondire è possibile consultare l’introduzione del dibattito con l’indice dei contributi pubblicati finora.
L’articolo di Provenzano e Felice illustra una storia di rapporti, intrecci, contaminazioni e analogie tra liberalismo e socialismo, contro una certa vulgata secondo la quale le due culture politiche siano da intendersi in reciproco antagonismo. Una vulgata della quale, naturalmente, non si intende negare un suo fondamento, storico e filosofico. Occorre tuttavia uscire dalla semplificazione secondo la quale il socialismo, nelle sue varie sfaccettature, sarebbe stato indifferente alla realizzazione degli individui ponendo attenzione solo all’equa regolazione della comunità, mentre il liberalismo, al contrario, avrebbe negato il valore della dimensione comunitaria per focalizzarsi unicamente sull’individuo. In realtà, una tensione tra socialismo e liberalismo deve certamente essere mantenuta, ma può più correttamente essere interpretata nel senso seguente. Sempre in linee molto generali, il socialismo ritiene che l’obiettivo della felicità degli individui sia davvero alla portata solo nella realizzazione di una società giusta; mentre secondo il liberalismo la società deve essere regolata al fine di favorire la massima espansione e realizzazione degli individui, delle comunità e delle articolazioni intermedie del collettivo. Una tensione, come si vede, che è ben lontana dall’essere una pura contrapposizione; e che lascia ampi margini di reciproca fecondazione, come la storia ripercorsa nell’articolo di Provenzano e Felice dimostra.
Il discorso potrebbe essere spinto oltre, se consideriamo che tanto il liberalismo quanto il socialismo, pure nei loro tratti tensivi e potenzialmente contraddittori, appartengono ad una comune famiglia, che molti (ad esempio Habermas[1]) insistono a chiamare “modernità”, di cui è dato individuare un “discorso filosofico” specifico. Una comune famiglia, quella moderna, che deve l’imprinting iniziale all’Illuminismo. In modi diversi, tanto i socialisti utopisti à la Fourier, quanto i liberali alla Bentham e Mill, quanto infine Marx ed Engels riconoscono all’Illuminismo una qualche forma di paternità. Bisognerebbe approfondire con maggior dettaglio questo punto, giacché spesso le proclamate prese di distanza dei figli dai padri, ora di sostanza e ora retoriche, finiscono per occultare le continuità storiche e filosofiche. Ma in questo contesto ci interessa sottolineare un luogo specifico di questa eredità illuminista tanto nel socialismo quanto nel liberalismo, e non certo solo perché la storia delle idee ci appassiona, ma perché questo luogo merita di essere rimesso al centro dell’attenzione delle politiche di un socialismo rinnovato, compatibile con i valori di libertà e realizzazione personale. Questo luogo è la libertà di pensiero.
Sapere aude[2]: il grande motto kantiano afferma con efficacia lo spirito dell’Illuminismo: osare, avere il coraggio di sapere. L’innovazione di questa formula consiste nel considerare il sapere come un processo innescato da un atto di coraggio: il coraggio di non lasciarsi condizionare dalle opinioni prevalenti, dalle verità precostituite imposte dalle autorità dominanti, dalle dottrine incardinate nelle pur solide tradizioni intellettuali. La libertà di pensiero, in questo quadro, non consiste dunque nello sdoganamento del relativismo delle opinioni, che tanto spesso è stato considerato come un tratto di debolezza delle democrazie liberali deprivate della possibilità di indicare obiettivi di giustizia validi per tutti – un tratto di debolezza competitiva nei confronti di stati etici, come i totalitarismi. La libertà di pensiero invece richiama il soggetto innanzitutto alla responsabilità di un pensare che sappia essere critico; solo in quanto critico, infatti, il pensiero può davvero essere libero. L’esercizio della coscienza critica è davvero, nello stesso tempo, un atto di coraggio, in quanto si tratta di guadagnare anzitutto uno spazio di libertà interiore, laddove, come i teorici della servitù volontaria sapevano bene, sarebbe più facile affidarsi alle opinioni (e alle decisioni) altrui. Ora, l’elemento critico, così fondamentale per l’Illuminismo, è presente in misura non trascurabile tanto nella tradizione marxista quanto in quella liberale. Nel Saggio sulla Libertà John Stuart Mill[3] dedica molte pagine alla libertà di pensiero e di coscienza. In esse è presente la consapevolezza esplicita che la morale predominante di una nazione dipenda dagli interessi della sua classe dominante. Ne risulta che il cammino di ognuno verso la felicità sia fortemente condizionato da motivi morali che trovano fondamento nei rapporti di forza esistenti della società. Il libero pensiero e la libera opinione deve dunque essere garantita non già affinché ciascuno possa pensare tutto ciò che vuole, ma perché non può nascere nessuna felicità in condizione di costrizione, consapevole o inconsapevole che sia. Non si può barattare la libertà per la felicità: non si può essere davvero felici quando si vive in una società omologata e resa asfittica da regole morali o imposizioni sociali che impediscono il libero pensiero. D’altra parte, affinché gli individui siano liberi in coscienza e pensiero, occorre che la società sia liberata: che si doti cioè di forme di regolazione che garantiscano a tutti i suoi membri l’esercizio del libero pensiero, attraverso la rimozione delle cause morali e intellettuali della servitù.
Ora: sicuramente nelle culture socialiste, in particolare a partire da Marx, è più viva la consapevolezza che le cause della servitù, qui ribattezzata alienazione[4], siano socio-economiche. Da questa consapevolezza deriva una più viva attenzione nei confronti della rimozione delle cause strutturali dell’ingiustizia, che impedisce la libera espansione e realizzazione (come si legge in Provenzano e Felice, la fioritura) dell’essere umano. Per questo, il marxismo allude più esplicitamente del liberalismo all’esigenza di organizzare una lotta sociale che abbia come obiettivo il superamento dei rapporti di forza esistenti nella società e l’instaurazione di un ordine giusto, compatibile appunto con la fioritura dell’essere umano. Certo, la viva coscienza che Marx ha della storicità delle lotte e dei cambiamenti spinge le tesi socialiste verso il superamento dell’idea che il soggetto critico sia l’individuo in generale (idea ancora propria del liberalismo), nella direzione dell’individuazione di quella categoria sociale che può essere critica, e dunque rivoluzionaria, per eccellenza: questa classe, come si sa, è, nel discorso marxiano classico, il proletariato. Tuttavia, ciò che ci interessa qui è il fatto che anche la classe deve sviluppare coscienza di sé, del proprio potenziale, delle proprie esigenze più autentiche e della propria posizione sociale, per poter agire come soggetto rivoluzionario. Di qui deriva la straordinaria importanza che nelle culture socialiste ha avuto la formazione politica, sia nella forma più stretta della “scuola di partito”, sia nei più variegati approcci (di assimilazione, o di presa di distanza) che le classi dirigenti dei partiti socialisti e comunisti europei hanno tentato nei confronti della più diffusa cultura umanistica, scientifica e filosofica.
Sosteniamo dunque che vi sia una parentela di tipo filosofico e culturale tra il liberalismo e il socialismo, visibile nell’importanza che in entrambe le tradizioni è data alla critica e alla sua funzione progressiva. Non si deve tuttavia confondere quella che è una ricerca intorno ai fondamenti filosofici e culturali delle stesse con un giudizio di tipo storico sulle classi dirigenti liberali ottocentesche, le quali per molti aspetti sono state quanto di più distante da nucleo filosofico del liberalismo che qui cerchiamo di riattivare. È cosa nota che vi siano stati dei legami tra molto liberalismo politico ottocentesco, la cui impostazione ideologica andava vieppiù esprimendo gli interessi borghesi, e mentalità coloniale e imperialista. Talvolta, da sinistra, si tende a sottolineare come il senso di superiorità occidentale insito nell’autocomprensione della borghesia dipenda esattamente dalle fonti illuministe, le quali peraltro, a dispetto della loro presunta aspirazione critica, erano tutt’altro che esenti da pregiudizi di tipo razziale[5]. In questo modo, si tratteggia una connessione stretta di liberalismo, universalismo, etnocentrismo occidentale e, nel caso della Dialettica dell’Illuminismo di Adorno, campi di concentramento della Seconda guerra mondiale. Eppure, in questo tentativo di cogliere nel liberalismo intrinseche tendenze reazionarie, in netta contrapposizione all’orientamento progressista del socialismo, vi sono almeno un errore di prospettiva e uno di fondo. L’errore di prospettiva consiste nel trascurare la presenza di tratti etnocentrici nel socialismo (e addirittura nel testo di Marx), mentre si sottolineano quelli del liberalismo. Il progresso postulato dal materialismo storico non giustifica sul piano antropologico e valoriale differenziazioni di razza; sta di fatto, però, che vi sono popoli e aree del mondo in cui la storia si muove più velocemente che altri, a seconda di quale sia lo stadio di sviluppo delle forze produttive e di evoluzione dei loro rapporti. Così ci sono popoli primitivi e popoli storici; di più, ci sono ambienti naturalmente adatti allo sviluppo del capitale, dunque del conflitto che porterà alla maturazione del proletariato come soggetto dell’emancipazione umana, e ambienti inadatti, in cui «l’uomo è tenuto per mano come si tiene un bambino con le dande»: «Non la fertilità assoluta del suolo ma la sua differenziazione, la molteplicità dei suoi prodotti naturali, è quel che costituisce la base naturale della divisione sociale del lavoro e che sprona l’uomo a moltiplicare i propri bisogni, le proprie capacità, i propri mezzi e i propri modi di lavorare»[6]. D’altra parte, si possono trovare dei controesempi tanto in Marx quanto in Kant. È viva in Marx la coscienza che la divisione internazionale del lavoro, «che assegnerebbe a ciascun paese una produzione in armonia con i suoi vantaggi naturali», è un costrutto ideologico della borghesia occidentale, la quale, al contrario, dove esercita influenze commerciali e coloniali, impone economie funzionali al proprio sviluppo[7]. Il nucleo filosofico del materialismo storico consente di smascherare ogni naturalizzazione dell’altro, quindi ogni forma di etnocentrismo e di pratica che ne deriva (tra cui l’imposizione di una divisione capitalistica del lavoro su scala territoriale e globale) come ideologia della classe dominante. Ma non è meno netta la critica alle tendenze coloniali e all’etnocentrismo europeo di Kant. In La Pace Perpetua, egli stigmatizza il carico di violenza e dolore procurato dagli europei ai popoli visitati: «Non si può non restare inorriditi davanti all’ingiustizia di cui essi danno prova nel visitare (e per essi ciò equivale a conquistare) paesi e popoli stranieri (…) Nelle Indie Orientali (Indostan), con il pretesto di insediare soltanto presunti empori commerciali, gli Europei introdussero truppe straniere con cui oppressero gli indigeni e provocarono tra i diffidenti Stati di quella regione guerre sempre più estese, carestie, rivolte, infedeltà, ecc., – insomma, la litania di tutti i mali che affliggono l’umanità»[8]. Il modello del soggetto autonomo e capace di autodeterminazione, che è il nucleo filosofico dell’illuminismo kantiano, consente a sua volta di denunciare la violenza, l’aggressione e la pretesa infondata di superiorità di alcuni umani su altri. Ed è a questo livello che si può intravedere meglio quale sia l’errore di fondo nelle interpretazioni che riducono il liberalismo all’etnocentrismo borghese dell’Ottocento. L’errore di fondo consiste nel tracciare un nesso di tipo causale tra un contenuto filosofico e culturale e una certa serie di incarnazioni storiche degli stessi. Pretendere che il liberalismo sia intrinsecamente e, diciamo, filosoficamente alla base delle distorsioni liberiste, etnocentriche e ideologiche di tanta classe dirigente ottocentesca è un po’ come imporre un nesso di causalità stringente tra il marxismo e il socialismo reale, con tutte le sue distorsioni violente. Ed è tra l’altro intellettualmente scorretto tentare la prima operazione mentre si contesta la seconda. Il punto è che il liberalismo, come il socialismo, e così anche l’illuminismo come loro sorgente comune, sono ideali, concetti filosofici, ma anche figure del desiderio, ambizioni umane e sociali incarnate in sistemi di idee: in quanto tali, non sono riducibili agli usi ideologici che storicamente uomini o nazioni ne fanno. Vi è anzi nei nuclei filosofici di queste tradizioni di pensiero un’ulteriorità intrinseca rispetto le loro attualizzazioni storiche: che poi è ciò che legittima nuove interpretazioni e forme di critica interna, le quali attivano, di quei concetti, virtualità e potenziali che le attualizzazioni storiche del passato hanno messo in ombra. Ed è questa ulteriorità intrinseca a legittimare altresì nuove interpretazioni e, soprattutto, nuovi collegamenti tra tradizioni che, storicamente, si sono incarnate come incompatibili e senz’altro contrapposte. Nello specifico, ci interessa qui sottolineare l’ulteriorità della critica, consacrata con l’Illuminismo e presente nel liberalismo e nel marxismo, il cui potenziale non è stato certo esaurito nella maturazione storica delle forme economiche e politiche scaturite da tali tradizioni. Peraltro, è proprio attraverso un “ritorno critico alla critica” così come espressa dal sapere aude di Kant che un autore come Foucault, di certo non tacciabile di adesione all’ideologia e alle retoriche del liberalismo, ha potuto riscattare l’Illuminismo dai suoi decadimenti storici, facendo di esso un progetto aperto e vivificante nella misura in cui ci rende capaci di renderci un po’ più liberi, o un po’ meno “eccessivamente governati”[9]. Siamo consapevoli che la riflessione qui proposta potrebbe essere tacciata di “eccesso di filosofia”: cionondimeno, non si vede come possa essere affrontata fino in fondo una discussione di carattere politico sul destino nel nostro secolo di due tradizioni importanti come il socialismo e il liberalismo, senza il supporto di un approfondimento filosofico. Né si capisce come, e fino a che punto, possano essere colte in esse delle risorse di pensiero ancora attive e utili per le politiche del presente, senza un ritorno critico che faccia risaltare potenzialità non ancora esperite nella storia. La possibilità che andiamo cercando è che il Ventunesimo secolo realizzi, sulle rovine del recente passato, una nuova sintesi di libertà ed eguaglianza. Ma altro materiale non abbiamo per farlo se non queste rovine, che come le mura di una fabbrica manchesteriana dismessa, abbandonate in mezzo ad una valle di precoce e perduta industrializzazione, attende nuove interpretazioni e vocazioni per tornare ad esistere socialmente come qualche cosa di nuovo.
Alla luce del quadro qui descritto, si può facilmente vedere come l’obiettivo proprio delle democrazie europee di realizzare un sistema formativo universalistico, che educhi i futuri cittadini alla responsabilità del pensiero attraverso l’assimilazione critica di un patrimonio di saperi e pratiche sedimentate nel corso della storia, trovi riscontro tanto nel liberalismo quanto nel socialismo. E si tratta di un obiettivo considerato proprio della democrazia in quanto ne va della democrazia: cioè ne va della possibilità stessa di una società, insieme, libera e giusta, che possa reggersi senza ricorrere alla violenza della costrizione morale e sociale e alle semplificazioni operate da una qualche autorità assoluta. Per questo, la degradazione del liberalismo in ideologia neoliberale è peculiarmente rappresentata da alcune delle evoluzioni in atto nei sistemi formativi ed educativi delle democrazie europee, e dai riflessi degli stessi nel grado e nella qualità della cultura diffusa e delle classi dirigenti. Mi concentrerò ora sul caso italiano.
Durante la fase della cosiddetta egemonia neoliberale, in Italia, la scuola, l’istruzione professionale e l’università hanno subito una serie di riforme volte a introdurre elementi di meritocrazia nella valutazione degli studenti e dei docenti, nel sistema del reclutamento e nel finanziamento stesso dei plessi scolastici e negli atenei. Il modello, più performante e dinamico sotto diversi punti di vista, ha altresì determinato una condizione di sostanziale concorrenza tra istituti ed Atenei: una concorrenza regolata da parametri quantitativi quali il numero di iscritti a scuole, facoltà e dipartimenti, il numero di pubblicazioni dei ricercatori, il numero di tesisti dei docenti universitari. Come dimostrano ad esempio i risultati dei test Invalsi, questa rincorsa forzata al superamento dei parametri quantitativi non ha prodotto un miglioramento qualitativo del rendimento scolastico medio[10]. Se si aggiungono gli effetti determinati dal combinato disposto del blocco delle retribuzioni del personale scolastico[11] e del blocco delle assunzioni che negli ultimi anni ha prodotto una riduzione del numero dei reclutati e un aumento vertiginoso della precarizzazione del lavoro nella scuola e nell’università[12], non ci si può veramente stupire dei risultati poco lusinghieri del sistema. Naturalmente i problemi del mondo scolastico e accademico non sono sufficienti a spiegare quella che a tutti gli effetti appare come un’emergenza culturale diffusa. Il tasso di analfabetismo funzionale presente nel nostro Paese, suddiviso per fasce di età, dimostra che l’impatto delle nuove tecnologie, coniugato ad un indebolimento dei tradizionali vettori di cultura e integrazione quali la famiglia, i partiti, i corpi intermedi, produce una progressiva riduzione delle capacità di comprensione e gestione delle informazioni soprattutto presso gli adulti[13].
Ora, forse proprio sul terreno della rivalutazione del ruolo del pubblico nel costruire, diffondere e tramandare culture e competenze condivise, a partire da un ingente investimento sulla scuola e sull’università pubbliche, un rinnovato socialismo può incontrare il migliore liberalismo. Da una parte, non deve sfuggire che la presenza di persistenti (e anzi crescenti) disuguaglianze sociali produce inique condizioni di accesso e fruizione ai saperi. Dall’altra, occorre considerare che l’indebolimento delle istituzioni preposte a produrre coscienza civica e comprensione della realtà finisce per acuire la disaffezione popolare nei confronti della democrazia, che rimane, con i suoi poteri e le sue autorità plurali, le sue competizioni elettorali, le sue dinamiche spesso imprevedibili, una forma di ordinamento che implica una gestione condivisa, e partecipata, della complessità. Richiede, dunque, una libertà di pensiero nel senso dell’autentica tradizione liberale: una capacità critica dell’individuo sul reale. E nello stesso una coscienza di sé, nei termini già pensati dal marxismo: in termini di appartenenza a reti e classi sociali, di posizione occupata nella società, di responsabilità in relazione a se stessi, al proprio lavoro e agli altri. La democrazia si tiene solo fintanto che è avvertita e condivisa questa responsabilità. Era già chiaro ai classici del pensiero politico, come Montesquieu, che, più delle altre forme di governo, il governo del popolo richiede che il popolo sappia esercitare il potere: ma questo sapere non deve essere confuso con uno specialismo amministrativo o un tecnicismo che, tante volte, ha accompagnato, nella sua pretesa neutralità, proprio quell’ideologia liberale che, nelle sue conseguenze, mina alla base la democrazia stessa. Il sapere che deve essere patrimonio di un popolo che si governa democraticamente è piuttosto la consapevolezza critica del presente, in quanto ultimo custode del bene comune.
[1] J. Habermas, Der philosophische Diskurs der Moderne. Zwölf Vorlesungen, 1985; tr. it. di E. Agazzi, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari 2003.
[2] I. Kant, Was ist Aufklärung?, 1784; tr. it. di P. Martinetti, Che cos’è l’Illuminismo, in Antologia kantiana, Paravia, Torino, 1944.
[3] Cfr. J. S. Mill, On Liberty, 1859; tr. it. a cura di S. Magistretti, Saggio sulla libertà, il Saggiatore, Milano ed. 2014.
[4] Cfr. K. Marx, Ökonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844, 1844; tr. it. di N. Bobbio, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1968.
[5] Si vedano, a questo proposito, alcune informazioni riportate da Kant, strenuo difensore dell’umanità universale, a proposito di molte civiltà extra-europee: «i Cinesi fanno dell’inganno un’arte», «in Birmania le donne si accoppiano volentieri con gli Europei e si vantano di essere ingravidati da loro», «tutti gli abitanti delle zone torride sono eccezionalmente pigri; nei paesi torridi gli uomini non raggiungono la perfezione delle zone temperate. L’umanità tocca la sua più alta perfezione nella razza dei bianchi» (I. Kant, Immanuel Kants physische Geographie. ed. Rink, 1802).
[6] K. Marx, Das Kapital, 1867; tr.it. di D. Cantimori e R. Panzieri, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1970.
[7] Cfr. su questo anche K. Marx, Miseria della filosofia, 1847.
[8] I. Kant, Per la pace perpetua (1796), tr. it. di V. Cicero, Rusconi, Milano 1997.
[9] M. Foucault, Illuminismo e critica, a cura di P. Napoli, Donzelli, Roma 1997, p. 38.
[10] «Anche le prove di grado 13 descrivono un’Italia in cui dal Nord al Sud del Paese i risultati progressivamente peggiorano» (Rapporto prove Invalsi 2019, p. 4).
[11] Cfr. scuolainforma.it/aran-certifica-blocco-retribuzioni-personale-scuola
[12] La questione del blocco del personale nella pubblica amministrazione si trascina dalla Legge Finanziaria del 2003, art. 34 comma 3 legge 289/2002 e ha avuto una stretta decisiva con il d.l. 112/2008 a firma, tra gli altri, di Tremonti. Ancora nel 2018, durante il governo Conte I, all’interno del maxiemendamento alla Legge di Bilancio, al comma 208, venivano bloccate le assunzioni di personale a tempo indeterminato nelle pubbliche amministrazioni e nelle università fino al 15 novembre 2019. Non si contano gli interventi delle organizzazioni sindacali e delle associazioni di categoria per denunciare la situazione di diffusa precarietà e di incertezza in cui scuole e università si trovano ogni anno a causa di queste politiche. Solo nel 2017, secondo i dati OCSE, l’Italia ha il corpo docente più vecchio del mondo con l’età media superiore ai 50 anni (https://www.tecnicadellascuola.it/docenti-cattedra-meno-altri-paesi-stipendi-bassi-numeri).
[13] Cfr, ad esempio, i dati del dell’indagine PIAAC – OCSE 2019, ripresi e commentati dall’Associazione Nazionale Orientatori: https://asnor.it/italia-sette-adulti-su-dieci-soffrono-di-analfabetismo-funzionale/