Recensione a: Marco d’Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo, Feltrinelli, Milano 2017, pp. 256, 22 euro (scheda libro)
Scritto da Gaetano Panetta
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Così mi riconosco, viaggiatore, archeologo dello spazio […]
Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici
Tourism production system[1]. Tre parole, scarne ed essenziali, riassumono al meglio l’originale lavoro di Marco d’Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo. Un libro nato da un “inciampo”, come affermato dallo stesso giornalista e sociologo in numerose interviste. Infatti la prima intenzione era quella di soffermarsi sullo studio della città turistica, argomento che lo ha portato gradualmente ad interrogarsi sulla civiltà che ad essa sottende, per poi arrivare alla consapevolezza che entrambi i temi rientravano all’interno di una problematica più complessa riassumibile nella definizione di età del turismo.
Il testo si apre con un’immagine al tempo stesso evocativa e decadente: Roma in pieno agosto, spoglia dei suoi abitanti ma attraversata da orde infinite di turisti in cammino da una parte all’altra della città, immersa in una sorta di immobilismo buzzatiano. Il turismo si nutre anche di queste atmosfere che collimano con i meccanismi industriali ed economici della società postmoderna, caratterizzata da un profondo senso di frammentazione del presente, dove ogni legame con il passato[2] è rotto in favore di flussi incessanti d’informazioni, a tratti ingovernabili[3].
L’analisi della dimensione industriale del turismo e del profondo impatto economico che sta avendo in questi anni sulla società contemporanea (in grado di catalizzare anche le attenzioni del terrorismo internazionale[4]), è un’operazione difficile da compiere. Il turismo, influenzando molti aspetti della nostra vita, l’ha, col tempo, storicizzata. Si è passati dalle esperienze suggestive dei settecenteschi Grand Tour, dove il viaggio era soprattutto un’opportunità conoscitiva da fare grazie all’ausilio e al tono pedagogico delle “guide” dell’epoca (funzionali nel dare un metodo a chi voleva scoprire aspetti specifici dei luoghi che andava a visitare[5]), a quelle attuali, il cui scopo principale è conoscere ogni anfratto culturalmente dirimente delle nostre città. Insomma, dal come al dove, dal viaggiatore al turista. Ma siamo sicuri che oggi esista ancora questa distinzione?
Il libro di d’Eramo è esso stesso un viaggio, un percorso che pone al centro l’Uomo nella sua evoluzione antropologica e sociale, fra dati statistici e profondi riferimenti culturali. E non c’è lente d’ingrandimento migliore del turismo per capirne ogni aspetto. Oggi il turista non rassomiglia né all’antico (homo) viator, il messaggero d’età tardoantica che percorreva precise rotte per portare ordini e informazioni, né al peregrinus altomedievale e medievale, mosso dal faticoso cammino della ricerca interiore e religiosa[6]. Dal Settecento in poi, grazie all’emergere progressivo delle masse e della loro alienazione dovuta al capitalismo, anche il viaggiare si è modificato. L’autore cita il caso di Mark Twain e del suo libro Innocents Abroad, un resoconto della prima crociera organizzata negli Stati Uniti a cui aveva partecipato lo stesso scrittore americano. Arrivati a Parigi, fra le tante attrazioni, Twain e gli altri viaggiatori andarono a visitare anche l’obitorio della città. Queste le sue parole[7]:
[…] gente, pensavo, che vive di forti eccitazioni e che visita regolarmente la Morgue, proprio come altri vanno a vedere opere teatrali ogni sera.
Alla fine dell’Ottocento, luoghi del genere potevano costituire la meta inquietante da inserire in qualsiasi percorso turistico. Se oggi evitiamo esperienze simili è solo perché, grazie alla TV e al web, ne siamo inondati quotidianamente. Il nostro essere turisti è stato modificato dalle nuove tecnologie ma una certa morbosità, simile a quella riscontrata da Twain, ancora persiste.
Efficace l’analisi sullo “sguardo” del turista. «Per vedere le cose bisogna compiere ipotesi e avere un’idea di ciò che stiamo guardando»[8]. Una frase che può benissimo essere applicata al meccanismo mentale che il turista elabora viaggiando, in un confronto dialettico fra realtà e immaginazione. Non bisogna dimenticare come questo processo sia alla base della costruzione dell’identità individuale. Il turista contemporaneo non fa altro che bloccare se stesso grazie al suo continuo selfarsi, cercando ovunque di confermare la sua presenza, il suo esserci nel mondo. E nel cosiddetto post turismo[9], il turista è più consapevole nella scelta dei luoghi che vorrebbe visitare. La vista viene altamente sviluppata dal post turismo creando un corto circuito e una commistione con altri ambiti culturali dove il vedere assume un ruolo fondamentale. Su tutti, il cinema[10].
A ciò deve collegarsi il rapporto fra città e visione turistica. La seconda influenza la prima e non solo in termini puramente teorici. Gran parte dei nostri centri urbani, infatti, devono la loro visibilità al turismo, meglio, ai markers, ai “marcatori”, a tutto ciò che ne esalta una presunta caratteristica di “autenticità”. Un marker ci dice ciò che deve essere visitato creando un meccanismo definito dall’autore “semiologico”, fra significante (il marker stesso) e significato (l’attrattiva). Un processo che porterebbe il turista ad “accumulare” marcatori facendoli diventare, col tempo, la motivazione del suo viaggio[11]. In sostanza, le attrazioni diventano tali attraverso la relazione sight-marker. Il luogo e il suo indicatore, entrambi compresi dall’offerta turistica. Ad essi è strettamente connesso il concetto di sightseeing (letteralmente “vedere le viste”, visitare luoghi interessanti), la cui teorizzazione venne elaborata nel 1967 da Burgelin e che d’Eramo riprende affermando come nell’Ottocento tale concezione si fosse già affermata[12]. Termine che cerca di rispondere alla domanda: cos’è che attrae davvero il turista? Se le prime formulazioni della teoria camuffano un sottile disprezzo borghese nei confronti della cultura di massa, rea d’interessarsi soltanto alla conoscenza delle proprie aspettative provinciali, con Enzensberger tutto ciò inizia a capovolgersi, inserendo il sightseeing all’interno di un’idea di turismo da intendersi come fuga dalla propria quotidianità[13].
Ai turisti va fatta vedere, va rappresentata l’idea che hanno del luogo scelto per trascorrere le proprie le vacanze e, in questo sottile gioco delle parti, il turista realizza consapevolmente che non tutto quello che vede è davvero autentico. Ma si tratta di un piccolo prezzo che egli paga volentieri lì dove, invece, sono le città a subirne gli effetti peggiori. Tutto questo, infatti, non fa altro che impoverire il loro originario tessuto urbano svuotandolo delle attività tradizionali che un tempo lo caratterizzavano, mentre quelle principali subiscono una radicale metamorfosi in funzione del turismo. Non a caso la conseguenza più evidente è l’abbandono graduale dei residenti. Ma non è l’unica. A livello più sottile è il cosiddetto zoning a sortire gli effetti peggiori. Nella contemporanea pianificazione urbana, la suddivisione estremamente settaria degli spazi, in base alla quale non c’è alcuna commistione fra le varie zone, contribuisce a modificare il modo in cui noi stessi (e quindi, anche noi come turisti) pensiamo e concepiamo determinati atteggiamenti sociali ed individuali. In alcuni giorni della settimana si fa una cosa; in altri, l’esatto contrario e così via. Arrivando ad una sorta di dominio sul tempo umano attuato attraverso lo spazio[14].
Per tutti questi motivi, il turista non può non cercare di evadere. L’inautenticità, la mercificazione e l’alienazione appartengono al concetto di turismo e all’essere turista, soggetto mosso dalla paradossale e nostalgica ricerca dell’autentico. Un personaggio sempre insoddisfatto della meta che gli è accessibile[15]. Di qui il parallelismo dell’autore con Hegel e la sua coscienza infelice[16]. Ma soprattutto con la rielaborazione attuata da Marx, il quale importò in campo economico il significato hegeliano di alienazione assimilandolo a quello di estraneazione. Ed è quest’ultimo riadattamento, spogliato dei suoi risvolti economici e da intendersi in termini esistenziali, ad applicarsi al turista.
Secondo d’Eramo la moderna suddivisione coatta del lavoro, il controllo preciso sulle nostre vite, provoca un profondo disorientamento in cui l’alienazione (termine, secondo l’autore, quasi desueto in quanto ormai endemicamente presente nella modernità) è indotta dall’esterno, mentre dovremmo ambire a una società in cui ognuno di noi, per quanto possibile, possa scegliere liberamente il momento più opportuno per auto-organizzarsi il lavoro, per alienarsi positivamente dallo stesso, per uscire da sé responsabilmente.
In un mondo sempre di più monoculturale (così come espresso da Amartya Sen), fatto di sottosocietà e culture che non riescono realmente ad entrare in contatto fra loro pur sfiorandosi[17], un’alternativa migliore a questo modo di essere turisti non esiste. Almeno finché continueranno ad esserci il capitalismo e i suoi ritmi parossistici. Nonostante questo anche l’età del turismo, prima o poi, è destinata ad estinguersi così come sono cambiate, nel corso dei secoli, le modalità attraverso cui si è stati turisti.
La liquidità della società, la facilità degli scambi e dei viaggi fra le varie parti del mondo, porterà man mano quella che era un’attività impegnativa per dispendio di energie temporali, economiche e mentali, a confondersi con i ritmi forsennati del mondo contemporaneo fino alla totale mancanza di discernimento nel riconoscere un turista da una qualsiasi altra persona[18].
[1] d’Eramo 2017, p. 11.
[2] Cfr. Recalcati 2014, p. 4.
[3] Cfr. Minca 1996, pp. 58-61.
[4] d’Eramo 2017, p. 8.
[5] Ibid., p. 18.
[6] Personaggio il cui viaggiare diventava un’esperienza simbolico-metafisica, vera e propria metafora della vita, per alcuni aspetti in contrasto con la stabilitas loci (il legame con una comunità e un luogo ben precisi) sostenuta dalla Chiesa medievale e dal monachesimo benedettino.
[7] d’Eramo 2017, p. 30.
[8] Ings 2007, p. 130.
[9] L’attività di chi viaggia per diletto o istruzione nell’epoca postmoderna, cfr. Lozato-Giotart, Balfet 2009, p. 310.
[10] Per le persone meno avventurose, di una certa età o con problemi fisici, sono sempre più diffuse videoproiezioni in grado di riprodurre la bellezza dei luoghi scelti per il proprio viaggio (d’Eramo 2017, p. 33).
[11] Ibid., p. 43.
[12] Ibid., p. 35.
[13] Ibid., p. 37.
[14] Ibid., p. 139.
[15] Utili, per descrivere questa misera condizione esistenziale, le seguenti parole: “Il ritorno è una forma di oblio perché, dalla partenza all’arrivo immaginato come un ritorno al punto di partenza, i derivati della memoria, le ossessioni della vendetta, dell’attesa o del desiderio, gli incontri, la quotidianità, l’invecchiamento hanno eliminato il sapore preciso del passato […]” (Augé 2004, p. 65).
[16] d’Eramo 2017, p. 155. La coscienza che si sdoppia attribuendosi tutto ciò che è transitorio e ponendo al di fuori di sé il trascendente, ciò che sfugge nel raggiungimento e crea, per questo, frustrazione e infelicità.
[17] Ibid., p. 205 e p. 207.
[18] Ibid., p. 221.
Riferimenti bibliografici
Augé, M. (2004) Rovine e macerie. Il senso del tempo, Torino.
Berrino, A. (2011) Storia del turismo in Italia, Bologna.
Consiglio, S. – Riitano, A. (2015) Sud innovation. Patrimonio culturale, innovazione sociale e nuova cittadinanza, Milano.
Ings, S. (2007) Storia naturale dell’occhio, Torino.
Lozato-Giotart, J. P. – Balfet, M. (2009) Progettazione e gestione dei sistemi turistici. Territorio, sistemi di produzione e strategie, Milano.
Minca, C. (1996) Spazi effimeri. Geografia e turismo tra moderno e postmoderno, Padova.
Recalcati, M. (2014) L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Torino.
Savelli, A. (2002) Sociologia del turismo, Milano.