Il sistema bancario nel processo di privatizzazione in Cina
- 05 Novembre 2020

Il sistema bancario nel processo di privatizzazione in Cina

Scritto da Michelangelo Morelli

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Il processo di privatizzazione che ha interessato la Cina negli ultimi decenni è il risultato di una strategia più o meno consapevole attuata dal governo centrale, volta a modernizzare l’economia del Paese attraverso il rafforzamento della competizione tra i vari soggetti. Ciò non significa che il governo abbia rinunciato ad esercitare qualsivoglia forma di controllo, compensando anzi ogni concessione ai principi di mercato con la creazione di istituti deputati alla rigida regolamentazione dell’economia cinese in virtù del rispetto dei principi del socialismo di Stato. Il sistema bancario cinese non è immune a questo conflitto tra capitale e ideologia, rivestendovi anzi un ruolo fondamentale sia nei termini di privatizzazione dello stesso settore sia per quanto riguarda il rapporto con gli attori emersi nella nuova economia. Le vicende che lo hanno interessato sono per certi versi lo specchio delle problematiche emerse da un’integrazione “forzata” tra pianificazione e libero mercato, evidenziando perciò i limiti, soprattutto relativi alla coerenza dei propositi, del policy making di un Partito sempre più onnipotente.

Il simbolo del processo di privatizzazione interno al sistema bancario cinese è rappresentato dalle Joint-Stock Commercial Banks (JSCB), istituti commerciali a capitale misto nati negli anni Ottanta e Novanta. Si tratta nel complesso di 12 istituti, impegnati principalmente in funzioni di deposito ed erogazione del credito ordinario. Prendendo in esame dieci JSCB sulle dodici esistenti, risulta che solamente due sono controllate dallo Stato attraverso la maggioranza azionaria del Ministero delle Finanze (Bank Of Communications, CITIC Group). Altre cinque invece (China Everbright Bank, China Merchants Bank, Huaxia Bank, Shangai Pudong Development Bank, Shenzen Development Bank) sono riconducibili a SOE o holding di SOE, benché in alcune di queste banche vi siano delle rilevante partecipazioni estere. Infine, oltre a due banche (Guandong Development Bank, China Merchants Bank) controllate da compagnie legate al governo centrale o locale, solo due istituti erano definibili privati. Il più famoso di questi, la China Minsheng Banking Corporation, la cui quota azionaria per partecipante (tra cui molte SOE) non superava il 7%, diluisce però il proprio carattere privato con una forte controllo pubblico, trovandosi infatti sotto la giurisdizione della Federazione Nazionale dell’Industria e del Commercio, organo del governo deputato alla supervisione degli istituti privati[1].

Rispetto ai grandi istituti commerciali di Stato (SOCB) come la Bank of China e la Industrial and Commercial Bank of China, le JSCB hanno un patrimonio nettamente inferiore, sia in termini di peso complessivo degli asset sia per quanto riguarda il valore dei depositi e il numero di filiali sul territorio cinese[2]. La stessa differenza rimane anche nel caso dei profitti derivanti dal settore bancario: se infatti nel 2007, su un profitto complessivo di 446,7 miliardi RMB, le SOCB erano responsabili per il 55% di quei profitti, le JSCB lo erano solo del 12,6%[3]. Durante i primi decenni di vita le JSCB potevano contare quindi su asset meno consistenti, vantando comunque una miglior qualità del credito grazie al peso ridotto dei crediti inesigibili (Non Performing Loans, NPL) sui loro bilanci. Dal 2003 inoltre, anche grazie all’acquisto di NPL da parte del governo, il loro peso nel portafoglio delle JSBC si è ulteriormente ridotto, passando da una percentuale del 8,1% allo 0,7% del 2011.

Una spiegazione per la repentina diminuzione dei crediti tossici risiede indirettamente nella quotazione sui mercati finanziari delle banche commerciali, poiché questa procedura obbligò lo Stato a “purificare” i bilanci degli istituti. Nel giugno 2005 la più grande delle joint-stock, la Bank Of Communication (BOCOMM), venne quotata sulla borsa di Hong Kong tramite un’offerta pubblica iniziale (Initial Public Offering, IPO), relativamente però unicamente ad un particolare tipo di titoli, denominati H shares. Durante il periodo della quotazione il livello di NPL detenuti dalla BOCOMM subì una radicale trasformazione: se infatti nel 2004 il livello dei suoi NPL pre-IPO era del 18,5%, nel 2005 questo era sceso al 2,4%[4]. Questa riduzione è imputabile alla svendita massiccia di crediti scaduti ad una Asset Management Company (AMC), la CINDA, che tra giugno e agosto 2004 ne acquistò per un totale di 54 miliardi RMB. 

La quotazione in borsa della BOCOMM fu sostanzialmente una sperimentazione da parte del governo per testare la tenuta delle banche cinesi alla prova con la finanza internazionale. Non è infatti un caso che il segmento di titoli con cui gli istituti vennero quotati non fosse quello dei titoli del mercato domestico (A shares), valutati in RMB e rigidamente interdetti ad investitori esteri, ma quello delle H Shares, tradotte in valuta estera e accessibili anche a player stranieri. Le prime banche ad essere invece quotate sul listino delle A shares furono proprio cinque JSCB: la China Merchants Bank, Pudong Development Bank, China Minsheng Bank e Huaxia Bank sulla borsa di Shanghai, mentre la Shenzen Development Bank sulla borsa di Shenzen. La questione del listing è interessante non solo per le vicende relative agli NPL, ma anche per il contestuale ingresso di società estere nel capitale delle banche. Infatti, nonostante la partecipazione azionaria estera sia limitata per legge al 20%, all’interno delle JBCS vi sono investitori non-cinesi che detengono notevoli porzioni del capitale: alcuni di questi sono il gruppo bancario HSBC, che detiene il 18,6% della BOCOMM, la Deutsche Bank con il 17% di Huaxia Bank e il Banco Bilbao Vizcaya Argentaria, che possiede il 15% del capitale di CITIC[5].

La nascita delle JSBC è per certi versi il riflesso sul sistema bancario del complessivo processo di privatizzazione dell’economia cinese. Quando si parla di queste trasformazioni è però doveroso anche considerare i tratti caratterizzanti della privatizzazione cinese, nonché l’atteggiamento dalle banche cinesi, pubbliche o meno, all’interno del nuovo assetto. Dopo una serie di riforme fallimentari nel corso degli anni Ottanta, il governo cinese inaugurò nel 1992, anno del quattordicesimo congresso del PCC, il cosiddetto gaizhi: tale termine indicava un processo di privatizzazione, fusione e liquidazione delle imprese statali, implementato poi nel 1995 dalla politica governativa del zhuada fangxiao (tieni le grandi, lascia le piccole). Tale indirizzo strategico era guidato sostanzialmente da un principio bottom-up, poiché non lo Stato ma bensì le imprese erano responsabili delle modalità della privatizzazione e del reperimento dei fondi necessari[6]. Allo stesso modo questa strategia riorganizzava le priorità del governo, concentrandole in misura maggiore su quelle produzioni ritenute strategiche e maggiormente produttive.

La strategia fu realizzata attraverso due modalità: nel caso delle grandi SOE, queste vennero quotate sui mercati finanziari domestici ed esteri, mentre per le medio-piccole SOE fu costituito un fondo speciale per incoraggiare fusioni e riorganizzazioni così come bancarotte e ristrutturazioni del debito. Il risultato di questa strategia fu che tra il 1998 e il 2006 il numero di SOE (State Owned Entreprises) e SHE (State Holding Entreprises) passò da 64.737 unità a 24.961, con un incremento di oltre 22.000 milioni RMB nel valore aggiunto del prodotto e di 60.237 milioni RMB di asset totali[7]. Nello stesso arco cronologico il numero di imprese private è cresciuto da 10.667 a 149.736 unità[8], mentre quello delle grandi imprese (statali e non) ha seguito un trend instabile, diminuendo dalle 7.983 unità del 2000 alle 2.910 unità del 2007 per poi risalire fino alle 9.111 unità del 2011[9]. Infine, tra il 2000 e il 2007 il numero delle piccole e medie imprese è cresciuto da 154.902 unità a 300.262 unità del 2007, seguendo una genesi diversa a seconda del settore, del luogo e della proprietà[10].

Il rapporto delle banche nei confronti delle imprese gaizhi, quindi privatizzate, può sostanzialmente essere riassunto in una parola: debito. Ciò può risultare strano, considerando infatti che la trasformazione della proprietà dell’impresa aveva esattamente lo scopo opposto, cioè migliorare la produttività e soprattutto i margini di profitto dell’azienda. In effetti il processo di gaizhi ha avuto proprio l’effetto di alleggerire la condizione finanziaria delle imprese. Il problema è che queste ultime sono pervenute a questo obiettivo non attraverso aumenti della produttività o innovazioni tecnologiche, ma tramite una serie di tatticismi inerenti al processo di trasformazione societaria. Molte SOE, diventate poi imprese gaizhi, avevano infatti accumulato nel corso della loro storia un’enorme mole di debiti nei confronti delle banche commerciali. Il nuovo assetto proprietario, una volta rilevata l’impresa, si era rifiutato di assumere anche il precedente debito; spesso era la stessa impresa che decideva di privatizzarsi per evitare di pagare i debiti. I modi in cui ciò è stato fatto sono molteplici: alcune gaizhi hanno fondato una nuova società e lasciato il carico debitorio a nome di quella vecchia, altre sono andate incontro a processi di fusione, trasformazione in SRL o leasing, mentre molte altre hanno semplicemente dichiarato bancarotta[11]. Le banche si sono ritrovate così di fronte all’impossibilità di riscuotere i crediti dalle imprese ristrutturate, scontrandosi inoltre con la volontà dei governi locali di proteggere le aziende, viste come preziose fonti tributarie e occupazionali. La questione del debito non si può però ridurre unicamente alla collusione tra imprese gaizhi e governi locali. Si tratta di un più ampio problema di policy governative: infatti non solo l’enorme mole di prestiti erogati, peraltro con pochi controlli o sorveglianza, è stata il frutto della volontà pianificatrice del governo centrale, ma le bancarotte dichiarate dalle SOE, finalizzate poi alla trasformazione societaria, sono state sempre poste come prioritarie dal governo in termini di salvaguardia sociale, facendo passare in secondo piano il problema dei debiti.

La questione dei debiti dei gaizhi è solo un lato del controverso rapporto tra banca e imprese private, spesso soggette ad una vera e propria discriminazione creditizia. Infatti se nel 2003 le imprese di Stato erano destinatarie del 75% dei prestiti a breve termine delle banche, le imprese a capitale straniero e le imprese private ricevano rispettivamente il 3,5% e l’1,1%[12]. Sulla questione dei prestiti è bene precisare un punto, cioè quello relativo ai tassi di interesse, tenuti dalla banca centrale sempre ad un bassissimo livello. La fissazione del tasso di interesse da parte della banca centrale aveva un doppio effetto, sia dal lato del debitore che dal lato del creditore. Infatti con quel sistema chi prendeva in prestito non aveva alcuna reale scelta riguardo all’istituto a cui rivolgersi, poiché non potendo decidere autonomamente i tassi di interesse le banche non avevano alcun modo per farsi concorrenza e perciò differenziarsi l’una dall’altra. La conseguenza era senza dubbio quella di facilitare l’accesso al credito, creando però un’enorme quantità di depositi con scarsissimi rendimenti per il depositante. In più, proprio grazie all’abbondanza di riserve, le banche sono state in grado erogare grandi quantità di credito a buon mercato, senza alcun controllo ex ante od ex post, e generando quindi grandi quantità di NPL[13]. Nonostante questa situazione, il governo centrale ha sempre preferito agire sugli effetti piuttosto che sulle cause, rimediando all’eccesso di NPL tramite le AMC e lasciando intatte le politiche sui tassi di interesse. Il motivo alla base di questa scelta risiede nel fatto che i principali beneficiari del credito a buon mercato sono proprio le SOE, che in un sistema finanziario maggiormente concorrenziale verrebbero senza dubbio scartate per le imprese private, più redditizie e soprattutto più affidabili[14]. La preferenza accordata alle prime, a scapito dei privati, era visibile non solo nelle politiche sui prestiti, ma anche nei provvedimenti destinati a normare le procedure di fallimento, quindi la Legge Fallimentare del 1986 e la Legge di Procedura Civile del 1991: infatti queste, non prevedendo lo status di persona giuridica per le imprese private e quindi escludendole dalla procedure, finivano per impedire la liquidazione al pubblico degli asset o addirittura qualsivoglia ristrutturazione societaria[15].

La privatizzazione è per certi versi solo la fessura da cui filtra il riflesso delle innumerevoli problematiche che il socialismo di Stato deve fronteggiare aprendosi alle sfide dei mercati internazionali. Negli indirizzi del Partito si scorge la chiara volontà di portare la Cina ai vertici del sistema di potere mondiale, sfruttando al massimo le potenzialità del proprio apparato di sicurezza e di un impianto ideologico che sembra ancora riscuotere largo consenso tra la popolazione. Resta però da interrogarsi sul fatto se questi fattori, specie quello ideologico, possano davvero costituire la base di un potere globale e stabile, e non invece dei limiti interni che possano involontariamente boicottare le mire egemoniche del Dragone.


A questo link un approfondimento sulla storia delle banche di Stato in Cina (1978-2011), un importante tassello dell’ascesa di quello che è oggi uno dei principali player globali.


[1] Chiu Becky, Lewis Mervin K., Reforming China’s State-owned Enterprises and Banks, Cheltenam-Northampton, Edward Elgar, 2006, p.238

[2] Nel 2007 il valore degli asset e dei depositi delle SOCB ammontava rispettivamente a 26,584 miliardi di Yuan e a 21,935 miliardi di yuan, mentre quello delle JSCB a 9,432 miliardi di yuan e 6,992 miliardi di yuan. Inoltre nel 2009 il numero di filiali appartenenti alla più grande SOCB in tal senso, la Banca dell’Agricoltura Cinese, aveva un totale di 23,624 filiali e 441mila occupati, mentre la più grande JSCB, la Bank of Communications, aveva 2,657 filiali e 79mila occupati. [Fonte: Cousin Violaine, Banking in China, Palgrave MacMillan, 2011, p.112,114]

[3] Luo Dan, The Development of the Chinese Financial System and Reform of Chinese Commercial Banks, Palgrave MacMillan, 2016, p.14

[4] Keasey Kevin, Mcguinness Paul B., The Listing of Chinese State-Owned Banks and their Path to Banking and Ownership Reform in The China Quarterly, No. 201 (March 2010), Cambridge University Press, p.130

[5]Cousin Violaine, Banking in China, Palgrave MacMillan, 2011, p.116

[6] Tenev Stoyan, Zhang Chunlin, Corporate Governance and Enterprise Reform in China. Building the Institutions of Modern Markets, Washington, World Bank and the International Finance Corporation, 2002, p.28

[7] China’s Statistical Yearbook (2007), 14-8 Main Indicators of State-owned and State-holding Industrial Entrprises, http://www.stats.gov.cn/tjsj/ndsj/2007/indexeh.htm

[8] China Statistical Yearkbook (2019), 13-7 Main Indicators of Private Industrial Entreprises.

[9] National Bureau of Statistics of China, (Annual Data/Industry/Number of Enterprises).

[10] Ad esempio, nelle regioni costiere della Cina, su circa 14000 imprese privatizzate, il 22% era stato trasformato in una joint-stock company, il 13% aveva subito un processo di ristrutturazione, il 13% aveva attraversato una fusione e l’11% era stata ceduta in leasing. [Fonte: Tenev Stoyan, Zhang Chunlin, Corporate Governance and Enterprise Reform in China. Building the Institutions of Modern Markets, Washington, World Bank and the International Finance Corporation, 2002, p.30);

[11] Garnaut Ross, Song Ligang, Tenev Stoyan, Yeo Yang, China’s Ownership Transformation. Process, Outcomes, Prospects, World Banks Publications, 2005, p.79-80

[12] Chiu Becky, Lewis Mervin K., Reforming China’s State-owned Enterprises and Banks, Cheltenam-Northampton, Edward Elgar, 2006, p.208

[13] Subacchi Paola, The People’s Money. How China is Building a Global Currency, Columbia University Press, 2017, p.52-53

[14] Shih Victor, “Goldilocks” Liberalization: The Uneven Path Toward Interest Rate Reform in China da Journal of East Asian Studies, Vol. 11, No. 3 (settembre–dicembre 2011), Cambridge University Press, p.445

[15] Solamente con la Legge Fallimentare del 2006 si è arrivati ad includere nelle procedure di liquidazione, ristrutturazione e conciliazione anche le imprese private. [Fonte: Sharma Rajesh, Wang Guiguo, Development and Reform of Corporate Law in China, in China Review, The Chinese University of Hong Kong Press, 1999, p.32]

Scritto da
Michelangelo Morelli

Laureato in Storia delle istituzioni politiche all’Università di Bologna, frequenta attualmente il corso magistrale in Scienze storiche presso il medesimo Ateneo ed è alunno della Scuola di Politiche.

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