Il sonno della ragione: la crisi dell’Europa a confronto in Husserl e Huizinga
- 05 Febbraio 2023

Il sonno della ragione: la crisi dell’Europa a confronto in Husserl e Huizinga

Scritto da Luca Barison

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«Ogni volta che le nostre società ristrette, in perenne crisi di crescita, cominciano a dubitare di loro stesse, si domandano se abbiano avuto ragione a interrogare il loro passato, oppure se l’abbiano interrogato correttamente»[1].

Con queste parole Marc Bloch, nel suo Apologia della storia, esponeva le motivazioni che lo avevano spinto a scrivere l’opera, poco dopo l’entrata delle armate naziste a Parigi nel giugno del 1940: tutto iniziava in un momento di smarrimento e di tracollo per l’Europa dell’epoca, quando molti sentivano ormai di essere ad un passo dall’abisso. Si trattava di un sentimento che da molto tempo aleggiava nel vecchio continente e non solo, sia nelle accademie che nella letteratura; impossibile non citare Il tramonto dell’Occidente di Spengler (1918)[2], vero e proprio contro-manifesto dell’ottimismo positivista, ma anche un rapido sguardo al numero di opere con il termine “crisi” nel titolo, pubblicate negli anni Venti e Trenta in Germania, 370 secondo i calcoli[3], può far ben comprendere il fenomeno. Questo articolo si pone come obbiettivo l’analisi comparativa di due esempi del contesto appena descritto, ovvero La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale di Edmund Husserl (1936) e la Crisi della civiltà di Johan Huizinga (1935). Quasi contemporanei, i due libri mostrano una comune ricezione della stessa temperie culturale: un’unione in un sentimento di inquietudine e di timore di fronte al procedere dell’umanità verso una direzione, ormai consolidata e definita, che l’avrebbe presto portata alla distruzione. Era presente in molti la percezione che sul domani, parafrasando il titolo originale dell’opera di Huizinga, si allungassero ombre poco rassicuranti[4]; diversi autori e pensatori se ne fecero interpreti, declinando questa idea della “decadenza” dell’umanità ora nel pensiero filosofico, ora nell’evoluzione politica, o ancora nelle credenze religiose. Su questa base, si cercherà di analizzare i punti in comune tra le due opere, in particolare quelli legati alla riflessione sul tema della ragione.

 

De profundis: la crisi apparente e la crisi latente dell’Europa

Il primo elemento condiviso è la compresenza di due crisi in ognuno degli scritti, cioè la descrizione di una “crisi manifesta” che in realtà è mera propaggine e conseguenza di una “crisi latente”. Per comprendere ciò, è necessario definire quale sia il momento critico di cui i due autori parlano, ossia come declinino quel comune sentimento di inquietudine decadente di cui si è detto sopra.

Sin da subito Husserl si premura di fare alcune precisazioni, perché parlare di crisi delle scienze dà adito a molte possibili interpretazioni. Il decadimento cui ci si trova di fronte non è, scrive il filosofo, quello delle scienza classica, scossa nelle sue fondamenta dalle nuove teorie moderne; non è neanche il venir meno della capacità delle scienze specifiche di rispondere alla domande riguardanti «un senso per la vita» dopo la loro riduzione, ad opera del pensiero positivista, a mere scienze che spiegano il mondo come un assemblaggio di fatti naturali o culturali, lasciando il campo aperto rispettivamente al naturalismo e al costruttivismo[5]. Ancor meno si può parlare di una crisi “tecnica” delle scienze, visti i loro continui successi pratici e tecnologici. La crisi di cui parla Husserl è un’altra, molto più profonda, ovvero la crisi che coinvolge la scienza per eccellenza, o meglio la scientificità per eccellenza. Scrive il filosofo che se la scientificità tecnica continua a fiorire, quella che lui definisce autentica si trova di fronte ad un indebolimento delle sue fondamenta: una scienza filosoficamente fondata non è più rintracciabile; manca cioè una filosofia assoluta come scienza universale dell’essere, un criterio universale di scientificità che funga da base da cui partire per poter iniziare a discutere correttamente di scienza. In sintesi, si potrebbe dire, quella radice dell’albero cartesiano del sapere autentico su cui le scienze si innestano come dei rami, in modo da consentirsi l’accesso alla verità, alla possibilità di dare conto dell’essere[6].

È interessante notare come Huizinga, anch’egli sin dai primi capitoli, anticipi l’obiezione del progresso della civiltà del suo tempo: di fronte ad un’epoca così segnata dall’avanzamento tecnologico, come si può parlare di crisi della civiltà? Risponde che «non è affatto paradossale affermare che una civiltà, con un “progresso” realissimo e innegabile potrebbe arrivare alla sua rovina»[7], in quanto la decadenza che gli uomini della sua epoca sentono di star attraversando è qualcosa che va molto più in profondità. Quello cui si è di fronte è un processo progressivo di crisi irreversibile, diversa da ogni altro simile evento del passato, poiché è la crisi stessa delle condizioni che determinano l’esistenza della cultura, fattore che a sua volta è alla base dell’essere di una civiltà. Scrive infatti lo storico olandese che una cultura, per esistere, necessità di tre fattori fondamentali: l’armonia tra i valori materiali e spirituali, un comune scopo cui dirigersi e la possibilità di dominare la natura[8]. La civiltà europea degli anni Trenta del XX secolo, quand’anche capacissima di controllare gli elementi naturali, si ritrova sbilanciata a favore dei valori “mondani” e vitali mentre ognuno tende al proprio personale ideale, spesso di basso livello e poco elevato rispetto a questi valori materiali[9].

Nel caso husserliano, la crisi delle scienze è quindi derivata dalla crisi di ciò da cui dipendono, ossia la filosofia, quella scientificità autentica che permettere di cogliere un assoluto sapere fondato; allo stesso modo, nell’opera di Huizinga, a determinare il decadimento della complessità della vita civilizzata è la crisi della cultura, che è alla base dell’essere stesso della civiltà, del processo di civilizzazione nel senso più generale del termine. Questa riflessione introduce ad un altro elemento di convergenza, cioè il “contesto europeo” in cui tutto si svolge. Lo si vede bene sin dal titolo dell’opera di Husserl, dove le scienze sono definite come proprie della civiltà occidentale, mentre è chiaro che lo storico olandese, sebbene cerchi di mantenere il discorso nella maggiore generalità possibile, definisca la sua riflessione sulla base del contesto del Vecchio Continente: i momenti critici che abbiamo appena definito sono ragione e motore del crollo, per dirla con Husserl, «dell’umanità europea»[10]. La filosofia nel primo caso e la cultura nel secondo sono poste a fondamento della vita stessa dell’Occidente: il filosofo da un lato parla del telos spirituale-filosofico che l’Europa possiede sin dai tempi antichi e che si esplica nella ricerca di una verità per sé stessa e assoluta, della filosofia che sia guida per l’umanità[11]; dall’altra parte lo storico indica la crisi del suo tempo come priva di precedenti nella storia pregressa, perché mai si negò di andare «alla conquista e all’impiego dell’antica saggezza», l’Europa non si straniò così profondamente dal suo passato come ora, preferendo dimenticare ciò su cui la sua essenza si basa[12].

 

Cause e sintomi della crisi: l’abbandono della ragione

Il terzo punto di continuità tra le due opere qui prese in oggetto si codifica come la ridefinizione della storia della filosofia (o di una parte di essa) al fine di sostenere la visione della crisi proposta, in relazione ai vari passaggi che hanno portato tale processo di decadenza ad avviarsi: per quanto difficile, si proverà a sintetizzare le riflessioni di Husserl e di Huizinga, con l’obiettivo di cogliere il punto di continuità appena citato.

Nel secondo capitolo, il filosofo descrive la storia della filosofia moderna come segnata dal difetto interno dell’oggettivismo fisicalista, a partire dalla fondamentale figura di Galileo. Erede di una geometria pura, che è stata sempre più distaccata dal mondo reale da cui proviene, lo scienziato per Husserl ha scelto di applicare le leggi di questo mondo matematico al Lebenswelt (mondo della vita) pre-scientifico: ha dato avvio ad una trasformazione del mondo empirico e percepibile in una realtà idealizzata e matematizzata, di fatto vestendo questo complesso di un abito ideale che ha nascosto il vero essere del mondo della realtà. Il pensiero filosofico moderno diviene quindi «sempre preso nel realismo rappresentativo della contrapposizione soggetto/oggetto»[13], a partire da Cartesio, verso l’idea di una natura che va dimostrata, base del successivo idealismo di Berkeley e dello scetticismo humeano, dove tutto diventa finzione, realtà inclusa[14]. È la crisi della ragione filosoficamente intesa, cioè il fallimento della trasformazione della filosofia in una scienza rigorosa, legata alla sua origine del mondo della vita invece che dimentica del suo legame intenzionale con esso: la scientificità autentica della filosofia cade in una «bancarotta»[15], divenendo incapace di rispondere alle domande sulla razionalità dell’essere, sulle condizioni di possibilità per cui si può affrontare razionalmente il problema dell’essere, proprio perché ha separato e contrapposto l’essere e ciò che è. La crisi di Husserl è «the dissolution of the idea of universal philosophy, i.e. the idea of a self-explication of human reason able to serve as the guide for an authentic humanity, in a word, it is the crisis of reason»[16].

Riprendendo le fila dell’opera di Huizinga, la sua definizione di un’epoca contemporanea segnata dalla possibilità del venir meno della cultura lascia spazio ad una spiegazione dei primi sintomi di questa situazione: è bene però anticipare la codificazione della causa di questa decadenza, in modo da avere una migliore comprensione. Ciò che ha posto le basi del venir meno dei fondamenti della cultura è «il momento centrale»[17] costituito dal conflitto tra sapere ed essere: l’epoca attuale, nell’eterno conflitto tra intelletto e azione, ha infatti elevato la seconda contro il primo, di fatto dando adito alla crescita di una filosofia anti-intellettualistica priva di precedenti: mai come in questo momento, secondo la visione dell’autore, la verità è stata rinnegata così intensamente e sistematicamente. L’uomo odierno si è fatto portatore di un pensiero vitalistico, che lo pone in totale opposizione al sapere, alla ragione, all’intelletto, alla ricerca della verità. Huizinga cerca anche di indicare delle “responsabilità” di questa evoluzione in relazione ad alcune figure: pensatori come Cusano e Kierkegaard hanno sempre più distanziato la realtà dai nostri mezzi intellettuali, intendendo la prima come incomprensibile dal pensiero proprio perché diversa da esso[18]. Questa tendenza sviluppò cioè un pensiero pragmatistico che, negando all’uomo la capacità di giungere ad una verità assoluta, assegnò, secondo Huizinga, ad essa un valore relativo. L’Europa si consegnò quindi all’antirazionalismo, alla soppressione della cultura spirituale in favore del mondo attivo: e ciò, per l’autore, ha determinato ogni ambito del vivere dell’uomo. La scienza, il raziocinio, lo spirito critico, la differenza tra bene e male, i principi del giudizio e del dovere, la morale, la responsabilità individuale si sono annichiliti a favore di un mondo segnato dal culto dell’eroe, dal puerilismo, dalla superstizione, dall’idea della responsabilità collettiva del popolo[19].

La maestria con cui ogni tema è trattato meriterebbe un’analisi specifica per ognuno, ci si limiterà però a prendere qui in considerazione solo il tema della scienza, visto la comunanza con Husserl. Così come il filosofo ceco, Huizinga non nega la validità e il successo delle scienze, ma sostiene che anche esse sono intaccate dalla decadenza: se anche l’uomo ha aumentato i suoi campi d’indagine, il sapere scientifico «non tiene più il passo»[20] di fronte alla vastità della realtà analizzata, proprio a causa dell’indebolimento dello spirito critico-razionale su cui esso si basa. Così ridotta, la conoscenza scientifica ha smesso di essere considerata come la guida del sapere e della conoscenza umana, come la sede per eccellenza della ragione: ciò ha generato o la deriva verso forme di pseudo-scienza completamente errate (come la teoria razziale o l’astrologia) oppure l’assorbimento da parte del sapere tecnico delle conoscenze scientifiche per scopi pratici. Risulta chiaro un forte legame con il pensiero husserliano. Per Husserl le scienze hanno perso la capacità di accedere alla verità del mondo della vita e di conseguenza l’umanità europea manca ormai dell’anelito alla ragione filosofica che da sempre la contraddistingue, così come in Huizinga lo stesso sapere generalmente inteso è stato abbandonato: in entrambi i casi è decaduta la ricerca della verità, il che ha portato rispettivamente alla crisi della filosofia e della civiltà, ma in ognuna delle due opere sono anche le scienze a pagarne il prezzo[21]. La causa della crisi è, nei due scritti, il sonno della ragione, inteso come il venir meno di quel pensiero filosofico-intellettuale che viene posto alla base dell’umanità europea, ovvero la ricerca di un’ideale di verità per sé che garantisca un senso costitutivo all’attività intellettuale dell’uomo[22].

Per concludere il paragrafo è bene soffermarsi brevemente anche su una comune importanza, nelle due riflessioni, del termine “vita”. Ciò va probabilmente ascritto ad una tendenza generale dell’epoca di ricollegarsi a tutta una serie di studi biologico-evolutivi sul tema del Leben, dell’evoluzione dell’uomo. È certo però che in Husserl la vita, nella definizione del “mondo della vita” ha un’accezione “positiva” perché esso è il luogo in cui bisogna tornare, quel mondo reale necessario alla comprensione della realtà delle cose, alla fondazione delle scienze sulla ragione. In Huizinga invece la vita è ciò che, come un idolo, è stato elevato sopra alla ragione e alla conoscenza gettando in crisi tutti questi elementi e spingendo quindi la civiltà nel baratro della barbarie.

 

Da dove arriverà la salvezza?

È questa la domanda che Huizinga continuamente si pone nei capitoli finali dell’opera. È davvero possibile che l’umanità non abbia altra scelta che cadere nelle barbarie, in quella decadenza che sembra vedere così poco distante da sé? Accostare l’idea di una soluzione/salvezza della crisi nei due autori è forse azzardato, ma è bene provare a confrontare solo l’idea generale dell’uscita da questo stato di cose, termine più adatto, che viene proposta.

Husserl propone una prima possibilità di uscita dalla crisi, descritta come un «ricominciare da capo»[23], dove l’inizio da cui bisogna ripartire è, per forza di cose, il mondo della vita obliato dalla filosofia moderna. Questo elemento, così come è stato descritto, è la sede della realtà delle cose e quindi la scienza che intende chiarificarle deve per Husserl partire da questo mondo prescientifico: non potrebbe essere altrimenti, visto che le scienze sono in tutto e per tutto parte di questo mondo, contenente gli scienziati, i loro strumenti, le loro proposizioni, ecc. La verità scientifica accade in questo mondo, pertanto l’analisi della scientificità autentica non può che essere analizzata in questo contesto. Come va interpretato questo mondo? Tramite un cambio di atteggiamento che consiste nella rinuncia da parte dell’uomo, così sicuro e certo del suo sapere, del riconoscimento della realtà; egli deve praticare l’epochè, la sospensione delle sue concezioni che gli garantisca un ruolo non più da partecipante, ma da spettatore della realtà. Deve passare dall’essere inserito in essa, a porsi in una posizione che gli consenta di esaminare come il mondo si dà nella sua percezione. Significa che egli dovrà terminare di esprimersi sulla scienza e sul mondo della vita, astraendosi da queste due realtà per porsi nell’ambito fenomenologico, in cui potrà studiare il mondo in relazione alla sua datità, come puro fenomeno di coscienza[24]. Solo in questo ambito egli potrà essere l’osservatore della correlazione tra il mondo e un io, tra le cose e il conoscere: coglierà cioè il senso d’essere del mondo, dimenticato dalla filosofia precedente nel contesto di questa nuova filosofia fenomenologica e trascendentale, ovvero incentrata sullo studio della realtà come fenomeno, in relazione alla sua datità, e capace di far giungere la filosofia, e quindi anche le scienze, alla verità assoluta e autentica, non nascosta in qualche mondo iperuranico, ma legata al mondo reale della vita[25].

Il quadro che lo storico olandese traccia è sempre più cupo: guardando al passato, scrive, non vi è mai stato un periodo di fioritura di lunga durata, il presente non sembra mostrare altro che la crisi della ragione e della civiltà. Il futuro non dà speranze. Egli comunque prova a tracciare una via d’uscita, configuratasi come una purificazione interna all’uomo, un suo cambio di atteggiamento mentale, una catarsi/ascesi: la somiglianza con Husserl è palese, perché in entrambi i casi l’uomo, che la crisi l’ha generata, è l’unico a poterne uscire con i suoi soli mezzi[26]. Bisogna però anche dire che l’autore non va oltre mere indicazioni generali, lasciando ampio spazio all’interpretazione: ciò che è necessario fare è creare uno spirito nuovo, basato sulla consapevolezza di questo indebolimento della ragione sul recupero consequenziale della stessa, in modo da ricostituire la cultura, la morale, il raziocinio. È un quadro chiaramente diverso da quello husserliano, dove le “modalità” per riottenere che la filosofia, e successivamente le scienze, accedano nuovamente alla contemplazione della verità assoluta non mancano. Anche in questa apparente diversità si può però trovare un punto di contatto tra lo storico e il filosofo, ovvero il fare appello a delle determinate categorie di persone, indicate come i destinatari della descrizione della crisi e quindi i futuri “riparatori” del danno dei predecessori. In Huizinga la chiamata è rivolta alla «comunità degli uomini di spirito»[27], sparsa in tutto il globo e diversificata, ma unita da una forte volontà di lavorare al bene della comunità: è un impeto questo, scrive l’autore, che è in ogni uomo toccato dalla crisi, ma in essi è percepito come più tenace. Da chi è costituito questo gruppo? Non è chiaro il riferimento di Huizinga, oscillante tra i politici del mondo e i giovani, ma certa è la vocazione all’internazionalismo[28], ad uno sforzo globale di colmare il mondo di spirito, cioè di ragione intellettuale.

Nel contesto husserliano sono invece i filosofi ad essere chiamati alla missione di guidare il mondo fuori dalla crisi. Essi sono i «funzionari dell’umanità»[29], secondo la definizione che lo stesso autore dà. Si codificano come i portatori del telos originario dell’uomo europeo, quell’ideale obbiettivo di ricerca dell’autentico sapere per sé. Solo essi, compreso l’errore della modernità e il necessario passaggio dall’atteggiamento naturale all’approccio fenomenologico, potranno far sì che l’Europa non cada nelle barbarie e nell’ignoranza e saranno capaci di attuare «la rinascita dell’Europa dallo spirito della filosofia, attraverso un eroismo della ragione capace di superare definitivamente il naturalismo»[30].

Si vede quindi come le possibilità di invertire la rotta della crisi siano, in entrambi i casi, incentrate sui temi della ragione e dello spirito. L’obiettivo è far tornare l’uomo alla sfera del sapere intellettuale, del raziocinio nel senso più proprio, inteso da Husserl come l’autentica conoscenza fenomenologica capace di rimettere in contatto l’uomo con la realtà del mondo e da Huizinga come la base stessa di una civiltà propriamente detta: ciò significa far riguadagnare all’umanità europea il suo spirito autentico, ossia, per dirla con il filosofo ceco, «una vita in cui l’Io può diventare assolutamente certo della propria ragione come ragione assoluta»[31].


[1] Marc Bloch, Apologie pour l’histoire ou Métier d’historien, Armand Colin, Parigi 1949, pp. 56-57. Traduzione italiana: Apologia della storia o Mestiere di storico, traduzione di Giuseppe Gouthier, Einaudi, Torino 1950. Nuova ed. sull’edizione critica del figlio Étienne Bloch, Einaudi, Torino 1998-2009.

[2] Altro nome spesso citato in relazione a questo fermento intorno al concetto di crisi è quello di Josè Ortega y Gasset (1883 – 1955): basandosi sulle opere inerenti alla crisi dell’Impero Romano pubblicate da studiosi quali Mommsen, Rostovtzeff e Weber, tracciò in alcune sue opere delle similitudini tra la fine del dominio di Roma a partire dal III secolo d.C. e le problematiche dell’Europa post Prima guerra mondiale, soprattutto in relazione al tema della nuova società massificata. Arnaldo Marcone, La crisi dell’Impero Romano come paradigma di quella europea: Ortega y Gasset, «Anabases – Traditions et Réceptions de l’Antiquité», 2 (2005), pp. 101-112.

[3] Rüdiger Graf, The Narrative of “Crisis” in Weimar Germany and in Historiography, «Central European History», vol. 43, no. 4, 2010, pp. 592-615, Cambridge University Press on behalf of Central European History Society, p. 592.

[4] Il titolo dell’opera in olandese era In de schaduwen van morgen, een diagnose van het geestelijk lijden van onzen tijd, ovvero Nell’ombra del domani, una diagnosi della sofferenza mentale del nostro tempo.

[5] Come giustamente si legge, in relazione al paragrafo “La crisi delle scienze come perdita del loro significato per la vita”, in Emiliano Trizio, What is the Crisis of Western Sciences?, «Husserl Studies», vol. 32, n. 3, 2016, pp. 191-211: «Contrary to what many readers have thought, the second part of the title only describes how the current state of science happens to be perceived (and with good reason) at the time Husserl is writing».

[6] «Metaphysics, “the queen of sciences”, appears as the science of all ultimate questions concerning the rationality of being, i.e., its sense; a science ultimately entrusted with the task of bestowing ultimate sense to all other sciences, thus providing philosophy with its very unity. In other words, our sciences do no contribute to “make sense” of the world in terms of its ultimate rationality, precisely because they are no longer embedded in a universal philosophy deciding of questions of value and sense». Emiliano Trizio, What is the Crisis of Western Sciences?, op. cit., p. 201. Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 2015, edizione originale 1936, p. 52 «Già nell’antica idea della filosofia, era implicato un ordine di senso dell’essere e quindi dei problemi dell’essere».

[7] Johan Huizinga, La crisi della civiltà, Einaudi, Torino 1938, edizione originale 1935.

[8] «In tal senso, lo storico si domandava se esistessero nel momento in cui egli scriveva le necessarie condizioni affinché si potesse parlare ancora di civiltà. Il dubbio era lecito dinanzi alla sconfitta sul piano spirituale del tentativo di dominare la natura, non potendo più fare affidamento sull’autorità normativa di una vera legge morale fondamentale, posta costantemente e ovunque in discussione. Al dubbio sull’autorità, non si accompagnava neppure l’ombra di uno sforzo omogeneo capace di guidare la cultura. Le garanzie che l’antichità trovava nell’onor di Dio, erano ormai perdute senza esser state sostituite da alcunché, non una dottrina, non un concetto. L’unità della cultura e della civiltà in tal modo, non poteva che vacillare, poiché essa si rivelava, a un esame critico, nient’altro che la somma di desideri tra loro contrastanti, destinati a non raggiungere mai un equilibrio stabile e una loro armonizzazione». Paolo Carta, Politica e morale ne La Crisi della civiltà di Johan Huizinga, «Laboratoire italien – Politique e societé» n. 6, 2006, pp. 213-236, p. 219.

[9] L’unico elemento proprio della cultura che sembra permanere è la capacità di dominare la natura, ma anche qui è possibile per l’autore riscontrare una crisi, in quanto una simile volontà non può essere in alcun caso dissociata dalla consapevolezza di “essere in debito” verso la natura. A tale coscienza negli uomini corrisponde il concetto di “dovere”. «Quanto più in una civiltà le varie espressioni della coscienza del “debito” si subordinano e coordinano in umana dipendenza da un potere supremo, tanto più puramente e fecondamente si realizzerà il concetto, indispensabile per ogni vera civiltà, del “servire”». Signoreggiare la natura implica dunque l’esigenza del servire. Lo sradicamento dall’intimo della coscienza dell’idea del “servire” fu, secondo Huizinga, effetto disastroso del «superficiale razionalismo del secolo XVIII». Paolo Carta, Politica e morale ne La Crisi della civiltà di Johan Huizinga, op. cit., pp. 218-219.

[10] Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, op. cit., p. 51.

[11] Ivi, p. 64; Francesco Tava, Phenomenology and the idea of Europe: introductory remarks, «The journal of the British Society for Phenomenology», vol. 47, n. 3, 2016, pp. 205-209, p. 207: «What should be underlined is that the revolutionary character of European culture, whose origin and most important development Husserl identifies, respectively, in ancient Greece and modern Enlightenment, is not seen here as a mere quality; a property which naturally belongs to Europe. This character is rather understood as a task and an existential vocation (Lebensberuf), which Europe and its inhabitants must attempt to realize. What Husserl has in mind, while writing these pages, is Europe’s condition in the aftermath of the First World War, that is, a wrecked continent on the verge of a long-lasting decline. In that particular context, recalling the value and power of European culture does not mean affirming its innate superiority, but rather indicating how this culture can be conceived as an ideal toward which historical Europe (the wrecked one) can move its steps, striving to find a possible path out its tragic condition».

[12] Johan Huizinga, La crisi della civiltà, op. cit., p. 25. Riguardo lo scritto dello storico olandese è evocativo evidenziare che «Il titolo italiano, pensato e imposto con convinzione dal traduttore, fu appunto La Crisi della civiltà e in tal modo l’opera uscì nel 1937. Quattro anni dopo, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni […] elaborarono il Manifesto di Ventotene «per un’Europa libera e unita». […] Il manifesto, giova ricordarlo, si apriva con l’espressione “la crisi della civiltà” . Pura casualità, difficile a credersi». Paolo Carta, Politica e morale ne La Crisi della civiltà di Johan Huizinga, op. cit., p. 214.

[13] Silvana Borutti e Luca Vanzago, Dubitare, riflettere, argomentare. Percorsi di filosofia teoretica, Carocci editore, Roma 2018, p. 164. Husserl domanda infatti retoricamente al par. 18 della seconda parte: «Cartesio non è qui per caso dominato […] dalla distinzione di ciò che rientra nella sfera dell’esperienza sensibile e di ciò che, in quanto matematico, è oggetto del pensiero puro?» Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, op. cit., p. 133

[14] Questi pensatori basano il proprio pensiero sull’idea che «l’unico indubitabile terreno di qualsiasi conoscenza è l’esperienza di sé e il regno dei dati immanenti», per cui ogni realtà che si astragga da questo mondo empirico per Hume non può essere pensata come reale. Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, op. cit., p. 280

[15] Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, op. cit., p. 149.

[16] Emiliano Trizio, What is the Crisis of Western Sciences?, op. cit., p. 209.

[17] Johan Huizinga, La crisi della civiltà, op. cit., p. 65.

[18] Ivi, pp. 65-66 «L’insufficienza fondamentale del nostro sapere è stata capita fin dagli inizi della filosofia. La realtà che noi viviamo resta in fondo inafferrabile, […] assolutamente diversa dal pensiero. Nella prima metà dell’Ottocento questa verità, già risaputa da un Nicola Cusano, fu ripresa da Kierkegaard, e, in quanto contrasto tra esistenze pensiero, posta al centro delle sue considerazioni […]. Coloro i quali vennero dopo di lui percorsero la stessa via […] deviarono ad altre mete un pensiero e lo lasciarono impantanarsi […] nel culto della vita terrena. […] Il pragmatismo tolse al concetto di verità il suo valore assoluto ed intero […]. Verità è ciò che ha un valore per gli uomini che la professano: pensatori sociologi quali Max Weber, Max Scheler, Oswald Spengler, Karl Mannheim, nell’attivismo del pensiero trovarono un punto di partenza che li fece parenti prossimi del materialismo storico. Così le forze anti razionalistiche concorsero a formare un gran fiume che doveva minacciare gli argini della cultura spirituale».

[19] Simbolo del decadimento della ragione nell’Europa e della critica al sistema cultura contemporaneo svolto da Huizinga è sicuramente l’attacco che l’autore indirizza alla teoria della razza: una dottrina che, scrive l’autore, bollò per molto tempo come completamente assurda e illogica, finché la politica «non l’ha innalzata»; di fatto la scienza “debole”, nel senso di privata del suo legame con la ragione nel contesto della crisi, seguì invece questa direttrice, cedendosi a teorie di questo calibro o ad una deriva tecnicizzante, che la portò a venire «frustrata» e «profanata» diventando uno degli strumenti per creare armi di distruzione di massa.

[20] Johan Huizinga, La crisi della civiltà, op. cit., p. 39.

[21] «La crisi delle scienze non riguarda dunque “l’evidenza delle loro operazione teoretiche e dei loro successi”, che resta invece “fuori discussione”, ma ha a che fare con l’avvenuta separazione del sapere scientifico dalla filosofia. L’idea di una ratio filosofica universale di cui le scienze sarebbero singole diramazioni, già prospettata in età rinascimentale e poi pervenuta a una parziale attuazione con l’Illuminismo, è entrata in crisi con la specializzazione delle discipline scientifiche, che ormai non sono più parte di un progetto filosofico complessivo. Ciò che è in crisi per Husserl è quindi la stessa ratio filosofica, che non è più in grado di proporsi come «filosofia universale capace di guidare l’uomo nuovo», cioè di orientare l’azione umana e in particolare la prassi scientifica». Paolo Bucci, Husserl, Galileo e “la crisi delle scienze europee”, «Galileiana», 3 (2006), pp. 71-100, p. 81.

[22] La filosofia […] ambisce per definizione al raggiungimento di una «verità assoluta». […] ciò che si dà con tale evidenza che non è più in alcun modo dubitabile se non contraddicendo le leggi fondamentali della ragione (le leggi della logica formale). Perciò la verità in sé è, nel pensiero di Husserl, sinonimo della verità necessaria quale correlato dell’evidenza apodittica , e il sapere basato sull’evidenza apodittica è un sapere «razionale». [..] Proprio la ragione, come dimostra appunto l’esistenza quotidiana, è lo specifico dell’uomo, ciò che lo qualifica come tale». Paolo gaetano Volonté, Husserl e la filosofia come professione: note sul volume integrativo della “crisi delle scienze europee”, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», gennaio-marzo 1997, Vol. 89, No. 1, pp. 137-150, p. 143. “Apodittico” e “razionale” sono gli aggettivi utilizzati anche per descrive la verità ricercata e proposta da Galileo, ma qui il contesto è diverso: è la certa razionalità di un sapere non frutto di un’idealizzazione, ma cui l’uomo può accedere in modo immediato, una conoscenza che non può che essere certa ed indubitabile. Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, op. cit., p. 68.

[23] Ivi, p. 265.

[24] Veniero Venier, Epoché. Husserl e lo scetticismo, «Lebenswelt», n. 14, 2019, pp. 44-60, p. 52. «Il senso della riduzione fenomenologica nella sua accezione eidetica è allora quello di ricondurre lo sguardo dagli oggetti alla soggettività cui essi si manifestano nelle loro strutture essenziali, in modo da poter analizzare descrittivamente la correlazione tra ciò che appare e il modo in cui appare».

[25] «Una riconduzione dell’universo delle teorie e delle obbiettività ideali delle scienze all’esperienza del mondo­ della­ vita in cui esse necessariamente si radicano. L’intento è anche qui di operare una regressione al terreno delle evidenze intuitive e di mostrare attraverso quali processi idealizzanti e ­astrattivi il mondo obbiettivo della scienza si sia venuto costruendo “sopra” quello originario dell’esperienza pre­scientifica. In questa riconduzione alla sfera soggettivo relativa del mondo­ della ­vita ne va della sensatezza stessa del progetto e del procedere scientifico». Carmine Di Martino, Esperienza e intenzionalità nella fenomenologia di Husserl, «Memorandum», n. 13, 2007, pp. 32-52, p. 33.

[26] Potrà sembrare ovvia come affermazione, ma a mio avviso è bene sottolinearlo in relazione alla riflessione di Huizinga sull’impossibilità che «popoli, stati, chiese, scuole, partiti, associazioni» possano rimodulare le tendenze politiche, sociali, culturali dell’uomo contemporaneo e, in questo modo, permettere di superare la crisi e la sua matrice anti-razionalistica. Vi deve essere un cambiamento interno dell’uomo per sé stesso, non una mera modificazione esteriore. Vedi Johan Huizinga, La crisi della civiltà, op. cit., cap. XX. In relazione ad Husserl può essere interessante notare come nel suo pensiero le scienze esatte «hanno istituito un mondo fisico-matematico completamente slegato dagli orizzonti del mondo-della vita. Ne risulta che le scienze si espongono al pericolo di non sottoporsi al controllo e alla responsabilità dell’uomo»: compito della fenomenologia trascendentale è quindi anche quello di riportare le scienze nell’alveo della responsabilità dell’essere umano. João I. Piedade, Husserl e le scienze, «Gregorianum», Vol. 84, No. 3, 2003, pp. 673-695, p. 689.

[27] Johan Huizinga, La crisi della civiltà, op. cit., p. 150.

[28] «Niente potrà l’intervento di forze esterne come la chiesa, il partito, la scuola, lo stato, per gettare le basi rinnovate di una civiltà che abbisogna invece di un habitus spirituale integralmente nuovo. In luogo di una politica fondata sull’egoismo, ci si attende piuttosto una regolazione dei rapporti “sulla base di una larga comprensione internazionale, di un vicendevole riconoscimento dei desideri legittimi, del rispetto del diritto e dell’interesse altrui: in una parola, una soluzione fondata sul disinteresse e sulla giustizia”». Paolo Carta, Politica e morale ne La Crisi della civiltà di Johan Huizinga, op. cit., pp. 227-228.

[29] Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, op. cit., pp. 64, 130.

[30] Ivi, p. 461.

[31] Edmund Husserl, L’idea di Europa, edizione a cura di Corrado Sinigaglia, Hoepli, Milano 1999, p. 118.

Scritto da
Luca Barison

Laureando magistrale in Storia medievale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia con una tesi sui cambiamenti del paesaggio inglese dopo la conquista normanna del 1066. Altri suoi campi di ricerca sono la storia monastica, lo studio delle campagne medievali e il medievalismo otto e novecentesco. In corso di stampa il suo primo libro: “In questo luogo che è detto Adrine. Un villaggio del Veneto medievale e il suo territorio”.

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