Scritto da Enrico Cerrini
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Questo contributo fa parte di un dibattito su temi sollevati dall’articolo che apre il numero 6/2019 della Rivista «il Mulino», dal titolo Perché la democrazia è in crisi? Socialisti e liberali per i tempi nuovi, scritto congiuntamente da Giuseppe Provenzano ed Emanuele Felice. Tra i temi sollevati nella discussione la parabola storica del liberalismo e il possibile incontro con il pensiero socialista, le cause delle disuguaglianze, il ruolo e l’apporto delle culture politiche ai cambiamenti storici, le chiavi per comprendere il cambiamento tecnologico, le forme della globalizzazione e la crisi ambientale. Per approfondire è possibile consultare l’introduzione del dibattito con l’indice dei contributi pubblicati finora.
Le elezioni primarie del partito democratico degli Stati Uniti hanno segnato la vita politica dei primi mesi del 2020. La competizione tra il centrista ex vicepresidente Joe Biden e il radicale senatore del Vermont Bernie Sanders ha rappresentato un tentativo di conciliare la cultura liberale e quella socialista. Prima bozza di attuazione pratica di quanto formulato teoricamente da Giuseppe Provenzano e Emanuele Felice nell’articolo apparso sul numero 6/2019 della rivista «il Mulino».
La riflessione sulle due anime del partito democratico è culminata il 15 marzo, quando Joe Biden e Bernie Sanders hanno partecipato a un dibattito televisivo volto a risaltare le idee degli ultimi due contendenti rimasti in corsa. In quel momento, l’ex vicepresidente si avviava verso la vittoria. Il senatore del Vermont sembra aver voluto allungare la propria campagna elettorale proprio per partecipare al confronto, in modo da piantare le radici del proprio programma, che pare essere considerato migliore dagli elettori, malgrado i magri risultati.
Gli exit poll effettuati dal Washington Post durante le primarie di uno stato operaio, il Michigan, testimoniano questa contraddizione. Secondo tali sondaggi, il 58% degli elettori ha scelto il candidato che può verosimilmente sconfiggere Donald Trump, mentre il 37% ha votato il programma che condivide maggiormente. Il 53% di quest’ultima fetta di elettorato ha preferito Sanders, contro il 39% che ha votato Biden. Viceversa, l’ex vicepresidente è stato preferito dal 62% degli elettori che hanno scelto il candidato in grado di sconfiggere Trump.
Il dibattito
Il senatore del Vermont ha così ritenuto di aver vinto la battaglia ideologica contro il suo avversario, ma di non essere considerato eleggibile dagli elettori. Durante il dibattito, il suo obiettivo è diventato quello di spostare più a sinistra possibile il programma di Biden, usando la forza delle idee per lasciare una forte impronta socialista nella corsa alla presidenza. Sanders ha visto concretizzarsi tale strategia, dato che l’ex vicepresidente ha ceduto su alcuni fronti. Ad esempio, ha promesso lo stop a nuovi sussidi per le aziende petrolifere e a ulteriori trivellazioni.
Biden ha risposto con fatti e obiettivi concreti alla forza ideologica dell’avversario, come testimoniato dalla prima domanda del dibattito, inevitabilmente focalizzata sull’emergenza sanitaria causata dal coronavirus. L’ex vicepresidente ha esposto i mezzi che gli Stati Uniti possono mettere in campo. A suo parere, la crisi deve essere trattata come un’emergenza, utilizzando l’esercito per effettuare tamponi a tappeto e aiutare le fasce di popolazione più a rischio, specialmente gli anziani. Inoltre, ritiene necessario garantire a tutta la popolazione il diritto alle cure ospedaliere, esclusivamente per la durata dell’emergenza. Visione di un amministratore statunitense di lungo corso, priva di una particolare impronta ideologica.
Al contrario, Sanders ha accennato a poche risposte immediate come l’aiuto al personale sanitario, per concentrarsi sul potenziamento degli ospedali e sulla crisi economica che verrà. Ha ripetuto che gli americani devono essere messi nelle condizioni di portare il cibo sulla tavola delle loro famiglie e che la crisi deve essere pagata dalle grandi multinazionali e non dai cittadini. Ha promosso la sua riforma Medicare for all, la quale prevede un’assistenza sanitaria universale su modello europeo. Sui social network è rimbalzata la proposta di garantire la gratuità del futuro vaccino contro il coronavirus.
Un’ulteriore differenza di approccio emerge dalle frecciate che i due contendenti si sono lanciati durante tutta la campagna elettorale. Sanders ha insistito sulla scarsa credibilità del suo avversario a cavalcare proposte di sinistra. Quando il socialista si impegnava nella difesa dei diritti delle minoranze, della pace e dell’assistenza sanitaria, il liberale votava a favore della guerra in Iraq e dei tagli alla spesa pubblica. L’ex vicepresidente ha replicato che la popolazione americana non ha bisogno di una rivoluzione che porterà risultati tra molti anni, ma di interventi concreti da effettuare immediatamente.
Le primarie
Le preferenze apparentemente contraddittorie degli elettori, non rappresentano l’unica stranezza di queste primarie. Molti commentatori avevano ipotizzato che la linea radicale di Sanders potesse essere un punto di forza nelle realtà più disagiate. Si riteneva che i cittadini arrabbiati contro l’establishment si sarebbero affidati a chi promette una rivoluzione. Similmente a quanto avvenne alle presidenziali del 2016, quando il voto liberal cittadino risultò favorevole a Hillary Clinton, mentre la provincia americana, travolta dalla crisi, premiò Trump.
La tradizionale apertura delle primarie democratiche con i caucus dell’Iowa il 3 febbraio ha riservato sorprese. Sanders ha prevalso nelle principali città dello stato del Midwest, compresa la capitale Des Moines. Le campagne hanno invece preferito Pete Buttigieg, giovane candidato liberista e apertamente omosessuale.
Dopo tre brucianti sconfitte, le elezioni in South Carolina del 29 febbraio hanno ristabilito il primato di Biden nell’area centrista e nella comunità afroamericana. L’ex vicepresidente ha conquistato tutte le contee del Palmetto State, sottolineando la sua forza anche tra l’elettorato femminile e i pensionati.
Dopo che il centro del partito democratico si è compattato su Biden, quest’ultimo è diventato competitivo anche nei territori in cui non sembrava suscitare interesse. Aiutato dalla competizione a sinistra tra Sanders e Elizabeth Warren, l’ex vicepresidente ha prevalso in territori liberal come il Maine, il Massachusetts e il Minnesota nel Super-Tuesday del 3 marzo. Sanders si è invece affermato in città come Austin, Boston, Portland ed El Paso, oltre a conquistare la California, lo stato più popoloso, trascinato da una buona performance tra l’elettorato latinos.
Il senatore del Vermont ha subito una disfatta nel mini-Tuesday del 10 marzo, malgrado il ritiro di Elizabeth Warren. L’ex vicepresidente ha conquistato tre stati potenzialmente favorevoli al leader socialista, come Michigan, Washington e Missouri. Sanders ha contenuto i danni in città come Seattle e St. Louis, ma ha perso con almeno venti punti di distacco a Detroit, Flint e Kansas City, sedi di importanti comunità afroamericane. Rispetto al 2016, Sanders ha perso 90.000 voti in Missouri e 30.000 in Michigan.
I dati riflettono la coalizione ampia creata da Joe Biden, imperniata sulla comunità afroamericana. L’ex vicepresidente ha condotto una campagna elettorale incentrata sull’uguaglianza razziale e sul controllo delle armi d’assalto. La sua retorica ha ammaliato una comunità ancora scioccata dalla recente strage di Charleston, principale città del South Carolina. Qui, un suprematista bianco uccise nove fedeli afroamericani dentro una chiesa gospel, con l’intenzione di scatenare una guerra razziale.
Sanders preferisce spiegare i risultati affermando di aver perso la battaglia per l’eleggibilità. Secondo questa tesi, le stesse classi più deboli che avrebbero beneficiato del suo programma, lo avrebbero abbandonato perché considerato ineleggibile dai principali media. Entrambi gli argomenti sono utili a comprendere la vittoria di Biden, ma un concetto matematico potrebbe aiutarci a spiegare un altro pezzo di questa storia.
Una possibile spiegazione
Riferendosi alla teoria dei giochi, il dilemma del prigioniero è frequentemente utilizzato per spiegare una situazione in cui due entità potrebbero beneficiare dalla collaborazione, ma trovano un incentivo a comportarsi egoisticamente. In atri casi, il gioco della caccia al cervo, proposto dal filosofo Jean-Jacques Rousseau, pare più appropriato. In questo gioco, la cooperazione può fallire, malgrado i comportamenti egoisti non rechino benefici.
Due cacciatori ottengono un miglior risultato dalla cooperazione che consentirebbe loro di cacciare un cervo. Nessuno di loro ha un incentivo a ingannare l’altro, perché significherebbe accontentarsi di una lepre, la cui quantità di carne è minore della metà del cervo. Al tempo stesso, una cooperazione di questo genere potrebbe rivelarsi rischiosa, perché uno dei cacciatori potrebbe stancarsi di attendere il premio più ricco e accontentarsi della lepre, lasciando l’altro solo ad attendere un cervo che non può uccidere. Gli esseri umani possono quindi preferire benefici minori perché non si fidano l’uno dell’altro e rifuggono la cooperazione.
Gli elettori americani potrebbero attraversare una situazione simile. Le politiche neoliberiste sempre più aggressive potrebbero aver talmente ridotto la possibilità di collaborazione democratica, che la proposta di Bernie Sanders è diventata meno credibile. Una società frammentata, dove il welfare è ridotto ai minimi termini, fatica a pensarsi come una democrazia alimentata dai movimenti dal basso, ovvero da cittadini che si uniscono per far sentire la propria voce e reclamare un’assistenza sanitaria universalmente accessibile e un salario minimo, indipendentemente dal loro orientamento sessuale, religione o etnia.
Sanders appare come colui che indica la strada del cervo. La classe disagiata comprende che sarebbe la soluzione migliore, prima di osservare la realtà circostante. Gli esclusi dal sogno americano si sentono circondati da suprematisti bianchi pronti a imbracciare il fucile e da pericolose gang di ragazzini scriteriati. Sui social network osservano video di complottisti che preferiscono credere che si deve lottare per smentire la sfericità della Terra anziché per rimuovere le disuguaglianze. Osservano infine le sparate di Donald Trump dalla Casa Bianca, spesso a favore di milionari e multinazionali senza scrupoli.
L’idea di socialismo democratico sembra attecchire nelle città più ricche e nelle aree tradizionalmente liberal dove i suoi sostenitori si sentono abbastanza forti e compatti. La popolazione di Flint, composta per la grande maggioranza da afroamericani e costretta nel 2014 a consumare acqua potabile contaminata dal piombo, dimostra minori entusiasmi. Le classi disagiate legittimano così la leadership del liberale Biden, il quale indica la lepre, non promettendo rivoluzioni ma atti pratici da effettuare il prima possibile.
Al tempo stesso, la forza ideologica di Sanders legittima il tentativo di spostare l’asse del programma in direzione del socialismo. Difatti, la società americana non può permettersi di lasciar ulteriormente scivolare il partito democratico verso il centro, votandosi al compromesso con una destra sempre più reazionaria. Ne scaturirebbe un circolo vizioso in cui l’ala liberale, nel tentativo di arginare Trump, ne legittimerebbe gli ideali, contribuendo a spostare l’asse della politica americana verso la destra suprematista. La politica della collaborazione sociale proposta da Bernie Sanders diventerebbe un miraggio inarrivabile.
Negli Stati Uniti, una riconciliazione tra liberalismo e socialismo appare necessaria perché la popolazione torni a sperare in una coalizione di centrosinistra che sappia certamente conquistare i risultati tramite un approccio pragmatico. Ma sappia anche rappresentare quegli ideali socialisti in grado di fornire spazi di democrazia a una popolazione stremata da una crisi che non è solo economica e sanitaria, ma anche sociale, ideale e razziale. Ideali in grado di contrastare un pericoloso scivolamento dell’asse politico verso la destra, non più liberista ma suprematista.