Scritto da Arianna Papalia
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Il XX Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese (PCC), l’evento politico nazionale di maggiore importanza per la Repubblica Popolare (RPC), si è concluso la mattina del 22 ottobre 2022 nella Grande Sala del Popolo di Pechino. In uno dei momenti più difficili degli ultimi trent’anni per la Cina[1], i 2.378 delegati giunti da ogni angolo del Paese hanno scelto la nuova dirigenza che traghetterà il Paese verso la costruzione di un “socialismo moderno e avanzato”[2]. Seduti in prima fila sul podio c’erano – tra i 46 membri scelti dal Congresso per presidiare la XX sessione nazionale – i sette uomini eletti al vertice della gerarchia partitica nel Comitato Permanente: Xi Jinping, Li Qiang, Zhao Leji, Wang Huning, Cai Qi, Ding Xuexiang e Li Xi.
Il XX Congresso rimescola le carte della leadership a favore di Xi
Alcuni dei risultati di questo grande appuntamento politico, che spinge i delegati eletti dai 96,7 milioni di membri del Partito[3] in uno sforzo muscolare di aggiornamento dell’architettura ideologica del socialismo con caratteristiche cinesi, erano largamente attesi. Xi Jinping è stato rieletto per la terza volta Segretario generale del Partito Comunista Cinese. Nessun limite di mandati è di fatto posto a questa carica dallo statuto del Partito. Rigide restrizioni erano state fissate, invece, negli anni Ottanta da Deng Xiaoping per l’incarico del Presidente della Repubblica Popolare Cinese, reiterabile per un massimo di due volte. La ratio di tale limitazione era evitare che troppo potere si concentrasse nelle mani di una sola persona[4] e si verificassero le stesse condizioni politiche che avevano portato non solo alla personalizzazione del potere di Mao Zedong, ma a tragici risvolti storici come, per citare solo un esempio, la Rivoluzione culturale. Evento che, tra l’altro, ha profondamente segnato la vita dello stesso Xi Jinping in quanto figlio di Xi Zhongxun, leader a cavallo tra la prima e la seconda generazione dei “comunisti rivoluzionari”, epurato e incarcerato fino al 1975[5]. Nel marzo 2018 l’Assemblea Nazionale del Popolo, la più alta istituzione statale e l’unica camera legislativa cinese, ha ufficialmente abolito il limite dei due mandati del Presidente della Repubblica Popolare Cinese. Dal marzo prossimo, quando si riuniranno gli alti organi dello Stato, Xi Jinping sarà con ogni probabilità nominato nuovamente Presidente della Cina, già Segretario generale del Partito e Presidente della Commissione Militare. Ogni limite che intercorre tra lui e le cariche chiave della complessa struttura Partito-Stato cinese è caduto ormai da diversi anni.
Dal Congresso, inoltre, non è emersa nessuna figura in grado di prendere in futuro il posto di Xi, prefigurando una leadership di Xi che potrebbe protrarsi anche oltre il XXI Congresso del 2027. Il “principino”, così definito perché afferente a quella fazione politica di leader cinesi figli dei veterani “rivoluzionari” comunisti, i 太子党 (Tàizǐdǎng o Princelings in inglese), non ha designato un erede. Non c’è nessuno, cioè, che abbia i requisiti d’età, di carriera, di influenza politica per succedere a Xi. Non solo, se era chiaro da tempo che il Segretario non avesse alcuna intenzione di lasciare il potere, la novità che emerge con forza da questo Congresso è la fine della cosiddetta “democrazia intrapartitica”[6]. Con questo termine si intende il meccanismo alla base della leadership collettiva che ha caratterizzato il Partito Comunista Cinese negli ultimi decenni, esso prevedeva una rappresentanza “democratica” delle correnti presenti all’interno del Partito negli organi di governo. Con il XX Congresso questa prassi si estingue. Nel Comitato permanente del Politburo, non rimane spazio se non per i fedelissimi di Xi. Simbolicamente, l’allontanamento del vecchio leader Hu Jintao dalla Grande Sala del Popolo durante la cerimonia di chiusura del Congresso è una rappresentazione icastica, qualunque sia stato il motivo che abbia portato Hu ad essere scortato fuori dall’assemblea[7], della sconfitta della Tuanpai (团派)[8], la corrente della Lega della Gioventù Comunista, di cui l’ex presidente Hu era l’esponente più influente.
In base a quello che emerge dalla Composizione del Comitato Permanente sembra che Xi sia riuscito ad eliminare ogni opposizione intrapartitica. Non viene riconfermato Li Keqiang, ancora Primo Ministro fino al prossimo marzo, protégé di Hu Jintao, leader designato della Tuanpai. Entra nella cerchia dei più potenti Li Qiang, possibile prossimo primo ministro, a dispetto della consuetudine che prevede la copertura di cariche a livello nazionale prima di accedere alla ristretta cerchia del Comitato Permanente. La promozione di Li Qiang, segretario del Partito a Shanghai ed esecutore delle misure draconiane anti-Covid che hanno tenuto la capitale economica della Cina blindata per due mesi, è un chiaro segnale della priorità che Xi accorda al criterio di fedeltà piuttosto che a quello dell’esperienza. È prassi consolidata che i funzionari comunisti ascendano alle più alte cariche di Partito soltanto dopo aver ricoperto, con successo, incarichi di governo, spesso in alcune delle regioni considerate più complicate dal punto di vista economico e sociale. Non è il caso di Li Qiang. La sua ascesa va letta alla luce dei suoi rapporti personali con il Segretario. I legami di Li con Xi risalgono a quasi due decenni fa, quando Xi era il governatore della provincia dello Zhejiang. Li è stato il suo capo del personale e il suo principale aiutante dal 2004 al 2007, prima che Xi partisse per il primo posto nel partito di Shanghai. Dopo che Xi è diventato il leader della Cina, ha promosso Li prima a governatore dello Zhejiang, poi a segretario del partito della provincia del Jiangsu, infine a sindaco di Shanghai. Li, insieme a Cai Qi e Li Xi, fanno parte del cosiddetto “Nuovo esercito dello Zhijiang” (之江新军 Zhījiāng Xīnjūn), o fazione di Xi Jinping, hanno cioè lavorato a stretto contatto con il Segretario del Partito Comunista nel periodo che va dal 2002 al 2007.
Politica interna: Covid-19 e crisi economica
Sebbene Xi emerga rafforzato dal XX Congresso, circondato da una leadership a lui assolutamente fedele, le sfide che lo aspettano sono innumerevoli e in uno dei momenti di maggiore isolamento e difficoltà del Paese dalla crisi di Tiananmen del 1989.
Per quanto riguarda la questione del Covid-19, a livello interno il “principino” deve fare i conti con una crisi pandemica, che è lontana dall’essere sotto controllo, e con una montante insofferenza popolare. Da quanto emerge dal Congresso il Partito sembra non avere alcuna intenzione di abbandonare la “politica Zero-Covid”, per quanto negli ultimi giorni il neoeletto Comitato permanente del Politburo abbia autorizzato le “venti misure per ottimizzare la politica di controllo del Covid”, che prevedono una serie di azioni volte ad allentare le restrizioni. Il Partito dall’inizio della pandemia si è posto come priorità la salute dei cittadini piuttosto che le esigenze economiche[9]. Dopotutto, considerata la scarsa efficacia dei vaccini cinesi, che secondo alcuni studi[10] non producono nella popolazione anticorpi sufficienti in grado di contrastare la variante Omicron, la dirigenza non ha molte altre opzioni di indirizzo del suo decision making se non quello di blindare la Cina. Intanto, i sintomi di una diffusa insofferenza popolare hanno iniziato a farsi sentire già prima del Congresso. Inusuali striscioni di protesta contro le misure severissime sono apparsi in varie città del Paese. Un fatto sconcertante, se si considera l’altissimo livello di sorveglianza che caratterizza il Paese, il quale non tollera alcun tipo di dissenso. Movimenti di contestazione si sono diffusi poi rapidamente in 17 delle più grandi città cinesi tra cui Pechino, Shanghai, e non ultima Guanzhou[11], sotto stretto confinamento da settimane, dove i cittadini non lamentano soltanto la mancanza di libertà ma anche, e soprattutto, di beni di prima necessità.
Venendo ai temi economici, un partito che legittima largamente il suo potere sulla base di un’equa e progressiva distribuzione della ricchezza tra i suoi cittadini, non può permettersi d’impoverire il suo popolo, pena la rottura del contratto sociale. A colpi di rigidissimi confinamenti, i cinesi si ritrovano sfiancati psicologicamente ed economicamente. I lockdown di quest’anno, indetti senza preavviso, hanno comportato le chiusure di intere zone industriali, oltre che delle attività di intere città, deprimendo notevolmente la crescita nel secondo trimestre. Non solo, l’aggravarsi della crisi immobiliare e i rischi di recessione globale stanno mettendo in dubbio le oltre 50 misure di sostegno economico lanciate dalla leadership da maggio, soprattutto per contrastare la disoccupazione. Seppur le dichiarazioni sulle performance economiche alla fine del Congresso siano state fiduciose, i dirigenti cinesi si sono visti costretti ad abbandonare l’obiettivo di una crescita pianificata al 5,5% per l’anno in corso in favore della ricerca «di risultati migliori»[12]. Il dato del PIL per il terzo trimestre del 2022, pubblicato nonostante le attese soltanto dopo la fine del Congresso, si è infatti stabilizzato al +3,9%[13], dato più basso dal 1976, se si esclude il 2020.
Le acque agitate della politica estera
Gli sforzi del Partito inoltre sono indirizzati a preservare una ambiziosa posizione internazionale, pur non rinunciando, con assertività, ai propri core interest. «Nel perseguire la modernizzazione – ha sottolineato Xi al Congresso – la Cina non percorrerà il vecchio sentiero della guerra, della colonizzazione e del saccheggio imboccato da alcuni Paesi. Quel percorso brutale e insanguinato di arricchimento a spese degli altri ha causato grandi sofferenze ai popoli dei Paesi in via di sviluppo. Staremo fermamente dalla parte giusta della storia e dalla parte del progresso umano. Dediti alla pace, allo sviluppo, alla cooperazione, e al reciproco vantaggio, ci adopereremo per salvaguardare la pace e lo sviluppo nel mondo mentre perseguiamo il nostro sviluppo»[14].
Una formulazione da grand strategy che rispecchia il rifiuto del Washington Consensus e l’ingente sforzo di riposizionamento della Cina sullo scacchiere internazionale, iniziato nel 2012 e finemente intessuto di concetti tutti cinesi dall’ideologo, membro del Comitato Permanente, Wang Huning. La Cina da una parte si sforza di rendere globali, con un relativo successo, le sue formulazioni di politica estera come “sviluppo pacifico”, “comunità dal destino condiviso per una nuova era”, relazioni win-win e si dichiara l’attore che vuole approfondire il multilateralismo sfuggendo alle logiche da Guerra Fredda. Dall’altra parte, però, è invischiata in una competizione serratissima con gli Stati Uniti, che provano a contenerla nell’acquisizione di capacità tecnologiche sempre maggiori. È alleata della Russia, poi, nel tentativo di riformare le logiche dell’ordine internazionale ancorato all’egemonia americana, ma si trova in imbarazzo per il gioco a somma zero messo in campo dal suo alleato Putin nella recente guerra in Ucraina. Mentre si fa paladina delle ingiustizie perpetrate ai danni dei paesi meno sviluppati, eredità del “terzomondismo” formulato nella lontana Conferenza di Bandung del 1955 e che rappresenta la sua identità più forte a livello internazionale, fa fatica a ergersi a mediatore nel conflitto russo-ucraino. Ruolo negoziale che la comunità internazionale, come è emerso anche dal recente G20 di Bali, si aspetterebbe dalla Cina, a fronte della sua formulazione teorica, e del suo peso economico. Ruolo per cui non intende spendersi e che non è così conveniente o prioritario, evidentemente, tra la totalità di sfide che si pongono al Dragone.
Seppur dal G20 di Bali si siano riavviati numerosi tavoli comuni di lavoro tra i due Paesi – Cina e Stati Uniti – e il Dragone non si sia astenuto dal sottoscrivere la dichiarazione finale congiunta di condanna delle azioni di Putin in Ucraina, Xi Jinping è lontanissimo sia dall’opzione di avvicinarsi al blocco occidentale, che dall’isolamento del suo vicino Putin. I suoi movimenti in politica estera vanno sempre letti alla luce di un pragmatismo nelle relazioni internazionali che ha caratterizzato la politica estera della Cina a partire dal 1978. La Repubblica Popolare non può, e non intende, emarginare la vicina Russia. I motivi sono geopolitici: i due Paesi condividono quasi 3.000 km di confine. Numerosi e strutturati, poi, sono stati i tentativi congiunti di costruire una narrazione alternativa del contesto internazionale che si concretizzano sia in seno alle Nazioni Unite, che nei consessi internazionali alternativi creati dai due Paesi come la Shanghai Cooperation Organization[15]. L’avvicinamento agli Stati Uniti, invece, nel contesto del G20 di Bali, potrebbe essere letto alla luce di un interesse cinese nel provare ad allentare le pressioni economiche che l’egemone ha esercitato nei suoi confronti, e di ristabilire quella risonanza mediatica internazionale che ha in parte sacrificato negli ultimi due anni di isolamento.
Al di là delle mosse agite sotto i riflettori internazionali, che possono sembrare contraddittorie e hanno finalità di breve-medio termine, riferirsi alla narrazione identitaria che la Cina fa in vista dei Congressi nazionali, è uno strumento utile per tracciare la traiettoria di lungo termine delle strategie di politica estera del Paese. Nel discorso al XX Congresso il confronto con gli Stati Uniti è, e rimane, la principale preoccupazione per l’agenda estera di Xi. Le azioni per impedire l’interferenza delle “forze ostili” didui shili (敌对势力) sono ampiamente caldeggiate nel discorso in cinese al XX Congresso, che si fa più edulcorato, nella traduzione in inglese[16]. La narrazione del mondo esterno che il leader condivide con i suoi più di 2.000 compagni al Congresso è di un ambiente ostile, e la Cina intera, per sopravvivere, deve stringersi intorno al Partito: «Dobbiamo essere preparati – ha sottolineato il Segretario nel suo discorso il 16 ottobre – ad affrontare gli scenari peggiori e a resistere a venti forti, acque agitate e persino tempeste pericolose»[17]. «Il Comitato Centrale del Partito – ha continuato al Congresso Xi – sta perseguendo una strategia di ringiovanimento nazionale in mezzo a cambiamenti globali di una portata mai vista nell’ultimo secolo»[18].
Con un Partito che si auto-legittima come unica forza in grado di far sopravvivere il Paese in un mondo che descrive spietato, l’impegno a proteggere i confini – dalle ingerenze esterne – è una conseguenza diretta. Dal Congresso emerge forte la volontà di potenziare la difesa nazionale, a tutela del principio dell’integrità territoriale e della “One China Policy”, e a difesa di qualsiasi interferenza degli Stati Uniti[19]. Per il centenario dell’Esercito di Liberazione Popolare, nel 2027, il PCC si propone di migliorare la propria difesa militare e dotarla di tutte le tecnologie più sofisticate che riuscirà a progettare. Non è un caso che sia asceso a numero due della gerarchia nella Commissione Militare Centrale, il generale He Weidong, comandante dell’Eastern Theatre Command, un’area di responsabilità che copre Taiwan e il tanto tormentato Mar Cinese Orientale. He Weidong, affiancherà l’altro “principe”, il generale Zhang Youxia, nell’assicurare, tra il resto, la realizzazione dell’integrità territoriale cinese. «Risolvere la questione di Taiwan – ha ribadito con fermezza Xi al Congresso – e completare la riunificazione della Cina è, per il Partito, una missione storica e di incrollabile impegno. Taiwan è della Cina. Continueremo a lottare per la pacifica riunificazione con la massima sincerità e il massimo sforzo, ma non promettiamo di rinunciare all’uso della forza, e ci riserviamo la possibilità di prendere tutte le misure necessarie. Queste saranno dirette esclusivamente contro l’interferenza di forze esterne e contro quei pochi separatisti che cercano “l’indipendenza di Taiwan”; non saranno affatto mirate ai nostri compatrioti di Taiwan». Seppur possa sembrare estremamente aggressiva una tale formulazione sulla questione di Taiwan, e vengano spontanei dei parallelismi con la situazione in Ucraina, nella narrazione cinese tali affermazioni non rappresentano nulla di nuovo. L’obiettivo per il centenario dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese, il 2049, è da sempre stato quello di “riunificare la Cina”. Una missione di cui parlava già Jiang Zemin, deceduto lo scorso 30 novembre, nel XV Congresso del 1997[20]. E con ogni probabilità, considerando la natura fortemente programmatica e volontarista del Partito Comunista Cinese, ogni sforzo verrà impiegato per il raggiungimento di un così fondamentale obiettivo. Prima di arrivare all’impiego della forza, che utilizzerebbe, sottolinea Xi, soltanto contro l’ingerenza degli Stati Uniti e dei separatisti, la Cina impiegherà ogni mezzo pacifico per riprendersi Taiwan. Esattamente, come ha fatto con Hong Kong, seppur le due entità territoriali possano essere difficilmente paragonabili per geografia, storia e istituzioni.
Costruire un Paese socialista moderno e avanzato entro il 2050
Mentre la Cina lavora per raggiungere i suoi “obiettivi centenari”, il Paese si trova senza dubbio in una delicata fase di transizione. Un sistema economico comunista totalmente avanzato può svilupparsi solo da una precedente riuscita del sistema socialista, argomenterebbe la teoria marxista[21]. E l’obiettivo a medio termine stabilito nel rapporto del XX Congresso è proprio quello di “costruire in modo completo un potente Paese socialista moderno”. Questo obiettivo deve essere raggiunto in due fasi: realizzare il socialismo moderno dal 2020 al 2035 e costruire un grande Paese socialista moderno che sia “prospero, forte, democratico, culturalmente avanzato, armonioso e bello” dal 2035 al 2050. La roadmap è la seguente. Entro il 2035, gli obiettivi generali di sviluppo della Cina includono: raggiungere un PIL pro capite a livello di un Paese moderatamente sviluppato; raggiungere un’autosufficienza scientifica e tecnologica di alto livello ed essere in prima linea tra i Paesi innovativi; costruire un sistema economico moderno, formare un nuovo modello di sviluppo e realizzare una nuova industrializzazione, informatizzazione, urbanizzazione e modernizzazione agricola; costruire un Paese forte nell’istruzione, nella scienza e nella tecnologia; formare talenti, nella cultura, nello sport, nella ricerca nel settore sanitario e potenziare significativamente il soft power cinese; aumentare significativamente la proporzione dei gruppi a reddito medio, rendere uguali i servizi pubblici di base e garantire alle aree rurali l’accesso a condizioni di vita moderne; creare uno stile di vita ecologico, stabilizzare e ridurre le emissioni di carbonio dopo aver raggiunto il picco delle emissioni (nel 2030) e migliorare fondamentalmente l’ambiente.
Per realizzare questi obiettivi le decisioni dell’amministrazione Xi saranno informate ai principi di stabilità e prevenzione[22]. Stabilità: la priorità sarà accordata alla ricerca di un equilibrio nazionale. La relazione tra solidità del sistema sociale e crescita economica viene per la prima volta invertita. Il driver dell’azione politica, dal XX Congresso in poi, non sarà più l’esigenza del mercato, ma il rafforzamento degli equilibri societari. Prevenzione: tale stabilità sarà cercata a tutti i costi attraverso il concetto di “prevenzione”. L’intera società assisterà all’applicazione di una “repressione preventiva”, con il fine ultimo di realizzare gli obiettivi preposti dal Partito. Sebbene le capacità programmatiche e di controllo della Cina, siano state fino ad ora il cavallo di battaglia del Partito, e tendenzialmente rappresentino il nucleo della sua legittimità interna, le recenti performance economiche del Paese e le inedite mobilitazioni sociali di protesta contro la Politica Zero-Covid evidenziano una crepa nella rigida architettura del Partito-Stato. La solidità del sistema cercata a tutti i costi, principio guida decantato anche al XX Congresso e allo stesso tempo fine ultimo del Partito-Stato, potrebbe non bastare più.
Da qualche anno, ormai, la Cina dichiara di aver abbandonato il ruolo di “fabbrica del mondo”, che gli ha permesso di sfruttare i benefici economici della sua enorme forza lavoro, e di sfruttare i vantaggi “dell’ultima arrivata”[23], per spostarsi verso un modello più avanzato di sviluppo. Nel 2021 il PIL pro capite cinese ha raggiunto i 12.000 dollari (quello italiano, per fare un esempio è di 35.000 dollari)[24], avvicinandosi già sensibilmente alla soglia dei Paesi considerati a medio-alto reddito. Il rallentamento economico, però, e la recente politica Zero-Covid stanno mettendo in evidenza le crepe di un sistema che funziona benissimo nell’identificazione di un problema circoscritto e nell’allocazione di risorse per risolverlo, ma che fatica maggiormente nella gestione di problemi strutturali. I target posti per il 2035 e il 2050 prevedono la messa in atto di riforme ampie e complesse, che necessitano di un approccio multidimensionale che vada oltre il ricorso ad investimenti massivi e richiede processi di riforme a più livelli.
Il Mercator Institute for China Studies (MERICS) identifica cinque aree chiave di intervento strutturale nelle quali la Cina prova ad agire da decenni, senza tuttavia trovare una soluzione definitiva: le disparità di sviluppo regionale, la disuguaglianza di reddito tra la popolazione cinese, la riforma delle pensioni, lo sviluppo delle piccole e medie imprese e infine la liberalizzazione del conto capitale. Le politiche macroeconomiche che vengono da anni implementate per risolvere tali sfide vengono spesso rinominate, abbandonate o sospese dopo risultati per lo più poco brillanti[25]. Si pensi soltanto alla più grande delle iniziative macroeconomiche degli ultimi anni, orientata alla onnicomprensiva risoluzione di molti dei sopracitati problemi strutturali della Cina, entrata lo scorso XIX Congresso nello Statuto del Partito, e neanche citata durante i lavori del XX consesso: La Belt and Road Initiative. Forte del suo inedito terzo mandato Xi Jinping ha dalla sua quello che il MERICS definisce «il fattore dell’imperatore Ming»[26]. I successi ottenuti dal suo decennio di guida, come i risultati nella lotta contro la povertà, e il suo stretto controllo del Partito ottenuto tramite una severa campagna anti-corruzione, gli possono aprire la strada verso un più massiccio intervento, soprattutto nei cinque settori sopracitati, dove le barriere storiche al cambiamento sono altissime. Esattamente come nei primi tempi dell’impero Ming, poi, Xi Jinping, può contare sulle innumerevoli muraglie fisiche e soprattutto digitali che fermano i “barbari alle porte”. La Cina è pronta a sostenere un pressing (cioè il contenimento) degli Stati Uniti mentre si impegna a “liberare la creatività” delle sue forze produttive per ottenere una certa indipendenza tecnologica. A rendere impervia e in salita la strada verso “il paradiso comunista”, però, è “il fattore del tardo imperatore Ming”. Il potere centralizzato e la crescente paranoia soprattutto in vista dell’aumento dei problemi – come potrebbe essere per le proteste recenti in Cina – possono portare a decisioni sbagliate. Xi potrebbe esagerare, oppure potrebbe non ricevere informazioni accurate sullo stato delle sue riforme per il desiderio dei suoi sottoposti di dispiacere a chi è al potere, un po’ come era successo, in maniera molto più tragica, nel periodo maoista durante l’esperimento comunista del “balzo in avanti”[27]. Un’economia sempre più ideologica sta prendendo il posto del pragmatismo che ha guidato il successo dei primi decenni del periodo di riforma iniziato nel 1978. Ciò potrebbe minare il processo di riforma o addirittura portare a calcoli errati di fronte alle pressioni degli Stati Uniti e di altri Paesi.
Secondo molti analisti[28] Xi quasi certamente non avrà problemi nell’affrontare questioni come la disparità regionale e la riforma delle pensioni, forte dei privilegi acquisiti dal suo terzo mandato. Tuttavia, il leader ha precedenti contrastanti per quanto riguarda la costruzione di riforme efficaci, preferendo spesso campagne di partito invece che riforme statali istituzionali. A dimostrazione di ciò, la storica formula che per decenni è rimasta nei rapporti politici del Partito Comunista Cinese per segnalare la necessità di cambiamenti istituzionali: “riforma politica” o zhengzhi tizhi gaige (政治体制改革) è completamente scomparsa dalla narrazione di Xi al XX Congresso. Tale assenza va letta alla luce dei tentativi del leader di smantellare il concetto di leadership collettiva e di mantenere così com’è l’assetto delle istituzioni, quantomeno quelle politiche[29]. E mentre la pressione interna aumenta sotto le politiche Zero-Covid o di riduzione dell’indebitamento, e la pressione esterna di un Occidente sempre più preoccupato lo spinge a investire ancora di più nell’autosufficienza tecnologica, Xi potrebbe non avere le risorse per attuare le necessarie riforme strutturali che potrebbero permettere di definire la Cina un Paese “mediamente avanzato”, nonostante i grandi propositi. Mentre Xi è proteso verso il raggiungimento del “paradiso comunista”, e adotta la logica per cui “il fine giustifica i mezzi” di controllo, potrebbe rendersi conto che i mezzi, banalmente, non sono a disposizione, o potrebbero essere allocati altrove, nel tentativo di tenere in piedi la struttura del Partito-Stato.
[1] Un momento di difficoltà economiche e di agitazioni popolari come quello degli ultimi mesi non si verificava in Cina dall’Incidente di Tiananmen del 1989. Si veda: M.-C. Bergère, La Repubblica popolare cinese (1949-1999), il Mulino, Bologna 2000.
[2] Xi Jinping: «Hold High the Great Banner of Socialism with Chinese Characteristics and Strive in Unity to Build a Modern Socialist Country in All Respects», Report to the 20th National Congress of the Communist Party of China, 16 ottobre 2022.
[3] R. Guo, China’s Communist Party hits 96,7 million, boosted by young and educated, «South China Morning Post», 30 giugno 2022.
[4] J. Chen, The Revision of the Constitution in the PRC, «China Perspective», 53, maggio-giugno 2004.
[5] A. Andrésy, Xi Jinping. Red China, the Next Generation, University Press of America, Lanham 2016.
[6] Systems of intra-party democracy and life, Institute of Party Building of the Organization Department of the Central Committee of the Communist Party of China; B. Gallelli, The 20th Congress of the Chinese Communist Party”: What Next?, Istituto Affari Internazionali, 52 – novembre 2022.
[7] Reuters, Hu Jintao escorted out of party congress, consultabile sulla piattaforma YouTube.
[8] Il Tuanpai (团派 letteralmente “fazione della lega”) o gruppo Tuanpai è una corrente politica del Partito Comunista Cinese. Essa raccoglie i membri assurti alla dirigenza della Lega della Gioventù Comunista Cinese in tempi diversi e che attraverso tale organizzazione hanno conquistato ruoli fondamentali nel partito e nel Paese o sono giunti alla guida del governo della Repubblica popolare cinese. Si veda D.D. Gueorguiev, Dictator’s Shadow, «China Perspectives», 2018/1-2 (2018).
[9] Xi Jinping, «Hold High the Great Banner of Socialism with Chinese Characteristics and Strive in Unity to Build a Modern Socialist Country in All Respects», Report to the 20th National Congress of the Communist Party of China, 16 ottobre 2022.
[10] E. Dolgin, Omicron thwarts some of the world’s most-used COVID vaccines, «Nature», 13 gennaio 2022.
[11]C. Che e J. Liu, Covid Lockdown Chaos Sets Off a Rare Protest in a Chinese City, «The New York Times», 16 novembre 2022.
[12] J. Jiang, direttore dell’Ufficio di ricerca sulla Policy del Partito, nella Conferenza stampa al termine del Congresso, 24 ottobre 2022.
[13] National Economy Showed Sound Momentum of Recovery in the First Three Quarters, National Bureau of Statistics of China, 24 ottobre 2022.
[14] Xi Jinping, «Hold High the Great Banner of Socialism with Chinese Characteristics and Strive in Unity to Build a Modern Socialist Country in All Respects», Report to the 20th National Congress of the Communist Party of China, 16 ottobre 2022.
[15] L’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai è un organismo intergovernativo fondato il 14 giugno 2001 dai capi di Stato di sei Paesi: Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan.
[16] È prassi comune nella narrazione politica cinese formulare due tipi di discorso: uno rivolto verso l’interno, che utilizza concetti informati alla lunga tradizione marxista-leninista; l’altro rivolto verso l’esterno, ripulito dalle formulazioni politiche e letterarie cinesi. Si veda: A. Papalia, Chinese National and International Identity. The role of the Chinese and English-language press in building the identity of the People’s Republic of China, Università degli Studi di Torino, novembre 2018.
[17] Xi Jinping, «Hold High the Great Banner of Socialism with Chinese Characteristics and Strive in Unity to Build a Modern Socialist Country in All Respects», Report to the 20th National Congress of the Communist Party of China, 16 ottobre 2022.
[18] Xi Jinping, «Hold High the Great Banner of Socialism with Chinese Characteristics and Strive in Unity to Build a Modern Socialist Country in All Respects», Report to the 20th National Congress of the Communist Party of China, 16 ottobre 2022.
[19] Il principio della “One China” è la posizione secondo cui esiste un solo stato sovrano sotto il nome di Cina, con la RPC che funge da unico governo legittimo della Cina Continentale e di Taiwan, che fa parte della Cina. La RPC è contraria all’idea che ci siano due stati che portino il nome “Cina”, ovvero la Repubblica Popolare Cinese (RPC) e la Repubblica Cinese (RC); così come l’idea che Cina e Taiwan formino due Paesi separati. S. Brown, Fraying at the Edges: A Subsystems/Normative Power Analysis of the EU’s “One China Policy/Policies”, «The China Quarterly», 1-24.
[20] Jiang Zemin, «Hold High the Great Banner of Deng Xiaoping Theory for an All-round Advancement of the Cause of Building Socialism with Chinese Characteristics to the 21st Century», Report at the 15th National Congress of the Communist Party of China, 12 settembre 1997.
[21] Per un’agevole revisione dei principi economici marxisti si veda: G. Temkin, Karl Marx and the Economics of Communism: Anniversary Recollections, «Communist and Post-Communist Studies», 31, no. 4 (1998): 303–28.
[22] B. Gallelli, The 20th Congress of the Chinese Communist Party”: What Next”?, Istituto Affari Internazionali, 52 – novembre 2022.
[23] Il concetto del “vantaggio dell’arretratezza” fu formulato dall’economista russo Alexander Gerschenkron. Secondo lo studioso i Paesi meno sviluppati possono imitare le tecnologie dei Paesi avanzati senza correre il rischio iniziale legato all’innovazione tecnologica; si sviluppano più rapidamente; hanno una maggiore produzione di beni strumentali anziché di consumo; e le fasi successive allo sviluppo generano diversi tipi di capitalismo, soprattutto nelle istituzioni. Per approfondimenti si veda: A. Gerschenkron, Economic Backwardness in Historical Perspective, Harvard University Press, Harvard 1962.
[24] The World Bank, The GDP per capita, The World Bank, Poverty and Inequality Platform.
[25] F. Chimits, J. Gunter, G. Sebastian, M-J. Zenglein, Is this time different? The structural economic reform for Xi’s 3rd term, MERICS, novembre 2022.
[26] Ibidemn, La dinastia Ming (明朝, Míng Cháo) fu la dinastia che assunse il controllo assoluto della Cina dal 1368 al 1644, dopo aver determinato il crollo della precedente dinastia Yuan di origine mongola.
[27] Il grande balzo in avanti (大跃进, Dàyuèjìn) fu un piano economico e sociale implementato dalla Repubblica Popolare Cinese tra il 1958 e il 1961, che si propose di mobilitare la vasta popolazione cinese per riformare rapidamente la Cina, traghettandola da un sistema economico rurale verso una moderna e industrializzata società comunista, basata sulla collettivizzazione. Mao Zedong basò il suo programma sulla teoria delle forze produttive. Il grande balzo si rivelò tuttavia un disastro economico tale da bloccare la crescita del Paese per diversi anni. Storicamente, è considerato dalla maggior parte degli autori come la principale causa della gravissima carestia del 1960, nella quale morirono da 14 a 43 milioni di persone. M.-C. Bergère, La Cina dal 1949 ai giorni nostri, il Mulino, Bologna 1989; J. Chang e J. Halliday, Mao. La storia sconosciuta, Longanesi, Milano 2006.
[28] F. Chimits, J. Gunter, G. Sebastian, M. J. Zenglein, Is this time different? The structural economic reform for Xi’s 3rd term, MERICS, novembre 2022.
[29] B. Bishop, China’s Political Discourse October 2022: The Dust Settles on the 20th National Congress of the CCP, «Sinocism», 2 dicembre 2022.