“Immunità comune. Biopolitica all’epoca della pandemia” di Roberto Esposito
- 08 Aprile 2023

“Immunità comune. Biopolitica all’epoca della pandemia” di Roberto Esposito

Recensione a: Roberto Esposito, Immunità comune. Biopolitica all’epoca della pandemia, Einaudi, Torino 2022, pp. 200, euro (scheda libro)

Scritto da Marco Dal Pozzolo

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Immunità comune, è una tappa molto particolare nel percorso teorico pluridecennale di Roberto Esposito. Questo libro è l’occasione per il filosofo campano di ritornare sulle categorie concettuali che all’inizio del nuovo millennio lo hanno canonizzato tra i pensatori contemporanei della biopolitica, in primis il concetto di Immunitas. È un testo che emerge da una necessità, quella di prendere una posizione di fronte a un fenomeno, la pandemia, di eccezionale impatto storico, politico e sociale e al contempo caratterizzato da letture inevitabilmente controverse. Questa necessità è moltiplicata dalla centralità che la biopolitica ha riguadagnato nel dibattito pubblico durante la crisi, quale paradigma interpretativo per dare senso agli eventi innescati dalla primavera del 2020 in poi; e indubbiamente tra tutte, proprio la semantica dell’immunità è diventata letteralmente il fulcro del discorso pubblico, medico e politico, senza soluzione di continuità. Questo testo, dunque, è per Esposito il terreno teorico per dimostrare la pertinenza delle sue categorie filosofiche e al contempo per esporle alla sfida dell’evento, ancora nell’immediatezza del suo decorso, tracciandone nuove traiettorie possibili.

Una filosofia all’altezza dello scenario pandemico si può dare solo riarticolando il discorso sulla biopolitica e, inevitabilmente, anche difendendolo dalle numerose critiche che ha ricevuto in questi anni e rispetto alle quali Esposito non ha mancato di prendere posizione pubblicamente[1]. Pur avendo trovato apparentemente solide conferme durante la gestione della pandemia (dal disciplinamento, al controllo della popolazione, alla politicizzazione della medicina), il paradigma foucaultiano ha ricevuto una molteplicità di critiche che insistono sulla sua indeterminatezza concettuale, sulla fragilità storica e sulla naturalizzazione implicita che propone. Pur essendo tornato a più riprese sull’infondatezza di queste critiche, è soprattutto la pretesa naturalizzazione della biopolitica a cui in questo libro Esposito intende ribattere. Il filosofo campano mostra, infatti, come la nozione di biopolitica sia intensamente storica e, anzi, rappresenti un esempio emblematico di quello studio delle condizioni storiche di emergenza di fatti e concetti tipico dell’approccio foucaultiano. La nozione di biopolitica è storicamente collocata da Michel Foucault all’interno della soglia epistemologica e delle tecnologie di potere moderne; anzi, il tentativo di naturalizzarne i caratteri è proprio di quei dispositivi di potere rispetto ai quali l’analisi di Foucault fornisce una prospettiva critica. Non a caso, argomenta Esposito, la questione della statalizzazione del biologico e del razzismo (con cui Foucault introduce la questione biopolitica nel corso al Collège de France Bisogna difendere la società) conclude una lunga genealogia del discorso storico quale strumento di interpretazione e posizionamento delle parti sociali in conflitto tra loro all’interno della storia europea. Nello stesso senso le analisi di Foucault sulla governamentalità degli anni successivi mirano a mostrare come lo Stato non si dia storicamente come un monolite giuridico, ma come campo di pratiche di governo, esattamente come le tecnologie di potere disciplinare nei confronti delle istituzioni (ospedale, prigione, fabbrica): «è questa forma di controllo della anime e dei corpi che, una volta emancipata dall’economia divina e secolarizzata nei dispositivi biopolitici, diventa governo degli uomini» (pp. 97-98). La biopolitica nomina dunque un insieme di saperi e tecnologie di potere volti a governare i corpi e la vita di cui Foucault ricostruisce l’emersione storica, piuttosto che farne una prospettiva metafisica. Sono altre le mancanze che Esposito imputa a Foucault, una volta assunto il suo punto di vista: da un lato la scarsa tematizzazione delle disuguaglianze che costituiscono faglie tra le vite degli esseri umani, secondo spaccature sociali, etniche, culturali, caratteristiche anche dell’orizzonte pandemico; dall’altra una lettura essenzialmente repressiva o conservativa delle istituzioni, mentre è proprio la ricostituzione del legame teorico e politico tra vita e istituzioni che Esposito ha messo al centro dei suoi recenti lavori[2].

Un passaggio ancora più importante per completare l’analisi foucaultiana è rappresentato dalla categoria di immunità, concetto all’incrocio del lessico medico-biologico e di quello del diritto, con cui Esposito identifica la tendenza tipica della politica moderna di conservare e trattenere la vita. Come mostrato già in lavori precedenti, la nozione di immunità si costituisce all’interno di un unico blocco semantico con la categoria di comunità e in tensione con essa[3]. L’immunità rappresenta una logica di protezione della comunità (non si dà infatti comunità senza una qualche forma di esclusione), ma al contempo è antinomica rispetto ad essa, perché nel difenderla rischia perennemente di romperne i legami interni. Si tratta di una forma negativa di protezione che incanala dentro a confini la potenza vitale (e politica). La nozione di immunità origina innanzitutto dall’ambito giuridico: «esso è una deroga alla legge fissata dalla legge stessa. Dichiarando qualcuno immune, la legge lo pone in uno spazio esterno al proprio cerchio, senza tuttavia rinunciare a definirne legalmente le prerogative» (p. 21). Dalla seconda metà dell’Ottocento al significato giuridico si affianca quello biologico, incamerando il lessico politico-militare della difesa dell’organismo e istituendo uno dei molti passaggi semantici tra politica e biologia. In realtà, l’attenta rilettura che Esposito fa delle recenti ricerche in ambito immunologico, mostra l’inadeguatezza del lessico militare e identitario per spiegare il funzionamento del sistema immunitario: «tutt’altro che barriera discriminante nei confronti dell’ambiente esterno, esso comincia a configurarsi come ciò che, in determinate condizioni, favorisce il rapporto con esso» (p. 175). In ogni caso è proprio su questa commutazione semantica permanente tra politica e biologica che si gioca l’emergenza storica della pratica della vaccinazione e della scienza immunologica, rispetto alla quale Esposito propone una genealogia inedita rispetto agli scritti precedenti. La straordinaria incidenza storica delle epidemie caratterizza l’alba della modernità, in particolare con la conquista europea del continente americano, agevolata proprio dal contagio virale dilagante tra gli indigeni del Nuovo Mondo. Ma è solo dopo il Settecento, con la crescente politicizzazione della medicina, che si pongono le condizioni per lo studio e la ricerca di soluzioni rispetto alle epidemie. Esposito riprende Foucault nella ricostruzione della progressiva corrispondenza tra politica, medicina e diritto (dal governo della popolazione per il rafforzamento dello Stato in Germania, alla medicina urbana francese basata sull’igienismo, alla medicina di assistenza dei poveri in Gran Bretagna), ma va oltre la prospettiva del pensatore francese occupandosi direttamente della storia della vaccinazione. La prima iniezione di vaccino da parte di Edward Jenner a fine Settecento costituisce una nuova soglia storica del paradigma immunitario che «non solo ne ha potenziato l’intensità, ponendolo al centro della lotta contro i più temibili nemici naturali dell’umanità, ma ha segnato un ulteriore avvitamento delle categorie di immunitas e communitas, incorporando antinomicamente l’una nell’altra» (p. 33). Infatti, da un lato l’iniezione isola il vaccinato dai non vaccinati, dall’altro apre alla possibilità di proteggere la comunità nel suo insieme, prefigurando quel concetto “immunità comune” che dà il titolo al libro (di cui l’immunità di gregge, perseguita da alcuni Stati nel 2020 prima dello sviluppo dei vaccini, sarebbe invece il rovescio mortifero). La ricostruzione di Esposito segue poi l’epopea di Louis Pasteur e dell’Institut Pasteur, valorizzandone la forte dimensione biopolitica e geopolitica insieme: la medicina batteriologica diventa infatti strumento essenziale della politica coloniale francese che riesce a contenere le decimazioni in territorio africano dovute alla febbre gialla, tanto che «da Tangeri a Tunisi, fino a Saigon, Pasteur diventa il generale più influente nella storia della Francia» (p. 40). Ma questa storia politica degli studi batteriologici si prolunga in modo intenso anche sul continente europeo (nei postumi della Guerra franco-prussiana), con l’epica competizione tra Pasteur e Koch per isolare i germi patogeni di malattie quali antrace, colera e tifo; una battaglia che poi proseguirà, sul terreno dei primi modelli immunologici, ovvero la fagocitosi di Mečnikov (succeduto a Pasteur a Parigi) e la teoria umorale sempre di Koch e della sua scuola.

D’altra parte, il paradigma immunitario non è solo il calco concettuale di una storia scientifico-politica, e possiede una dimensione propriamente filosofica in almeno due sensi. In primo luogo, perché è un paradigma teorico che identifica un processo, quello di immunizzazione, concorrente con altre influenti interpretazioni della modernità (razionalizzazione, secolarizzazione, autolegittimazione): in questo senso esso ha un’implicita pretesa onnicomprensiva delle dinamiche fondamentali della storia moderna, iniziata secondo il filosofo con lo sgretolamento degli apparati immunitari garantiti dalla religione nel Medioevo. In secondo luogo, perché Esposito rintraccia la presenza, più o meno implicita, del concetto di immunizzazione in una costellazione di pensatori contemporanei. L’esordio di questa concettualità è rintracciato da Esposito nel pensiero di Friedrich Nietzsche per il quale «l’immunità è la modalità autodifensiva di una vita che tende a eccedere se stessa» (p. 119). Identificando Nietzsche la vita con la volontà di potenza, che formalmente non ha limiti, ha bisogno di dispositivi che la trattengano e ne frenino gli impulsi: la democrazia, lo Stato, sono per Nietzsche provvedimenti profilattici volti a questo fine, che, pur proteggendola, tendono a compromettere la vita sana. Sono segnati da questa stessa logica immunitaria il rapporto tra nevrosi collettiva e civiltà in Sigmund Freud, il nesso tra comunità e sacrificio di René Girard, la teoria dei sistemi di Niklas Luhmann (primo a sviluppare apertamente il lessico immunitario nel quadro sociale), l’ontologia delle sfere di Peter Sloterdijk. Particolarmente significativa è la trattazione di Esposito del pensiero di Jacques Derrida, perché il filosofo francese mette al centro la categoria di autoimmunizzazione, ancora più che quella di immunizzazione. Derrida parte dal presupposto che ogni meccanismo di difesa, una volta installato, non possa fermarsi e tenda prima o poi a produrre la propria autodistruzione, finendo per danneggiare ciò che avrebbe dovuto proteggere. Questo paradigma interpretativo, cruciale anche per Esposito, serve tra le altre cose a Derrida per leggere la situazione post 11 settembre 2001, in cui tutti gli attori in gioco, su piani diversi, mettono in atto strategie autoimmuni (gli attentatori, come il governo americano). Dispositivo immunitario e logica autoimmunitaria, filosoficamente fondate, sono per Esposito strumenti critici volti a interrogare le categorie politiche e giuridiche europee: se già in passato aveva interpretato sotto la lente di questo paradigma alcune delle più rilevanti categorie politiche moderne (sovranità, proprietà e libertà), rivelandone la semantica essenzialmente negativa e conservativa di dispositivi di protezione, in questo testo è la democrazia a essere oggetto dell’analisi[4]. Inscritta nella concezione della libertà negativa dei moderni (“libertà da”, piuttosto che “libertà di”), la democrazia moderna è secondo Esposito attraversata dalla piega immunitaria, che si estende in linea di principio a ogni individuo. Essa separa strutturalmente ogni funzione sociale in una parte esterna e una parte interna (compresi i diritti, che sono tali perché non concessi a tutti). Questa logica è stata peculiarmente affiancata e intensificata dai processi di desocializzazione e distanziamento fisico indotti dalla pandemia, durante la quale non sono peraltro mancate proposte di dispositivi potentemente escludenti rispetto a parte della popolazione (il divieto per gli anziani di spostarsi da casa, ad esempio). Ma in realtà l’immunizzazione si rivela per Esposito consustanziale alla democrazia stessa, dall’esclusione dal voto di buona parte della popolazione nella Grecia antica, alle democrazie colonialiste, essa sembra sostenersi e proteggersi solo negando in qualche forma i propri principi. Per questo la democrazia è «necessaria eppure impossibile» (p. 55), irrealizzabile perché antinomica fin nella sua radice. Se è vero che non è mai esistita democrazia che non abbia negato i diritti politici a parte della popolazione, è anche vero che essa è attraversata dalla tensione fra due poli che, in una logica autoimmunitaria, tendono a ribaltarla in uno dei suoi contrari: da un lato la rappresentanza, il principio oligarchico che tende a separare governanti e governati, prefigurando un esito aristocratico; dall’altro la sovranità popolare che, se cristallizzata nella sua dimensione omogenea e pianamente positiva, porta a lambire la dittatura (fino a far dire a Carl Schmitt che l’acclamazione sarebbe l’unica vera forma di democrazia). La democrazia abita necessariamente questo spazio contraddittorio che secondo Esposito deve essere articolato in corpi intermedi, partiti, associazioni, istituzioni sociali che temperano lo strapotere del principio maggioritario e insieme accorciano la distanza tra governanti e governati. «Per resistere alle potenti dinamiche di de-democratizzazione in corso bisogna inventare nuove pratiche democratiche, istituzionalizzando il conflitto politico […] solo esso può politicizzare la democrazia salvandola dalla sempre incipiente deriva autoimmune» (pp. 77-78).

Proprio la politicizzazione della democrazia, che Esposito legge nell’ottica del pensiero istituente, è la posta in gioco dell’orizzonte pandemico e del suo lascito per il pensiero. La pandemia, più che aver esposto la democrazia al rischio della sua negazione, le ha piuttosto imposto un’ulteriore torsione in senso tecnocratico che, in realtà, si inserisce in una dinamica di spoliticizzazione di lungo periodo dello spazio pubblico. La tecno-scienza, sintetizzata nella figura dell’esperto, ha affermato il proprio primato basato sulla competenza, e invece di fornire i mezzi per decidere, finisce per confondersi sempre di più con la sfera politica, che dovrebbe occuparsi dell’orientamento dei fini, in una situazione in cui il governo internazionale dell’economico vincola già fortemente le forme della politica. È questa dinamica di compressione progressiva della conflittualità democratica, propria anche della fase pandemica, che attira le preoccupazioni di Esposito, più di quanto non faccia il rischio dello Stato di eccezione o la tensione valoriale tra libertà e vita. Pur senza negare il rischio insito nella verticalizzazione delle decisioni prese nell’urgenza dell’epidemia, Esposito invita a non confondere stato di eccezione e stato di emergenza, posti al centro del dibattito intellettuale. I due stati si distinguono non solo per intensità e per durata, ma anche e soprattutto per scopo: se l’eccezione apre all’infrazione della normalità finalizzata a costituire un nuovo ordine, l’emergenza mira a ricostituire una normalità interrotta da uno stato di necessità. Seppure precisamente distinguibili solo a posteriori, le due logiche connotano diversamente i processi politici fin dall’inizio, rendendo molto problematico lo schiacciamento dell’emergenza sull’eccezione. D’altra parte il filosofo campano, consapevole del carattere tragico delle scelte politiche adottate da alcuni governi, invita a ridimensionare il conflitto tra libertà e vita (e quindi immunità), argomentando la necessità di un bilanciamento dei valori. Di estremo interesse filosofico è invece la prospettiva storica, assolutamente inedita, di una piena coincidenza tra immunità e comunità che è stata aperta dai vaccini nel 2021. Se il lockdown aveva combattuto il virus smembrando il corpo sociale, confinando le persone, i vaccini hanno mostrato la necessità di un’immunizzazione globale, di una immunità generale che funziona tanto meglio, quanto meno istituisce confini. «Da qui la richiesta di immunità comune, avanzata non solo dalle popolazioni, ma dagli stessi Stati, consapevoli del pericolo costituito dall’esclusione di un singolo Paese dall’uso del vaccino» (p. 178). È, in altre parole, la stessa crisi mondiale che ha mostrato la convenienza di pensare l’immunità in termini comuni. In questo orizzonte è racchiusa la promessa di una diversa articolazione tra comunità e immunità (forse vicina alla co-immunità di cui parlava Derrida), dove quest’ultima non costituirebbe più una ferita escludente nella carne della prima. Esposito, che scrive nei mesi appena successivi alla distribuzione dei vaccini, sottolinea come questa promessa risulti già tradita dalla scarsa condivisione della produzione delle dosi e del know-how per produrle e dall’esplicita opposizione alla liberalizzazione dei brevetti in nome dei profitti. Si riapre qui, forse inevitabilmente, la tensione problematica e antinomica tra comunità e immunità, suturando i margini di progettualità politica. La prospettiva di un’immunità comune, seppur disattesa, resta però uno dei lasciti più importanti di questi anni per il pensiero: necessaria e impossibile, come la promessa democratica, è forse questa l’intuizione fondamentale del lavoro di Esposito.


[1] Si veda Roberto Esposito, Immunitas: oltre le feconde contraddizioni di Foucault, «Micromega», 8/2020, pp. 34-55.

[2] Roberto Esposito, Istituzione, il Mulino, Bologna 2021, pp. 127-158.

[3] Si veda Roberto Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2020, pp. 7-15.

[4] Si veda Roberto Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004, pp. 52-77.

Scritto da
Marco Dal Pozzolo

Dottorando in Filosofia all’Université de Bourgogne, laureato e diplomato all’École Normale Supérieure di Parigi. Membro fondatore del gruppo Prospettive Italiane, collabora con il Centro Studi Piero Gobetti.

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