Recensione a: Albert Camus e Nicola Chiaromonte, In lotta contro il destino. Lettere 1945-1959, a cura di Samantha Novello, Neri Pozza, Vicenza 2021, pp. 256, 22 euro (scheda libro)
Scritto da Andreas Iacarella
5 minuti di lettura
La lettera è stata, almeno dal Rinascimento in poi, un genere del tutto particolare della nostra letteratura. Non dunque un semplice mezzo di comunicazione, e in questo senso una fonte preziosa per gli storici, ma una modalità di espressione ben definita, col suo linguaggio, le sue regole, le sue forme. Al tempo stesso la lettera è, però, la traccia di un rapporto: meditata, velata da una distanza fisica, ma è questa sua natura di tramite che ne fa la specificità e l’unicità. In questo senso, entrare da lettore in un epistolario è un esercizio interpretativo che richiede la capacità di decifrare il codice sottostante allo scambio: non solo un codice formale, di genere appunto, ma anche la veste del tutto peculiare che a quel codice sa dare ciascun corrispondente.
La “fatica” di leggere un epistolario, con le sue inevitabili lungaggini o lacune, viene dunque ampiamente ricompensata. Perché quella che viene offerta non è, soltanto, la possibilità di scoprire un lato privato di un autore o un pensatore, o le vicende minute della sua vita personale e professionale. Le lettere sono la chiave per penetrare in un alfabeto intimo, che svela o nasconde, a seconda dei casi, ma in ogni caso racconta. Racconta modalità di rapporto e di pensiero, in una scrittura insieme privata e condivisa.
La corrispondenza tra Albert Camus e Nicola Chiaromonte, recentemente uscita in traduzione italiana per la cura di Samantha Novello, è un esempio luminoso di questo genere di pubblicazioni. I due intellettuali, tra i più acuti della loro generazione, hanno dato vita a uno scambio umano e filosofico di enorme spessore. Era il 1941 quando si incontrarono per la prima volta ad Algeri. L’invasione nazista della Francia aveva costretto Chiaromonte, già rifugiatosi a Tolosa perché antifascista, a fare rotta verso l’Africa. Sradicato dai rapporti costruiti negli anni francesi, prostrato dalla perdita della moglie, dalla sensazione di non avere più possibilità, l’intellettuale italiano ritrova in Algeria la speranza di una umanità che cerca insieme di resistere al disumano. «L’amicizia è una cosa strana», scriveva Camus all’amico “Nicolas” ricordando il loro incontro, «il giorno in cui lei è partito (…) non sapevo neppure se ci saremmo rivisti (…). E tuttavia io ero “certo” di lei, dell’avvenire che avremmo avuto in comune. Io l’ho riconosciuta» (p. 105).
Non fu, almeno inizialmente, l’intreccio di due percorsi di riflessione consonanti, ma un riconoscimento immediato, di pelle, e una scoperta dell’altro condotta attraverso silenzi colmi di senso e di vita. «Ho sempre sentito, in sua compagnia», scriveva Chiaromonte, «una specie di contatto nei sentimenti che richiedeva molta discrezione, essendo forse più intenso e più profondo di quanto né l’uno né l’altro di noi avrebbe pensato» (p. 102). Dopo l’Africa, lo scrittore lucano partì per gli Stati Uniti, dove divenne un membro attivo di quell’intellettualità newyorkese post-marxista e anti-stalinista (in rapporti, tra gli altri, con Dwight Macdonald, Hannah Arendt e Mary McCarthy). Fu solo in questi anni che avvenne per lui la scoperta del Camus pensatore, leggendo a fondo le sue opere e rimanendo folgorato da una vicinanza che si precisava e si riempiva allora di parole.
Lo scambio tra Camus e Chiaromonte, durato fino alla tragica morte del filosofo francese, oltre a permetterci di scoprire due realtà umane di eccezionale sensibilità, racconta qualcosa di un certo sentimento che unì diversi pensatori a partire dagli anni Trenta del Novecento. L’orrore dei totalitarismi prima e della guerra dopo aveva portato a riscoprire un’esigenza primaria e naturale di rapporti. Questa venne declinata, da molti intellettuali anti-ideologici, in modo originale, come ricerca di una differente modalità di relazioni. Era all’opera, almeno nelle intenzioni, la costruzione di una comunità umana di tipo nuovo: «Occorrerebbero», scriveva Chiaromonte nel 1946, «intellettuali (e con questo termine non intendo esclusivamente filosofi e scrittori, ma medici, ingegneri, operai con un’esperienza attiva della propria situazione) (…) che accettino l’idea di lavorare in comune e senza nessun secondo fine» (p. 61).
È all’interno di questo movimento che avviene l’incontro tra i due pensatori. Di fronte alla fine di un mondo che assumeva i toni foschi di un’apocalisse, Camus, Chiaromonte e con loro molti altri cercavano in questi legami spontanei, profondi, la chiave per un rinnovamento globale dell’umanità. Come scrive nell’introduzione al volume Novello, la loro convinzione era che solo nel rapporto si potesse «ricreare in comune un’immagine del mondo capace di dare un senso» (pp. 14-15).
Il pensiero meridiano del filosofo francese diventerà, a partire da L’uomo in rivolta (1951) e dalla rottura con Jean-Paul Sartre, una delle più compiute formulazioni di questo sforzo collettivo di ripensamento dei rapporti tra gli uomini. Non soltanto un’etica, ma un’intera antropologia di tipo nuovo: per lavorare a una reale trasformazione, scriveva Camus, bisogna che «riconosciamo i nostri errori e che dichiariamo a tutte lettere che esistono valori, una natura umana e due o tre cose che abbiamo negato o svilito» (p. 66). Sarà questa la sfida conoscitiva che impegnerà lo scrittore per gli anni successivi, volta alla formulazione di una nuova realtà di rivolta e cambiamento dell’esistente, che non finisse nell’aspirazione all’assoluto.
A tutto ciò il pensatore lucano proverà a fare da sponda, in Italia, soprattutto con la rivista Tempo presente, fondata nel 1956 insieme a Ignazio Silone. In questo «pensiero pieno di emotività», come Chiaromonte definì il percorso di ricerca dell’amico, si delineava infatti un’alternativa alle varie correnti culturali che dopo la guerra sembravano contendersi il campo. Annichilito dalla devastazione umana e materiale, il pensiero europeo postbellico stava provando a mettere in questione le proprie certezze, e con esse un’impostazione secolare che aveva consegnato alla ragione il primato assoluto per la comprensione della vita e della storia umana. Da un lato questo poté nutrire le correnti più irrazionaliste, dalla psicologia analitica di impostazione junghiana alla fenomenologia religiosa eliadiana, profondamente venate di cedimenti religiosi; dall’altro, favorì un rinnovato interesse per l’esistenzialismo negativo e la sua visione disperante dell’esistenza, nella quale l’unica scelta realmente data, per raggiungere l’autenticità del proprio essere, è assumere su di sé l’“essere per la morte”, l’angoscia, l’assurdo dell’esistere (da Heidegger a Jaspers a Sartre).
«È una specie di Mein Kampf», scrive Chiaromonte a proposito del Saint Genet di Sartre. «È la volontà di confusione spinta al di là di ogni limite – è l’ambizione di asservire le menti alla confusione. (…) Il tutto è spaventosamente vuoto» (pp. 90-91). Nel loro dialogo serrato, i due amici danno vita ad una battaglia comune contro l’astrattezza delle ideologie, che «pretendono l’infelicità dell’individuo fino al giorno remoto del loro stesso trionfo» (p. 189). La resistenza che, in modi differenti, avevano condotto contro la ferocia nazifascista, si rinnova e rafforza dopo la guerra nell’opporsi al pericolo della violenza nascosta nel nuovo pensiero europeo. Quella violenza che provava a colpire una specificità umana fatta di affetti e passioni: «Ogni ideologia», si legge nell’Uomo in rivolta, «si costituisce contro la psicologia».
Non era un percorso facile, ma una ricerca sofferta e tormentata, che le lettere ci permettono in parte di ricostruire. Una «rivoluzione interiore» che i due pensatori provavano, in solitudine eppure uniti da questo filo tenace di amicizia e rapporto. Ciascuno di loro, scrive ancora Novello, «aveva mentalmente ingaggiato una lotta personale corpo a corpo con la “peste” dell’odio e della violenza» (p. 12) ed è nel sentire questa lotta comune che avvenne il loro riconoscersi. La nuova comunità di uomini e donne, uniti da un pensiero tenace e vitale, non sarebbe purtroppo nata, come sappiamo. Eppure, riscoprire oggi il pensiero di questi geniali irregolari che hanno percorso l’Europa nei decenni successivi alla guerra ci consente di scrivere una storia diversa del pensiero occidentale. Di portare alla luce un umanesimo radicale che ha sempre vissuto, sottotraccia, provando a resistere all’assolutismo della ragione: da Ernesto de Martino a Carlo Levi, da Ernesto Rossi a Joyce ed Emilio Lussu, da Albert Camus a Nicola Chiaromonte. Storie umane che la pubblicazione di opere come questa corrispondenza ci permette di riscoprire. Energie culturali e vitali per continuare a costruire, in modo collettivo, una nuova immagine di mondo.