Scritto da Pasquale Terracciano
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Questo contributo fa parte di un dibattito su temi sollevati dall’articolo che apre il numero 6/2019 della Rivista «il Mulino», dal titolo Perché la democrazia è in crisi? Socialisti e liberali per i tempi nuovi, scritto congiuntamente da Giuseppe Provenzano ed Emanuele Felice. Tra i temi sollevati nella discussione la parabola storica del liberalismo e il possibile incontro con il pensiero socialista, le cause delle disuguaglianze, il ruolo e l’apporto delle culture politiche ai cambiamenti storici, le chiavi per comprendere il cambiamento tecnologico, le forme della globalizzazione e la crisi ambientale. Per approfondire è possibile consultare l’introduzione del dibattito con l’indice dei contributi pubblicati finora.
Salvare il liberalismo da sé stesso per parafrasare Colin Crouch. Governare lo sviluppo capitalista, tenendo al centro il lavoro. Lottare per una giustizia sociale che non scinda diritti sociali e diritti civili. Sono le linee guida della proposta per un nuovo patto tra socialismo e liberalismo – un socialismo fondato sull’emancipazione sociale che sposi il liberalismo dei diritti – proposto sul numero 6/19 della Rivista «il Mulino» da Emanuele Felice e Giuseppe Provenzano. Un patto necessario per evitare che l’evoluzione del capitalismo eroda il sistema democratico.
È sempre salutare quando uomini politici, in questo caso di provata caratura intellettuale, provano a dettare le file di un dibattito che non sia appiattito sull’oggi. Lo è ancor di più ora perché la crisi attuale è una crisi anche di pensiero, di capacità di immaginare il futuro e di pensare le alternative. La loro proposta chiama in causa molti nodi dalla lunga storia, e si presta ad essere dibattuta – positivamente o criticamente – così come a offrirsi come cornice da riempire di contenuti. In questa sede vorrei allora portare un piccolo contributo al dibattito organizzato da Pandora Rivista per un verso per approfondire alcuni elementi della “cornice” e per altro per suggerire possibili contenuti da mettere nel quadro.
Le tradizioni: quello che è detto, quello che non è detto
Una formula classica e fortunata di congiunzione tra socialismo e liberalismo è quella legata al nome di Carlo Rosselli, secondo cui il socialismo è il fine, il liberalismo il metodo. Si tratta di un’opzione che assumeva un rilievo specifico nel momento in cui non era scontato per i socialisti scegliere la via democratica piuttosto che quella rivoluzionaria. Per liberalismo si intendeva innanzitutto un orizzonte di prassi istituzionale, a cui puntare quando la fase eccezionale della lotta politica sotto la dittatura sarebbe venuta meno. Il liberalismo era cioè in prima battuta una scelta procedurale, e dunque veniva inteso come una categoria sostanzialmente “neutra”. La difesa della democrazia liberale non è mai scontata, ma tale opzione procedurale, nella sua accezione più ristretta, credo possa darsi per acquisita nel dibattito attuale (quantomeno all’interno di un confronto che coinvolge un Ministro della Repubblica e il responsabile economia di un Partito che si dichiara appunto Democratico). A questa lettura del liberalismo si accompagna anche, nello stesso libro di Rosselli, la consapevolezza che il liberalismo, come movimento di rivendicazione di libertà e di diritti, aveva avuto come erede proprio il socialismo, come movimento di emancipazione sociale; che dunque piuttosto che opporre le due categorie bisognasse trovarne una sintesi. Da questo punto di vista non ci si richiama più al liberalismo come metodo della democrazia, ma al liberalismo come opzione filosofica che mette al centro l’autodeterminazione dell’individuo. Qui può essere ancorata una forma di continuità con la lettura del liberalismo data da Felice e Provenzano nel loro articolo, poiché si tratta di lettura che insiste molto sulla traiettoria storica di un liberalismo che – in buona sostanza – non può non dirsi proto-socialista.
Per una singolare coincidenza l’articolo di Felice e Provenzano è uscito negli stessi giorni in cui è stato pubblicato un volume di inediti di Carlo Rosselli (Scritti inediti di economia, a cura di Enno Ghiandelli, Biblion Edizioni). Colpisce però una cosa: Felice e Provenzano non usano mai la formula «socialismo liberale», per l’appunto quella coniata da Rosselli, in cui pure potrebbe stare senza troppe forzature la loro proposta. Preferiscono invece quella di liberalismo sociale o – pur consapevoli delle differenze – di socialdemocrazia. Non si tratta di un dettaglio. Il motivo – provo a vaticinare – credo risieda non tanto nella inevitabile distanza con Rosselli, quanto nel legame che la ripresa di quella formula ha con la stagione politica degli anni Novanta. Come noto, il crollo dei regimi marxisti prima, e la necessità di dare “padri nobili” e italici alla terza via blairiana poi, portò a scandagliare, all’interno del Pantheon del socialismo italiano, teorizzazioni non marxiste capaci di fare compiutamente i conti con le istanze della libertà e della democrazia. Era un’esigenza necessaria, che non ha dato, per mille motivi, i risultati sperati, soprattutto in termini di nuova elaborazione politica. E dunque, l’assenza di quella formula mi pare sia una spia dell’atteggiamento dei due autori al riguardo del dibattito di fine anni Novanta. L’accortezza lessicale e concettuale di Felice e Provenzano deriva cioè dalla volontà di smarcarsi da quella stagione della politica occidentale, in cui vennero compiute scelte poco felici a vederne gli esiti attuali (ma scelte in cui a ben vedere l’opzione socialista liberale propriamente detta c’entrava ben poco). Innanzitutto la sottovalutazione della globalizzazione, l’infatuazione ingenua per alcuni meccanismi di mercato e il progressivo disimpegno dalla possibilità di governare alcuni fenomeni, in primis la lotta alle disuguaglianze.
Liberali e comunitaristi
A sua volta, per ritrovare un cammino del liberalismo diverso da quello sfociato nel neoliberismo, ci si imbatte in una prima difficoltà: la definizione appunto di neoliberismo, che è, come noto, un’opzione ideologica con tanti critici e pochi padri, usata dai primi e ripudiata dai secondi. Un’opzione che è, per questo motivo, di dibattuta identificazione e di variabile estensione. Confesso un certo disorientamento nel coglierne il nocciolo e più modestamente mi attengo a una distinzione un po’ datata ma a mio avviso utile: quella tra il liberalismo dei diritti, basato sull’autonomia dell’individuo e le sue legittime aspirazioni, e il liberalismo del mercato, che pone l’attenzione sulla razionalità economica come motore della società. Tra essi c’è una contiguità, evidente ma non necessaria: forse si potrebbe utilmente tradurre l’idea di salvare il liberalismo da sé stesso nell’affermazione di voler salvare il liberalismo dei diritti dal liberalismo del mercato.
Ancora più utile però credo sia fare una “mossa del cavallo”, e provare non già a chiarire, ma a problematizzare socialismo e liberalismo attraverso la relazione con un’altra categoria, altrettanto generale e vischiosa: quella di comunitarismo. Mi spiego meglio. La faglia che vi è tra liberalismo (attento agli individui e ai diritti civili) e comunitarismo (che pone l’attenzione alle comunità e non considera credibile l’idea di un individuo slegato dalle proprie appartenenze) non è in Italia molto utilizzata per comprendere la politica, eppure è la categoria che da almeno un quarantennio è dibattuta nell’agenda della filosofia politica internazionale. È una faglia che – soprattutto nel momento in cui si sono assottigliate le differenze di modello economico – si è spesso sovrapposta alla classica dicotomia progressisti / conservatori e dunque (un dunque molto problematico) a quella sinistra / destra. Non si tratta di categorie a tutti gli effetti coincidenti, è chiaro. È accaduto però che il mondo liberal abbia assunto su di sé i connotati del progressismo e che le rivendicazioni comunitariste si siano presentate spesso e volentieri di pari passo con una diffusa nostalgia di strutture sociali e relazioni perdute, fonti di sicurezza psicologica e di concreta solidarietà: nostalgia da non stigmatizzare o rifiutare in toto, ma che certo tende a essere conservatrice.
I conti col comunitarismo
Esiste altresì un comunitarismo di sinistra, ed è una categoria in movimento che va in diverse direzioni. Comunità è una parola di Adriano Olivetti così come di Costanzo Preve. Del resto, i conti del socialismo con il comunitarismo non sono mai stati lineari; e non lo sono soprattutto se si considera, come fa l’articolo, il socialismo come il movimento che può inverare il liberalismo classico. Opzione legittima, tanto che Jean Jaurès sosteneva che «il socialismo è l’individualismo logico e completo»; legittima, ma complessa, visto che le correnti maggioritarie del socialismo internazionale sono state invece caratterizzate da un anti-individualismo di fondo, a cui si legava una diffidenza verso l’esaltazione di diritti astratti dell’uomo.
Ma non si tratta (solo) di una questione di genealogie filosofiche. In molti luoghi, l’egemonia del PCI era un’egemonia ideologica, ma anche, nei fatti, genericamente comunitarista, fatta di appartenenza e di forti legami di comunità, che si facevano ancora più forti quando attraversavano il sindacato, le cooperative, il partito, e gli stessi momenti di socialità (l’ARCI). Così, pure, è stato comunitarista il cattolicesimo sociale. Quando la sinistra ha smesso di essere comunitarista – senza consapevolezza dei possibili contraccolpi – ha incrinato quell’egemonia. La progressiva identificazione della sinistra nella causa dell’individuo, in funzioni della difesa dei suoi diritti – che ha tante ragioni ed è stata comune a tutta la socialdemocrazia occidentale dell’ultimo ventennio – ha fatto perdere la dimensione della comunità. Forse questo può contribuire a spiegare la progressiva disaffezione nell’elettorato delle zone rosse, elemento che viene troppo spesso messo in secondo piano rispetto ad altri, più volatili o di superficie. Da questa prospettiva, in ogni caso, la crescita di una forza altamente comunitarista come la Lega in luoghi storicamente di sinistra dovrebbe forse sorprendere meno.
Non è questa la sede per entrare in questo mare tumultuoso. È materiale complesso. E certo il comunitarismo è da maneggiare con cautela. Del resto, l’esplicita fascinazione marxista per versioni “forti” del comunitarismo è alla base di determinate tendenze attuali “rossobrune”. Eppure forme “aperte” e inclusive di comunitarismo si presentano come un buon elemento di confronto e di elaborazione politica per «socialisti e liberali in tempi nuovi». Una definizione “debole” e piuttosto generale di comunitarismo – che può forse essere adottata anche da una prospettiva liberale, capace di promuovere diritti civili e diritti sociali – è l’attenzione alla comunità come elemento basilare, sebbene non unico, della vita politica e della cittadinanza, tenuta insieme da legami diversi da quelli economici. Un comunitarismo che aiuti a promuovere e a rendere effettivi i diritti degli individui. È una definizione che può intrecciare anche diverse correnti solidaristiche e mutualistiche così come dare conto di quell’attenzione ai luoghi che risulta sempre più urgente per cogliere e risolvere il divario città / periferie. Ed è su questi aspetti che vorrei insistere.
La crisi, le risposte dal basso
Negli anni della crisi la sinistra si è disgregata. Se i partiti socialdemocratici hanno subito sconfitte epocali è anche vero che le proposte della sinistra radicale hanno avuto consenso davvero minimo. In Italia questo fenomeno è stato eclatante, e ha forse costituito anche un freno per ulteriori spostamenti a sinistra dei partiti di centro-sinistra. Sebbene con mille difficoltà, quello che però ha retto è il mondo dell’organizzazione dal basso, che ha fatto fronte da tanti punti di vista: il fenomeno delle fabbriche recuperate, la gestione di spazi per forme di welfare autorganizzato, le lotte contro il caporalato e per la casa sono alcuni esempi. Si tratta certo di un mondo variegato, con ombre e luci, ingenuità e ambiguità, e che però risponde a problemi concreti, trovandosi in prima linea davanti ai vuoti lasciati dallo Stato che arranca. I mutamenti della società occidentale hanno portato a molte zone d’ombra, troppe situazioni di effettivo apartheid nella fruizione dei diritti. Per dirla con una battuta: i centri sociali degli anni della crisi si sono trovati a non fare più concerti, ma a offrire assistenza sanitaria per i sans-papiers e asili nido per i precari. E così, ancor di più, l’associazionismo laico e religioso ha sopperito a carenze della politica, con battaglie per rendere effettivo l’universalismo dei diritti, civili e sociali – battaglie che si fa fatica a non definire liberali in senso classico. Quel mondo è stato spesso lasciato solo. Ed è un mondo che ha per troppo tempo identificato il centro-sinistra nella migliore delle ipotesi come un falso amico, e non raramente come il primo nemico. Ecco, per sfuggire alle astrattezze delle definizioni di socialismo e liberalismo, per trovare un collante tra giustizia sociale e diritti dell’individuo, rafforzare – assieme ai corpi intermedi intesi in senso classico – quelle forme di «diaframma umano tra individuo e Stato» come le definiva Adriano Olivetti, può essere una soluzione.
Le sfide
Non è questo ovviamente l’unico aspetto che può rendere più ricco il dialogo tra tradizioni politiche: è un tassello dal basso che va tenuto presente, e che va certamente integrato da un pensiero strategico e da un orizzonte per il futuro. Ambiente, governance delle istituzioni sovranazionali, direzione del mutamento tecnologico sono una triade fondamentale di sfide perché un nuovo socialismo e nuovo liberalismo possano incontrarsi su basi effettive. Su questo, sia al di fuori che all’interno delle cornici ideologiche, c’è molto spazio di lavoro, molta attesa di risposta, molte future occasioni di dialogo.
Ma intanto come viatico e chiosa al nostro dibattito si possono riproporre le schematiche conclusioni di Socialismo liberale di Rosselli, la cui parola viva rimane più forte delle successive riprese di rito:
VI. Che il socialismo, in quanto alfiere dinamico della classe più numerosa, misera, oppressa, è l’erede del liberalismo.
VII. Che la libertà, presupposto della vita morale così del singolo come delle collettività, è il più efficace mezzo e l’ultimo fine del socialismo.
X. Che il socialismo non si decreta dall’alto, ma si costruisce tutti i giorni dal basso, nelle coscienze, nei sindacati, nella cultura.
XI. Che ha bisogno di idee poche e chiare, di gente nuova, di amore ai problemi concreti.