“Infocrazia” di Byung-Chul Han
- 04 Luglio 2023

“Infocrazia” di Byung-Chul Han

Recensione a: Byung-Chul Han, Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete, traduzione di Federica Buongiorno, Einaudi, Torino 2023, pp. 88, 12.50 euro (scheda libro)

Scritto da Matteo Migliori

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Tragicamente vero, tragicamente attuale. La folla degli iloti devoti del nuovo Zeus può essere salvata. La conoscenza permette di poter aprire gli occhi, di resistere a questo cielo cianotico, la cui pioggia attenta e controlla, affogando le città in pozze di melma digitale. L’ultima fatica di Byung-Chul Han, noto filosofo sudcoreano e docente di Filosofia e studi culturali all’Universität der Künste di Berlino, si presenta come uno di quei piccoli libri che costituiscono preziose miniere di molteplici riflessioni da custodire. Edito da Einaudi, il libro di Han – curato nella traduzione italiana dal preciso lavoro di Federica Buongiorno – mira ad arrivare facilmente, con una forma così snella ma densa di valore, anche a quel lettore che sembra intrappolato all’interno del regime dell’informazione, disabituato alle narrazioni e imperniato sull’attuale. Han ammonisce tutti su quello che sta accadendo: «Oggi si sta diffondendo un nuovo nichilismo» che «nasce nel momento in cui perdiamo fede nella verità stessa. […] L’informazione circola ormai completamente scollegata dalla realtà in uno spazio iperreale. Si perde la fiducia nella fattualità. Viviamo in un universo de-fatticizzato. In definitiva scompare, con le verità fattuali, il mondo comune a cui potremmo riferirci nelle nostre azioni» (p. 60).

Han critica, apertamente e con fare sprezzante, il dominio neoliberista[1] e il regime capitalista attuale, colpevoli dello sconquassamento delle vite di tutti noi. Ma nel nuovo vortice nichilista, la sua critica va oltre, proprio come la grandezza del mostro che la cultura capitalista ha portato a galla dalle profondità di un oscuro oceano. È l’epoca dell’Infocrazia, ossia «quella forma di dominio nella quale l’informazione e la sua diffusione determinano in maniera decisiva, attraverso algoritmi e Intelligenza Artificiale, i processi sociali, economici e politici» (p. 3). Nel regime disciplinare, tratteggiato in questo stravagante e minaccioso mondo digitale, gli esseri umani sono addestrati a diventare semplicemente bestie da lavoro. Il soggetto sottomesso nel regime dell’informazione non è docile né ossequente[2], piuttosto si crede libero, autentico e creativo: «Il telefono portatile come apparato di sorveglianza e sottomissione sfrutta la libertà e la comunicazione. […] Il dominio si compie nel momento in cui libertà e sorveglianza coincidono» (p. 7). In effetti, sottolinea il filosofo sudcoreano, la libertà è guidata completamente a livello inconscio. Le strutture dei social media, che dominano ogni istante della nostra vita, vengono sviluppate in base all’architettura cognitiva umana, riuscendo così a direzionare in modo spaventosamente pervasivo le nostre scelte. Gli stessi influencer, saliti alla ribalta – nel bene e nel male – come protagonisti della sfera lavorativa più esposta in questo nuovo mondo, hanno interiorizzato la stessa struttura pervasiva dell’infocrazia che, con largo respiro, caratterizza tragicamente tutti noi: «Nel regime dell’informazione essere liberi non significa agire, ma cliccare, mettere like e postare» (p. 12). Come se fossimo nel romanzo distopico Noi di Evgenij Zamjatin, il regime dell’informazione è dominato dalla politica della visibilità, della trasparenza, che, in perfetta contraddizione con il più classico dei principi liberali – a fondamento assoluto del capitalismo – quale quello della privacy, costituisce in realtà l’elemento sistemico coercitivo per eccellenza dei giorni attuali. Ma siamo tutti noi a mettere in mostra le nostre vite, dimenticando totalmente ogni elemento – spesso tanto vituperato – di riservatezza. E così saliamo sul palcoscenico, indossiamo ogni giorno una differente maschera e tradiamo ogni briciolo di etica possibile. Il genere umano è ormai abbattuto da una pioggia perversa, efferata, dove ogni goccia è una webcam, riflesso di un immenso panopticon[3].

Han denuncia, muovendosi con lucidità e personalità anche su piani disciplinari trasversali, i rischi a cui sono esposti l’agire comunicativo, la razionalità discorsiva e l’impianto democratico del mondo finora vissuto. Nell’infocrazia, la democrazia, che nasce con una cultura del libro – medium che ha plasmato tutta la società umana, in particolare nel periodo illuminista – che ha portato il discorso politico in un impianto narrativo e razionale, è minacciata proprio nei suoi piani basilari. Oggi i mass media distruggono il discorso politico democratico tradizionale, il quale cerca in tutti i modi di resistere alle spinte dominate da elementi emotivi e brutali. Una resistenza improba, perché è già iniziato l’avvento di una mediocrazia che è al tempo stesso una teatrocrazia: «La politica si esaurisce in messe in scena massmediali. Nella fase massima della mediocrazia l’attore Ronald Regan viene eletto presidente degli Stati Uniti d’America. Nei dibattiti televisivi tra contendenti non sono più gli argomenti a valere, ma la performance» (p. 21).

L’infocrazia compromette i presupposti fondamentali della realtà stessa: cambia completamente il rapporto che gli esseri umani intrattengono con il tempo. Le informazioni hanno un ristretto margine d’attualità, «atomizzano il tempo, che decade a mera successione del presente puntuale» (p. 25), mentre le istituzioni che noi tutti siamo stati abituati a vivere e conoscere si erodono completamente – compresa la stessa democrazia –, a testimoniare un periodo culturale oramai totalmente tramontato. In una società che va così veloce, un sistema politico democratico è inattuale, perché troppo lento e prolisso. I cittadini non sono più sensibilizzati su tematiche importanti, dato che costituiscono oggi semplicemente bacini elettorali da prosciugare a garanzia del potere politico. Il discorso politico, riducendosi a tumulti tribali, è privo di coerenza logica, nel totale silenzio generale di un pubblico travolto dalla diffusione virale di informazioni – infodemia – utilizzate come vere e proprie armi, e che vivono in un loro tempo e spazio specifico.

L’attuale crisi dell’agire comunicativo, continua Han, è mossa da logiche individualistico-identitarie, che si riversano anche in certi scenari politici conservatori-reazionari, che portano alla completa dissoluzione del concetto di alterità. Come ha sostenuto lo stesso filosofo sudcoreano in altra sede[4], la mancanza di confronto si esplica anche in una sfera più esistenziale, testimoniando, inesorabilmente, la scomparsa della capacità di relazionarsi con gli altri e di dedicarsi alla cura dell’altro. Venuta meno la logica discorsiva-razionale propria dell’Illuminismo, gli esseri umani «si attengono spasmodicamente alla propria opinione, perché altrimenti si sentirebbero minacciati nella loro identità. […] La crisi della democrazia è in primo luogo una crisi dell’ascolto» (p. 39). Domina la logica privatista neoliberale, in un regime dell’informazione dove si assiste drammaticamente ad una comunicazione senza comunità, che avviene soltanto nella sfera privata e non in quella pubblica, privandola quindi di ogni azione politica. La comunicazione viene infatti concepita come frammentata in tante bolle isolate, che si riempiono soltanto di informazioni di mio gradimento, che gli algoritmi che operano in Internet elaborano appositamente per colui che usufruisce del servizio. In questo nebbioso crogiuolo, a poco a poco il soggetto si assopisce, chiuso in una propria bolla che difficilmente entra in contatto con le altre – anche perché altrimenti scoppierebbe tragicamente! Alla fine, nel regime dell’informazione si vanno a creare vere e proprio tribù digitali, che conducono a una dittatura dell’opinione dell’identità, completamente prive di una qualche razionalità comunicativa: «Oggi la comunicazione diventa sempre meno discorsiva, con la società che si dissolve in identità inconciliabili, prive di alterità. Al posto del discorso troviamo una guerra dell’identità. La società perde così ogni elemento comunitario, anzi ogni senso civico. Non prestiamo più ascolto reciproco, […] ascoltiamo soltanto noi stessi» (pp. 45-46).

Il tramonto della dimensione politica vedrà allora l’avvento di un nuovo sistema di governo, che, coerentemente con l’impianto neoliberista, sosterrà politiche manageriali basate sui dati, con l’infocrazia che si imporrà come forma di post-democrazia digitale. Si assisterà ad una vera e propria tecnocrazia, guidata da esperti e informatici che amministreranno il mondo senza ideologia, mossi soltanto da algoritmi che promettono «l’ottimizzazione del sistema sociale e, anzi, la felicità di tutti» (p. 53). Nel regime dell’informazione che getta gli esseri umani in un nuovo vortice nichilista in cui gli stessi producono e performano in “regime di libertà”, i mass media digitali aboliscono proprio la solidità dell’essere. Come sostiene d’altronde lo stesso Han, «le informazioni, da sole, non spiegano il mondo» (p. 69). Per il filosofo sudcoreano, accanto alla società della stanchezza[5], oggi la digitalizzazione conduce ad una generale sfiducia dell’uomo, perché la stessa dimensione digitale è diametralmente opposta alla fatticità. Richiamando la figura dell’illustre mito della caverna di Platone, Han si chiede allora, volgendo al termine la riflessione, quanto noi tutti siamo davvero consapevoli di questa caverna digitale che ha inglobato completamente ogni cosa. Ma se le cose stanno davvero così, non c’è un esterno rispetto alla caverna digitale. La luce che pensiamo di vedere è solamente quella del nostro schermo digitale, dunque artificiale, priva di ogni verità.

Nello scenario dai contorni di angoscia distopica dei più grandi romanzi del genere, il vero problema dell’Infocrazia di Han è la dura verità delle sue descrizioni. Quella fanta-sociologia-politica frutto della penna di grandi autori quali Orwell, Young o Huxley – solo per nominarne alcuni –, ambientata sempre così distante nel tempo, sembra essere arrivata in uno stadio tragicamente attuale, senza del resto generare alcuna sorpresa. Infocrazia è una lucida analisi che rappresenta quel momento di studio fortemente doloroso ma strettamente necessario – asserisce con ardore il filosofo sudcoreano – per comprendere, in profondità, la condizione attuale dell’uomo e resistere, con tutte le forze possibili, ad un essere umano che non riesce nemmeno realmente a morire, perché «si dissolve in una misera serie di dati» (p. 58).


[1] Per una chiara genesi, in una prospettiva soprattutto storico-economica, si veda Marco D’Eramo – Dominio: l’ascesa del neoliberismo, Videopodcast dei Dialoghi di Pandora Rivista – episodio 10, prima stagione.

[2] La connessione e l’informazione costituiscono una nuova forma di controllo sociale. Inaugurano il decisivo superamento del regime disciplinare teorizzato da Foucault. In tal senso, si veda Byung-Chul Han, Psicopolitica, Nottetempo, Milano 2016.

[3] Progetto di un carcere ideale teorizzato, sul finire del XVIII secolo, dal filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham. L’immagine è divenuta celebre soprattutto per le analisi di Foucault, che assocerà il panopticon al modello e alla figura del potere nella società contemporanea, segnatamente all’architettura del regime disciplinare. Sul punto si veda, Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 2014.

[4] Si veda, Byung-Chul Han, Eros in agonia, Nottetempo, Milano 2019.

[5] Si veda, Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Roma 2020.

Scritto da
Matteo Migliori

Dottorando in Filosofia del diritto presso Università Federico II di Napoli. In precedenza ha conseguito la laurea magistrale in Giurisprudenza presso l’Università di Bologna.

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