“Intellettuali. Cultura e politica tra fascismo e antifascismo” di Angelo Ventura
- 29 Luglio 2017

“Intellettuali. Cultura e politica tra fascismo e antifascismo” di Angelo Ventura

Recensione a: Angelo Ventura, Intellettuali. Cultura e politica tra fascismo e antifascismo, Roma, Donzelli, 2017, pp. 220, 27 euro (scheda libro)

Scritto da Enrico Fantini

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La raccolta postuma di Angelo Ventura è molto utile alla formazione dello storico di professione. Lo invita a diffidare di una serie di categorie troppo lasche per definire il rapporto tra intellettuali e fascismo come i concetti di “consenso”, “nicodemismo” o l’opposizione secca collaborazione versus astensione; propone una datazione più bassa (il 1942!) per la fase di distacco delle classi colte (solitamente posta nella stagione di massima radicalizzazione politica, attorno al ‘38); descrive con grande efficacia alcune pratiche con cui il regime cercava di limitare l’opposizione interna.

Esemplare in questo senso la parabola di Carlo Anti, rettore dell’università di Padova dal ’32 al ’43, che difende le prerogative corporative anteponendo le qualità scientifiche alla fedeltà ideologica: un modo di «coinvolgere il corpo accademico e guadagnare il consenso degli intellettuali», (p. 166).

Ma è un volume adatto anche al lettore colto, sensibile all’attualità politica. Vorrei riflettere con maggiore attenzione su questa seconda anima del testo, in particolare sull’atteggiamento di alcune figure di spicco del PSI appartenenti all’area moderata e progressista nella fase immediatamente precedente l’instaurazione del regime, in merito a due questioni di fondo: la precedenza accordata al percorso di riforma politica rispetto a quella sociale e l’ambiguità del rapporto con le forze liberali. Mi soffermerò dunque sui capitoli che riguardano Salvemini, Turati e Kuliscioff.

Uno dei tratti di maggiore frizione tra Salvemini e la galassia che gravitava nel movimento (massimalismo, sindacalismo rivoluzionario, radicalismo democratico) consisteva nella strategia politica: riteneva che l’Italia fosse un paese del tutto impreparato ad accogliere un movimento socialista vero e proprio, essenzialmente perché le frange proletarie che potevano costituire le basi per la lotta erano ridotte a piccole enclaves nel nord del Paese. Da qui discendevano due ordini di riflessioni.

Il primo in merito alla rappresentanza: il partito non può assumere come specola del proprio operato una esigua minoranza di lavoratori privilegiati, mentre le enormi masse sottoproletarie (ma anche i piccoli proprietari poveri) del meridione rimangono inascoltate; la seconda di ordine strategico: occorre sovraordinare la lotta per la riforma politica (riforma tributaria, lotta alla corruzione amministrativa e parlamentare, riforma doganale in senso antiprotezionista, suffragio universale), al lavoro sul fronte delle conquiste sociali (aumento dei salari, riduzione dell’orario di lavoro, legislazione sociale). Per fare questo Salvemini spingeva sull’alleanza tattica tra proletariato e borghesia industriale contro le forze della reazione «clerico-fondiaria-feudale».

Ventura nota giustamente la miopia di Salvemini nel descrivere le forze in campo: come avrebbe potuto una borghesia ancora debole e legata a doppio filo con la proprietà fondiaria allearsi col proletariato in una lotta antireazionaria? Le posizioni qui espresse risalgono al 1904, ma lo schema sembra traslato di sana pianta dagli esordi della Terza Repubblica francese. Come pure gran parte delle motivazioni che spiegano il primato della lotta politica si deducono in parte dalle tare del suo «concretismo» (una certa tendenza all’idiosincrasia e al pragmatismo troppo schiacciato sul presente), in parte sono conseguenza dell’incapacità di comprendere la direzione dello sviluppo industriale del Paese, cosa che, nei fatti, significava privilegiare un universalismo degli ultimi (magari spiegato come una crociata contro tutte le caste, persino quelle proletarie), contro un autentico punto di vista di classe. Insomma, Salvemini non coglieva che, in prospettiva, le conquiste sociali delle avanguardie operaie del Nord avrebbero avuto ricadute benefiche per tutto il proletariato italiano.

 

Il ruolo degli intellettuali socialisti

Solo pochi anni più tardi nella corrente riformista del PSI si riaffacciano le stesse questioni. Anna Kuliscioff ripropone la questione del compito del Partito Socialista in una fase di rivoluzione democratica come quella degli anni Dieci: provare l’isolamento e mantenere la coerenza rivoluzionaria o legarsi alle altre forze borghesi e progressiste?

È il «perenne problema dei compiti democratici del movimento operaio e socialista in assenza d’un forte schieramento borghese autenticamente democratico, e quindi la necessità di una scelta chiara e rigorosa in favore d’una alleanza con i partiti borghesi progressisti per attuare una linea di riforme sociali e politiche». (p. 51) Ma è anche ciò che condurrà all’esasperante doppiezza tattica del Partito: quando Bissolati si stacca dal PSI per fondare una corrente autonoma riformista (il futuro PSRI), Kuliscioff da un lato si mostra sollevata per la dipartita del fronte “moderatore”, dall’altro si dichiara certa che possa realizzare quella «democratizzazione dello Stato e di molte istituzioni, e indirettamente anche pel movimento proletario» (da una lettera a Turati datata 24 marzo 1911), (p. 47).

Stessa doppiezza si verifica anni più tardi quando aprirà al Partito Popolare nel ’19 e al movimento amendoliano Unione Nazionale, «sfogatoio di tutte le classi medie avanzate», (p. 53). Il leitmotiv di Kuliscioff era insomma quello di fare uscire allo scoperto il Partito, «di assumersi la responsabilità di attuare la linea dell’alleanza con i ceti medi democratici, sfidando i pregiudizi dottrinari e settari della maggioranza» (pp. 60-61).

La prospettiva è ovviamente far rifluire la lotta proletaria all’interno delle istituzioni democratiche, attraverso un loro allargamento in senso egualitario. Da qui la spinta verso una politica di collaborazione verso i gruppi nittiani e giolittiani oppure addirittura con i popolari. Il problema è costruire un partito capace di raccogliere consensi sia “del proletariato più evoluto che della piccola borghesia progressista”.

È però emblematico che la curvatura riformistica che vuole dare al PSI, con la presentazione di un dettagliato programma di governo economico (invero piuttosto avanzato) nel 1920, avvenisse proprio nella fase di massima radicalizzazione rivoluzionaria delle masse (p. 60). La stessa alleanza tattica con i liberali avviene in una fase di profonda evoluzione del quadro sociale: dopo la guerra di Libia la borghesia progressista e liberale cresce in forza e in ricchezza e si fa sempre più ostile nei confronti del crescente movimento operaio.

Gli stessi dirigenti del partito, Turati su tutti, vedevano perfettamente il vicolo cieco: «la strategia riformistica sarebbe stata inattuabile in una fase in cui una volta al potere ci si sarebbe dovuti far carico di scelte impopolari a nome della borghesia ma al contempo sollevandola da ogni responsabilità politica mentre le masse, aizzate da anarchici massimalisti e comunisti, premevano per la rivoluzione sociale», (p. 61).

 

Gli intellettuali e la strategia politica

Il liberalsocialismo è una posizione ideologica di opposizione al fascismo di gran lunga preferita al massimalismo e al comunismo, caratterizzata da alcuni tratti riconoscibili: il progressismo, il pragmatismo antidottrinario di derivazione illuminista e positivista, il principio inderogabile di separazione tra individuo e stato.

Ventura non nasconde la propria personale vicinanza al suo oggetto di studio, tuttavia nella sua analisi non oblitera le oggettive tare storiche. Limiti che fanno capo al ritardo culturale dei suoi leader riformisti, dei suoi intellettuali di punta. La precedenza accordata dal gruppo alla lotta di emancipazione politica è chiaramente influenzata dal razionalismo illuministico: l’assunto è che una volta che il proletariato conquistata l’accesso al gioco democratico le sue istanze, attraverso un processo razionale di equilibrio e conciliazione, si sarebbero tradotte naturalmente in riforme sociali.

Non facevano però i conti con gli oggettivi limiti di classe, cioè quei grumi di interessi che un gruppo di potere non è disposto a cedere. In fin dei conti una battaglia per l’estensione dei diritti doveva risultare meno divisiva di una lotta per le riforme sociali. La stessa ineliminabile doppiezza strategica, che si bilanciava nel tentativo di salvare la capra degli interessi del proletariato (presentandosi come unici rappresentanti legittimi) e i cavoli delle istituzioni democratiche liberali attraverso l’appoggio filogovernativo, si spiega negli stessi termini. In una stagione in cui tutti i gruppi sociali italiani si polarizzavano e in cui la forchetta tra i soggetti interessati dall’alleanza riformista (proletariato e borghesia industriale) imboccavano percorsi diametralmente opposti, il PSI (in particolare Salvemini e Kuliscioff ma ovviamente anche Bissolati e poi Amendola) sceglieva la strada del dialogo “dentro” le istituzioni liberali.

Ma in una fase in cui le istituzioni non reggono l’urto delle contraddizioni delle spinte corporative la ricomposizione politica deve ricorrere a istituzioni alternative, anche rischiando di rovesciare il tavolo. Lo stesso Trentin mostra bene nei suoi scritti sulle origini del fascismo l’incapacità delle istituzioni democratiche liberali a rappresentare le istanze contraddittorie dei vari gruppi di potere: l’interesse nazionale è sostituito dalle forze disgregatrici dei corporativismi (p. 97).

In un contesto simile l’universalismo astratto, la lotta superficiale al privilegio di casta (la stessa lotta imboccata da Salvemini contro le aristocrazie operaie del Nord) è un’arma spuntata e deve lasciare il posto alla rappresentanza secca di gruppi sociali ben definiti. Insomma, in questi intellettuali si evidenzia (e lo stesso Ventura implicitamente lo nota) un difetto di strategia politica di medio periodo: il pragmatismo, senza una visione strutturata, senza cultura politica, senza rappresentanza, diventa apologia dello status quo. Come rilevava giustamente Cosimo Fiori su questo sito, tutti vogliono la pace sociale e l’uguaglianza, bisogna solo capire quale.

Al di là della tentazione semplicistica di rintracciare ovunque analogie, il testo di Ventura illustra un dispositivo storico attuale. In una fase di virata a destra dei ceti medi, fino a dove può spingersi un partito di sinistra nello sforzo di rappresentarli? E quali sarebbero le conseguenze di un loro potenziale abbandono? E ancora: in una fase di polarizzazione sociale, i partiti-cartelli elettorali hanno ancora senso? Insomma, in una fase così delineata, la classica doppiezza della sinistra riformista potrebbe essere accantonata in favore della costruzione di un fronte largo, in cui un partito di ispirazione liberal progressista funga da catalizzatore dei ceti medi, da stabilizzatore democratico, aprendo spazi politici importanti a una sinistra più connotata quanto a rappresentanza e politiche sociali.

Scritto da
Enrico Fantini

Ha studiato Letteratura italiana all’Università di Siena (BA) e alla Scuola Normale Superiore di Pisa (MA, PHD). Attualmente è Wallace Fellow presso Villa I Tatti - Harvard University. Si occupa di letteratura, di storia delle idee, di politica.

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