Scritto da Matteo Giordano, Tommaso Sasso
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Questo contributo su Luciana Castellina fa parte delle interviste svolte da Matteo Giordano e Tommaso Sasso per Pandora Rivista. Il taglio delle interviste esclude domande di attualità per come viene generalmente intesa. Queste, incentrate sulle prospettive della sinistra, rimandano principalmente alla crisi della modernità in atto, allo scenario europeo e all’interpretazione degli esiti della pluridecennale egemonia neoconservatrice. A seconda dei casi, le domande vertono anche sulla biografia politica degli intervistati.
Nel 2011 è uscito un tuo libro, che si intitola La scoperta del mondo: un testo che mescola ricordi e brani del diario che tenesti dai 14 ai 18 anni. Vorremmo, in riferimento a tale periodo, che ci raccontassi di come è avvenuto il tuo incontro con il Pci e la militanza politica.
Luciana Castellina: L’incontro con il Pci è avvenuto in due modi. Come per molti altri fu un fatto anche occasionale, anche se penso che in un modo o nell’altro avrei comunque finito per incontrarlo. Il punto di partenza fu la guerra. Era finita il 25 aprile, e già il 4 di maggio c’erano manifestazioni che ne contestavano il risultato. Parlo di quelle per Trieste italiana (Trieste fu liberata molto più tardi perché gli alleati non volevano venisse liberata dai partigiani jugoslavi e i partigiani jugoslavi non volevano venisse liberata dagli alleati). Un inciso: in quell’occasione venne fuori anche il razzismo di parte dello stesso antifascismo, ricordo che uscirono dei volantini dal CLN di Trieste che dicevano “tornate dalle vostre vacche” ai partigiani sloveni. Tornando a noi, io nipote di nonno triestino, partecipai inconsapevolmente insieme ad altri studenti del Tasso a una manifestazione a Piazza Esedra (oggi Piazza della Repubblica, nda) per Trieste italiana. Non immaginavamo certo fosse una manifestazione organizzata dai fascisti. La piazza era piena di operai comunisti che ce le dettero di santa ragione, così ebbe luogo il mio primo contatto col Pci. Un certo capitano “penna nera”, il fascista che guidava la manifestazione, colse l’occasione per assaltare a mano armata la sede del Pci che allora era a Via Nazionale. A seguito del trambusto che ne derivò uscì dalla sede del partito un gruppo di dirigenti che fecero un comizio improvvisato. Io, malconcia, ascoltai il mio primo comizio comunista, dove si raccontava quello che i fascisti italiani avevano fatto agli sloveni: una pulizia etnica a tutti gli effetti. Mi incuriosii, e così mi avvicinai al circolo culturale del Tasso gestito dagli studenti comunisti, molti diventati poi intellettuali di primo livello anche nel mondo del cinema e dell’arte. Andai ad ascoltare, e naturalmente il circolo si proponeva di reclutare i ragazzi come me. Io volevo fare la pittrice e mi fu chiesto di tenere per il circolo una conferenza sul cubismo. Questo fu il mio primo rapporto col Pci, che diventò poi un rapporto con quello che allora era il Fronte della Gioventù, guidato da Enrico Berlinguer. Grazie a quella esperienza conobbi il mondo e prima ancora la mia città, di cui non sapevo quasi nulla. Attraverso le prime esperienze nelle borgate soprattutto, dove ebbi modo di conoscere ragazzi diversi da quelli che avevo sempre frequentato, di uscire dal ghetto del mio ceto e del mio quartiere borghese. Attraverso il fronte della gioventù, dicevo, ebbi la possibilità di vivere esperienze internazionali, grazie ai famosi festival della gioventù (il primo fu a Praga nel ‘47). Andai poi come volontaria in Jugoslavia a costruire la ferrovia che collegava la città di Samak a Sarajevo (quasi tutte le ferrovie erano state distrutte dalla guerra). Dovete tener conto a questo proposito che il fascismo ci aveva tenuti completamente chiusi dentro un orizzonte più che provinciale, ed è stato quindi il partito che mi ha salvato dalla stupidità e dall’ottusità, dandomi immediatamente una grande apertura e un più vasto orizzonte. E non solo attraverso esperienze come quelle che ho appena ricordato. Le sezioni in questo senso erano protagoniste. Ricordo che nelle sezioni delle borgate romane, dove andavamo tutte le sere, tutti i giovedì si faceva quella che veniva chiamata “la conversazione del giovedì”, in cui si cominciava a parlare a partire dalla situazione internazionale, per scendere poi a quella europea, poi a quella italiana, e poi a quella romana. Infine, parlavamo della fontanella rotta dietro l’angolo della strada o della linea mancante dell’autobus. Questo faceva sì che quando il sottoproletario parlava della fontanella, non si sentiva un disgraziato che parlava di quel dettaglio miserevole, ma si sentiva anche parte di un grande movimento internazionale che stava cambiando il mondo e che però poi si occupava anche della fontanella. Le sezioni romane di quel tempo erano qualcosa di straordinario: pensate che alla sola sezione “Centro”, allora sita in Via Tomacelli, aderivano cinquanta cellule. E per anni è stata diretta da un raffinato intellettuale, latinista famoso, Luca Canali. Questa cultura della visione del mondo, mai localistica ma generale, pur con tutti i suoi dogmatismi certo, beh questo è stato il fascino del Pci, senza il quale è difficile spiegare i suoi due milioni di iscritti.
Facciamo un salto temporale. All’XI congresso ti schierasti con Ingrao e fosti quindi allontanata da Botteghe Oscure. I giovani ingraiani di allora erano personaggi come Trentin, Pintor, Reichlin, Magri, tutte figure molto importanti per la tua biografia, politica e personale. Arriviamo così alla stagione del Manifesto, forse l’esperienza politica che più ti ha caratterizzata. Cosa pensi che più di altro abbia segnato e contraddistinto quella fase congressuale e, successivamente, la vicenda del Manifesto?
Luciana Castellina: La sostanza del conflitto tra amendoliani e ingraiani è stata resa spesso in modo molto distorto. Premetto che queste sensibilità erano sopite durante la segreteria Togliatti, che controllava ed egemonizzava l’una e l’altra. Alla morte di Togliatti le anime del partito emergono senza strutturarsi in correnti, perché a nessuno di noi sarebbe mai venuto in mente di farlo. C’erano però due modi di pensare, avevamo diverse letture. Di Ingrao si ricorda solo la battaglia per il diritto al dissenso. C’era anche la rivendicazione di maggiore dibattito, certamente, ma il nodo fu tutto politico: il confronto con il resto del partito, e Amendola in particolare, fu l’interpretazione della situazione italiana. Amendola sosteneva la necessità per il Paese di terminare la rivoluzione democratico-borghese e che dunque si trattava di adeguare l’Italia al resto dell’Occidente come primo passo, in altre parole di “normalizzare” l’Italia. Gli ingraiani consideravano l’Italia un Paese capitalistico ormai maturo, dove l’arretratezza del Meridione si intreccia con le nuove contraddizioni del capitalismo avanzato, che già allora stavano emergendo. Ponevamo i problemi di un nuovo modello di sviluppo, della nuova condizione del lavoro, della questione ecologica, aprimmo il dibattito sul consumismo. Da queste diverse analisi derivavano naturalmente due diverse strategie: “i mille rivoli di sviluppo” da parte amendoliana, e da parte ingraiana la necessità di pensare a un modello di sviluppo diverso e nuovo, perché non è vero, pensavamo, che la modernità è di per sé una buona cosa. Il nostro era un discorso di critica alla modernità, da cui conseguiva non già la necessità di modernizzare, ma di modificare, di incidere sulla realtà a partire dalle contraddizioni del capitalismo avanzato. Questo è stato lo scontro, che esplose all’XI congresso del Pci, nel 1966, ben più sostanzioso, come si vede, dal mero diritto al dissenso. Naturalmente tutto ciò determinò anche idee diverse circa il rapporto da tenere col partito socialista, allora già punta avanzata del discorso della modernizzazione capitalista, con cui Amendola propose addirittura l’unificazione. Tornando a noi: dopo l’XI congresso fummo allontanati tutti da Botteghe Oscure. Rossana Rossanda, che dirigeva la commissione culturale, fu mandata a fare il deputato (allora fare il deputato era quasi una punizione: era molto più importante la responsabilità di partito che non sedere in Parlamento). Ingrao fu mandato a fare il presidente del gruppo parlamentare, che allora era meno importante che far parte della segreteria del partito. Io fui chiamata da Napolitano il quale mi disse che ero accusata di prefrazionismo. Provarono a rimandarmi a Paese Sera: io risposi che piuttosto me ne andavo del tutto, e fu allora che intervenne direttamente Nilde Iotti, che si arrabbiò moltissimo per il fatto che si provasse ad allontanarmi senza neanche averla consultata, e protestò in direzione. Ottenne una mediazione che mi pregò di accettare: il mio ingresso nella presidenza dell’Udi (Unione Donne Italiane, nda). Avevano invece una tale paura di Lucio, che quando chiese di andare a fare il vice-segretario della federazione di Rovigo glielo impedirono perché Amendola la valutò una richiesta “troppo pericolosa per essere assecondata”. Luigi Pintor fu mandato a fare il vice-segretario regionale della Sardegna. Sorte simile toccò ad altri compagni, rimossi tra l’altro in gran parte dal comitato centrale. Nel 1968-69 lo scontro si acuì, perché emerse più forte di prima, con l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche, la questione del giudizio sull’URSS. Noi dicevamo che non si trattava soltanto di un errore, ma eravamo convinti che quella società non era ormai più riformabile. Il Pci non se la sentì di andare oltre una critica reticente: in parte per timore che la base non avrebbe condiviso una condanna più netta, in parte perché la destra del partito preferiva un mondo stabile, affidato al controllo delle due grandi potenze, piuttosto che i rischi di un movimento che, come quello del terzo mondo, premeva per liberarsi dal colonialismo e rimettere in discussione gli equilibri mondiali. La nostra richiesta di dar vita ad una rivista per esporre le nostre posizioni venne condannata. E quando, senza permesso, nel luglio del ‘69 facemmo Il Manifesto, venimmo radiati dal partito. Non tutti gli ingraiani condivisero la scelta, a cominciare da Ingrao, da Reichlin, da Trentin, da Garavini. Posso capirlo: diffidavano, con qualche ragione, delle nostre posizioni in quel momento forse troppo influenzate da un clima sessantottino vitale ma anche ingenuo. Ma, soprattutto bisogna tener conto che avevano tutti una collocazione nel partito ben più importante di quasi tutti noi e la loro rottura avrebbe avuto certamente conseguenze assai più drammatiche. Il ritardo del Pci nel riconoscere il fallimento dell’esperienza sovietica fu comunque, io credo, un grave errore: criticarla quando, come in quegli anni, la sinistra era all’offensiva e vincente nel mondo (grandi conquiste operaie, emergere della contestazione studentesca ovunque, liberazione dei popoli, vittoria del Vietnam) avrebbe assunto tutt’altro significato, un significato di sinistra. Dieci anni dopo, quando la controffensiva reazionaria batteva il pieno, risultò come il riconoscimento che il socialismo non si poteva fare. E coinvolse in parte il Pci stesso nel fallimento. E tuttavia quando penso a quella radiazione dal partito, io finisco per averne quasi “nostalgia”: si riunì due volte il comitato centrale, si riunì la commissione di controllo, il documento della nostra radiazione fu discusso nelle sezioni, fu insomma una cosa traumatica. Adesso invece puoi dire quel che vuoi senza conseguenze perché di quel che dici non importa nulla a nessuno. C’era stato allora un confronto serio, drammatico.
Nell’84 molti dei protagonisti di quella grande esperienza che era stata il gruppo del Manifesto rientrarono nel Pci, sciogliendo il Pdup. Tu entrasti nella direzione nazionale del partito. Cinque anni dopo, nell’89, ti schierasti contro la Bolognina, essendo tra i primi firmatari della “mozione 2”, contraria alla svolta. Spesso si tende a banalizzare le ragioni di coloro che optarono per quell’opzione, derubricata a un atto di fedeltà nostalgica verso la casa di una vita. Vorremmo ripercorrere, dal tuo punto di vista, le motivazioni di fondo di quella scelta.
Luciana Castellina: Intanto va chiarito che noi rientrammo nel Pci perché Berlinguer stesso ce lo venne a chiedere. Nel frattempo c’era stata, tra il ‘79 e l’80, quella che fu chiamata la “seconda svolta di Salerno”: alle elezioni del ‘79 il Pci aveva perso molti voti, ci fu la riflessione critica di Berlinguer sull’esperienza del compromesso storico. Tenete presente che Berlinguer, come è stato poi provato dalla desecretazione degli atti della direzione del Pci, era completamente in minoranza nel partito, perché era ormai fortissima l’ala cosiddetta migliorista, guidata da Napolitano, Macaluso e altri. Berlinguer era molto in difficoltà: viene oggi dipinto come un “bacchettone” buono sostanzialmente a richiamare la necessità di una politica più onesta. Berlinguer pose invece il tema della crisi della democrazia italiana, della degenerazione del sistema dei partiti, dell’austerità come approccio alla tematica ecologista. Era anche, la sua, una presa di distanze molto netta dal craxismo imperante. Tornando a noi, lui venne al nostro congresso del Pdup a Milano e ci chiese di tornare. Eravamo un piccolissimo partito ma avevamo qualche migliaio di quadri di valore. Lui morì due mesi dopo, noi tornammo e trovammo un partito che non era più quello che avevamo lasciato quindici anni prima. C’era già una tendenza, una modificazione profonda, un prevalere del potere locale, il venir meno della presenza dei territori nel dibattito, insomma era già un’altra cosa. Arriviamo ora alla Bolognina. Sebbene ci fossero molti sintomi in quel senso, per la verità non se l’aspettava nessuno. Fu un fulmine a ciel sereno. Io ricordo che ero in Grecia per un seminario, tornai la mattina dopo, nel giorno della direzione. Andai direttamente dall’aeroporto a Botteghe Oscure, figuratevi che Ingrao era in Spagna. Era una direzione in cui non sedevano ormai più molti dei vecchi compagni, pensate che non ne faceva parte neppure Ingrao. Con Occhetto era entrata a farne parte la generazione più giovane. Ci furono solo tre voti contrari: il mio, quello di Lucio Magri e quello di Gian Mario Cazzaniga, docente di filosofia a Pisa e legato a Cossutta. “Il nome della cosa” è la denominazione della relazione che fece Lucio ad Arco di Trento. Fu l’ultima riunione dell’area che si opponeva allo scioglimento del Pci prima dell’ultimo Congresso (come sapete di congressi ce ne furono due, uno a Bologna e un altro a Rimini. A Bologna si avevano ancora più mozioni: la nostra, una di Cossutta, una di Bassolino e una delle donne. Le basi della mozione numero due alla Bolognina le conoscete: “non è questione di nome, ma è questione di sostanza”; “nessuno è animato da spirito di conservazione, ma oggi le contraddizioni del capitalismo hanno anche più bisogno di un progetto alternativo di quanto non ne avessero anni prima, perché si sono acutizzate, ampliandosi”. Quindi era una base molto innovativa (Facemmo non a caso non poca fatica a farla digerire ai cossuttiani). Ad Arco di Trento emersero quelli che furono chiamati i “due comunque”: Ingrao disse (tenete conto di un dato che non viene mai citato, cioè che tra un congresso e l’altro non rinnovarono la tessera circa 800.000 iscritti): “io comunque non me ne vado, resto nel gorgo”. Cossutta disse invece: “io comunque me ne vado”. Noi restammo per via di Ingrao, ma da lì a poco la permanenza divenne insostenibile. Ce ne andammo silenziosamente, i più giovani dei nostri compagni entrarono in gran parte in Rifondazione. (Luciana ci mostra una foto della mozione 2: ci indica i volti di Angius, Chiarante, Natta, Ingrao, Tortorella, Zuffa e di sé medesima).
Adesso veniamo a una domanda di fase, che rientra tra quelle “standard” di questo ciclo di interviste. La crisi che viviamo, avanti tutto di civiltà, ha in qualche misura svelato la reale natura di una dottrina ideologica, quella neoliberale, ai cui assunti di fondo la sinistra, in particolare quella europea, è stata subalterna culturalmente prima ancora che politicamente. Cosa ritieni ci sia stato alla base di questo pressoché totale appiattimento? Come si spiega il suo deficit di autonomia intellettuale, la sua incapacità di articolare una lettura propria della storia recente, la limitatezza della sua proposta politica?
Luciana Castellina: Intanto va sottolineato che gli stessi sbandamenti ci sono stati anche là dove la tradizione non era stata comunista ma socialdemocratica. Direi che le ragioni sono molte. La prima, specifica, penso sia stata una sconfitta da parte della sinistra, una sconfitta molto dura. Il passaggio, il cambiamento, avviene negli anni Settanta. Possiamo anche individuare una data, il ‘73. Ci fu la decisione di porre fine alla convertibilità del dollaro in oro, che conferì pieno arbitrio agli Stati Uniti nella direzione dell’economia mondiale e l’inizio di una svolta: l’inizio della lunga crisi che va ancora avanti seppur in modo diverso e più acuto e della controffensiva dichiarata da parte dei conservatori. Tale controffensiva fu esplicita: nessuno ricorda che nel ‘73 nasce la famosa Trilateral Commission (i rappresentanti dei poteri forti degli Stati Uniti, del Giappone e dell’Europa: l’ “Occidente”), il cui rapporto afferma che c’è troppa democrazia perché il sistema capitalistico possa sostenerla. Gli anni Sessanta erano stati anni di grande avanzata delle rivendicazioni operaie, al di là anche delle caricature che si danno oggi del ‘68. I forti annunciarono che non l’avrebbero più permesso. In quel documento c’è scritto addirittura che l’economia è una cosa troppo complessa perché se ne occupino i parlamenti. Non è cosa, insomma, che può riguardare la politica. Intanto era saltato Bretton Woods (che non era certo esattamente il sistema che avrebbe voluto Keynes, ma svolgeva la sua funzione), cominciano poi il reaganismo, il thatcherismo e la globalizzazione. Che non fu internazionalizzazione ma, potemmo dire, privatizzazione del potere decisionale e dunque marginalizzazione della politica, svuotamento del ruolo dei parlamenti. La vera privatizzazione che avviene infatti non è tanto quella delle ferrovie o della centrale del latte, ma è appunto quella del potere legislativo. Il potere decisionale diventa in gran parte frutto di accordi fra poteri finanziari; ai parlamenti non rimane che un potere di mera ratifica locale. La sinistra, che ha alle spalle il fallimento dell’Unione Sovietica, che non investe solo i comunisti ma anche la socialdemocrazia, che anche grazie al timore che l’Urss incuteva è riuscita a raggiungere un compromesso sociale di alto livello, assiste quasi passivamente agli eventi. Tutto questo travolge anche la politica, ormai svuotata. La gente non se ne occupa più, ma come dar loro torto? Il campo di applicazione del potere deliberativo attraverso il parlamento è talmente limitato, talmente ridotto, da indurre la cittadinanza a ritirarsi dall’impegno politico. Essa non sente più che la politica è un elemento importantissimo per cambiare le cose, per incidere sulle decisioni. Questo ha prodotto una crisi della democrazia che io credo sia un elemento fondamentale del nostro discorso. Penso infatti che la crisi della sinistra sia una conseguenza della crisi della democrazia, anche perché è la sinistra ad aver bisogno della politica, gli altri hanno anche altri strumenti e poteri. In Italia c’è un aggravante, una situazione particolare, in quanto l’Italia ha sempre avuto uno Stato fragile. Il declino dei partiti ad esempio c’è stato ovunque, in Italia però i partiti erano gli agenti che avevano dato legittimità allo Stato nel dopoguerra. Essi avevano dato il senso della responsabilità collettiva e segnato le istituzioni democratiche. Quando i partiti di un tempo vengono meno, il contraccolpo per la solidità dello Stato è, come abbiamo visto, fortissimo.
Hai trascorso una parte importante del tuo impegno politico tra i banchi del parlamento europeo, e hai così seguito da vicino il processo di integrazione comunitaria. Quale pensi sia stato e debba essere il ruolo della sinistra in tal senso? E, discostandoci un poco dalla domanda, come giudichi le esperienze in via di sviluppo in seno al GUE, in particolare Syriza?
Luciana Castellina: Innanzitutto va detto che la cosa più grave fatta dalla sinistra è non avere mai creduto realmente all’Europa. È una cosa sconcertante quello che è avvenuto. La sinistra, non solo il Pci ma anche la socialdemocrazia, è stata contraria all’Unione Europea, almeno sino agli anni Cinquanta. A un certo momento si convertono tutti sulla via dell’integrazione. Ma se andiamo a vedere le cose hanno cessato di fare politica a livello europeo. Hanno subito tutto quello che ha imposto una burocrazia europea molto fortemente legata ad altri poteri. Non da ultimo il Trattato di Maastricht, in cui c’è scritto già nel primo articolo che la sinistra non può vincere. C’è scritto infatti che l’Unione è fondata sulla competitività. Se affermi questo affermi la centralità di sistema del mercato, e in qualche modo rinunzi alle tue ragioni d’essere. Fu un suicidio collettivo. Nel partito divenne proibito criticare l’Unione, passando dal no totale a “chiunque fa un discorso critico è contro l’Europa”. Il povero Delors, quando furono poste le tre condizioni del rigore, propose di inserire un quarto criterio, ovvero la disoccupazione giovanile e prolungata come indice della non-validità dell’andamento dell’economia. Questa proposta è stata lasciata completamente cadere e non è stata sostenuta praticamente da nessuno. Quando si è deciso l’obiettivo della liberalizzazione dei movimenti dei capitali, c’erano al governo quasi tutti presidenti e primi ministri socialisti. Liberalizzare i movimenti di capitali senza contemporaneamente chiedere che ci fosse un comune regime fiscale e uno spazio sociale comune fu una follia. Io non ricordo che nel parlamento italiano e nel nostro dibattito pubblico se ne sia mai parlato. La sinistra ha in altre parole abdicato al suo ruolo. Ricordo sempre che quando fu preparato il trattato di Maastricht, la corte costituzionale tedesca con la famosa sentenza Grimm giudicò Maastricht incompatibile con la Costituzione tedesca. Certo, poi aggiustarono le cose e la sentenza venne aggirata, ma le motivazioni date dalla corte tedesca erano sacrosante. Cosa è che rende tale una democrazia, si chiedevano i giudici? Il fatto che esista un corposo spazio tra la cittadinanza e gli organi esecutivi, colmato da formazioni intermedie (sindacati, partiti, media, associazioni ecc.). È impensabile un sistema in cui vi sono solo cittadini e potere centrale. Organismi di questo tipo realmente europei non ci sono, o sono solo etichette. Nell’Unione non esiste alcun tipo di opinione pubblica davvero europea, ma solo frammentata, nazionale. Basta guardare i giornali. Nella mia lunga esperienza al parlamento europeo ho fatto di tutto affinché almeno i grandi giornali europei facessero un inserto comune una volta alla settimana per creare un idem sentire. Guardate a la Repubblica: nelle sue colonne la parola “Europa” ricorre ogni 5 battute, eppure ha l’inserto del New York Times. Quanto a sindacati comuni: c’è un bell’ufficio a Bruxelles, certo, ma a malapena si sentono al telefono. I partiti sono inesistenti: la dialettica interna allo stesso Pse è quella che è… Non a caso Willy Brandt definiva il partito socialista europeo un luogo buono per andarvi a leggere i propri quotidiani in tranquillità. Non è mai stato costruito tutto questo. Ora, quando si dice “democratizzare l’Europa” non conta certo assegnare piccoli margini di autonomia politica e di potere in più al parlamento europeo, il problema è che l’esecutivo che risponde al parlamento è composto da membri che rispondono ognuno alla propria opinione pubblica, settoriale. Non può quindi costruirsi un peso dell’opinione pubblica europea, che più frantumata non potrebbe essere. L’unico contributo a costruire la società civile europea come garanzia di democraticità l’ha dato il movimento della pace negli anni Ottanta, grazie a cui ci si è conosciuti, ci si è parlati, si sono confrontate diverse culture. Poi i forum sociali europei e gli erasmus, che però toccano un’élite. La sinistra europea ha avuto, purtroppo, un modo di agire provinciale. Ai greci guardo con ammirazione. Syriza ha in qualche modo riacceso un dibattito sulla politica europea. Forse non riusciranno a realizzare quel che hanno in mente, ma perlomeno si ridiscute se la politica europea debba essere l’una o l’altra, cosa che sostanzialmente non è mai avvenuta. Su questo effettivamente si è iniziato a ragionare (seminari, convegni, incontri, in cui si ridiscute la politica europea). Tornando al Pse bisogna tenere conto che vi è grande eterogeneità, le differenze sono immense e quindi a Strasburgo sono sempre state possibili, anche nei vent’anni che ci ho passato io, alleanze trasversali che scompaginano gli schemi. Quanto al Gue, fino a qualche anno fa è stato paralizzato dalle diversità delle sue componenti: partiti comunisti dogmatici e antieuropei, e partiti europeisti e rinnovati. Con le ultime elezioni e l’ingresso massiccio di Syriza e di Podemos, che si accompagnano a una significativa presenza della Linke tedesca, dei portoghesi e degli scandinavi, il ruolo del gruppo si à molto rafforzato. E poi ci sono i tre deputati italiani eletti con la lista Tsipras.
Nel corso della tua esperienza politica hai vissuto sulla tua pelle il contrasto, andato via via sempre più accentuandosi, tra una sinistra riformista e potenzialmente di governo, e una sinistra cosiddetta “radicale”. La prima spesso schiacciata su un realismo politico che ne lede la ragion d’essere, la seconda spesso auto-confinata nell’alveo delle forze protestatarie e di testimonianza. Parlavamo prima di Syriza, che potremmo forse definire una sintesi interessante. Dove vanno cercati gli elementi di contatto tra le due sinistre? Pensi sia individuabile un terreno di lotta comune dove l’una possa inverare i limiti dell’altra?
Luciana Castellina: Questa è una divisione che viene da lontano. Premetto che fin dal ‘68 la nuova sinistra non è stata mai omogenea. Noi aspiravamo ad esempio a portare nel Pci e nel sindacato un nuovo modo di pensare mentre molti gruppi avevano invece un ruolo meramente protestatario. Noi non consideravamo i partiti della sinistra tradizionale i nemici principali, ma puntavamo a una rifondazione complessiva. Non è stata una differenza di poco. Ad ogni modo la linea di frattura tra quelle che chiamate le due sinistre è sul tema del governo. C’è stato un bel convegno della Rosa Luxembourg pochi anni fa che ha discusso appunto della “sinistra alle prese con il problema del governo”. Non è solo un problema italiano, ma di tutti i Paesi europei: viviamo un paradosso in cui se voti e se accetti di sostenere un governo di centrosinistra vieni accusato di sostenere forzatamente qualcosa che non condividi, essendo tra l’altro troppo piccolo per avere una reale capacità di influenza. Se non lo appoggi vieni accusato di aver contribuito al successo della destra. Questa è la storia degli ultimi vent’anni della sinistra in Europa. E guardate, questa è una questione che riguarda anche la sinistra non estrema. Il primo labourista che andò al governo negli anni Trenta dichiarò: “Credevo che la cosa peggiore fosse stare sempre all’opposizione, adesso ho scoperto che la cosa peggiore è essere al governo e non potere fare niente”. Nemmeno le più recenti e fortunate formazioni politiche sono indenni da questo dilemma: è di questi giorni la notizia che il braccio destro di Iglesias alla testa di Podemos, ha dato le dimissioni perché critica quella che lui ritiene uno scivolamento del movimento verso il compromesso. Ritengo pensi all’apertura di Podemos ad un’alleanza in Andalusia con il Psoe. All’origine di questi problemi c’è il distacco della gente dalla politica, la diffidenza verso le istituzioni. Passaggi difficili come quelli oggi necessari non si possono fare senza un’attiva partecipazione dei cittadini, senza costruire condivisione. Se non c’è è fatale che si creino questo tipo di problemi. È sempre il problema della riattivazione di una democrazia reale. Sapete, ne ho abbastanza di sentir dire continuamente “i diritti, i diritti, i diritti”. Non è vero che la democrazia consiste soltanto nei diritti, consiste anche nell’esistenza di uno spazio deliberativo. Si tratta quindi di costruire uno spazio in cui si possa contribuire alla determinazione della politica. Questo avveniva in qualche modo con i grandi partiti politici di massa, che erano un formidabile canale di comunicazione tra il cittadino e le istituzioni. Erano spazi di deliberazione, per questo anche il Pci, pur stando all’opposizione, è stato determinante nell’indicazione di una linea politica generale. Finita quella stagione, il cittadino si è trovato isolato e non bastano le garanzie dei diritti individuali. Non è questa la democrazia ricca prescritta dalla nostra Costituzione. Quei partiti politici probabilmente non possiamo più farli e dovremo inventarci qualcosa di nuovo, ma o riusciamo a intrecciare forme nuove di democrazia e a creare un tessuto in cui vi sia il momento della partecipazione e della assunzione di responsabilità collettiva da parte della gente oppure ricostruire una sinistra diverrà un compito arduo. Questo può essere il terreno comune alla sinistra “di governo” e alla sinistra “radicale”, su cui costruire un percorso unitario. Certo, va abbattuta una mentalità di settarismi senza fine, è un processo complicato, ma o partiamo di lì o avremo scarse prospettive di lotta.
Hai speso una parte importante della tua militanza politica occupandoti dei diritti dei popoli. Sappiamo che in particolare misura oggi nel mondo questi vengono in modo impressionante ignorati: quale credi sia stata la responsabilità occidentale, anche nel sottovalutare l’ampiezza dei conflitti che vanno consumandosi nel pianeta?
Luciana Castellina: Innanzitutto credo ci sia un’assoluta mancanza di consapevolezza. Ero a Parigi in occasione della mobilitazione successiva ai fatti di Charlie Hebdo, sono rimasta sconcertata per la reazione avuta dalla Francia, al di là delle bellissime manifestazioni. Non c’è stato nessuno che si sia domandato: “perché ci odiano tanto?”. Regnano un occidentalismo e un eurocentrismo fortissimi, tanto da impedire di capire il mondo. L’idea pervicace che il nostro è il punto di arrivo del processo di civilizzazione del mondo e che tutti gli altri devono soltanto diventare come noi, è un’idea così radicata da impedirci di guardare oltre. Ogni giorno è un’offesa: ma vi pare accettabile che facciano le grinze sul fatto che l’Iran non debba avere la bomba atomica quando, nel momento stesso in cui si è firmato l’accordo a Ginevra, gli Stati Uniti hanno sperimentato un’arma nucleare nel Pacifico? Ora, il trattato di non proliferazione dice che nessuno può dotarsi di armi atomiche e però anche che i Paesi che già ce l’hanno devono impegnarsi a una riduzione graduale, anno per anno. È sfacciato il modo in cui ci comportiamo, del tutto sfacciato; dobbiamo chiederci, dicevo, perché si è accumulato quest’odio nei nostri confronti. Abbiamo distrutto dei Paesi – che non erano certo “simpatici”, intendiamoci – come la Libia e l’Iraq senza neanche chiederci cosa andavamo a fare. Abbiamo trasformato delle società tribali in nazioni disegnandole e ritagliandole sulla cartina geografica a seconda delle risorse petrolifere. Abbiamo dissestato il mondo, anche negli ultimi anni, per mandare all’aria degli Stati che, pur essendo quello che erano, almeno tenevano insieme il casino che avevamo fatto noi occidentali. Se non acquisiamo una capacità di analisi critica non andremo da nessuna parte. La nostra idea di democrazia, ormai legata alla competitività e al mercato, ai diritti individuali e così via, cozza con culture spesso fortemente comunitarie. Sono convinta che sia più che mai necessario stabilire forme di dialogo smettendo di pensarci come il punto d’approdo della civiltà. Quanto all’immigrazione, sono rimasta agghiacciata ascoltando le proposte per arginare il fenomeno: si dice “distruggiamo i barconi”. Io mi chiedo: e quelli che vogliono partire? Restano forse alla mercé delle milizie sulle coste libiche? Come ci poniamo dinnanzi al fatto che ci sono centinaia di migliaia di persone in movimento verso di noi? Buttiamo la bomba atomica forse? I problemi sono giganteschi: prima i problemi legati ai diritti dei popoli si concentravano principalmente nella necessità di mettere fine al colonialismo conquistando l’autodeterminazione, oggi ci sono problemi legati a una disuguaglianza che non c’è mai stata nella storia. La situazione è disperante.
Infine, vorremmo sapere quale secondo te debba essere l’idea che possa restituire alla politica la sua capacità mitopoietica, mobilitante, smarrita ormai da decenni. I grandi miti del passato sembrano esaurirsi, c’è chi si richiama a una nuova democrazia sostanziale, chi alla ripoliticizzazione del lavoro…
Luciana Castellina: Io penso molto banalmente che esista una meta mai raggiunta da nessuna delle rivoluzioni che si sono fin qui succedute: tenere insieme la libertà con l’uguaglianza. La Rivoluzione francese è stato veicolo di libertà, ma non di uguaglianza, quella sovietica per affermare l’uguaglianza ha compresso la libertà: siamo sempre daccapo. Non sarebbe forse la cosa più bella del mondo mettere insieme la libertà e l’uguaglianza? Quando mi chiedono cosa è il comunismo, penso sia questo. La questione dell’uguaglianza è una grande questione. Vuol dire che tutti hanno diritto di contribuire a un universo di valori, a una visione del mondo. Oggi non è così. L’universale, secondo la narrazione dominante, è quello nostro e accusiamo gli altri perché non ne condividono i valori. Ma come potrebbero se non hanno avuto modo di contribuire a definirlo? Quando parlo di uguaglianza non mi riferisco a qualcosa di esclusivamente economico. Non solo: la politica non tornerà ad appassionare se diventa solo ricerca di consenso, come si trattasse dell’auditel televisivo, la politica è innanzitutto costruzione di senso, risposta alla domanda del perché si vive e cosa vogliamo fare del mondo. Certo, ad oggi si marcia nel senso inverso a questo che sto indicando, ma non riesco ad essere poi così pessimista. Ci sono più cose che si muovono di quanto non si dica. Se è per questo non sono pessimista nemmeno sull’Italia, perché l’Italia con tutti i suoi difetti è una società politicamente dinamica, che può riservare sorprese molto positive.