Intervista a Giovanni Carrosio sulle aree interne
- 14 Febbraio 2020

Intervista a Giovanni Carrosio sulle aree interne

Scritto da Alessandro Ambrosino

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Da tempo Pandora Rivista approfondisce con articoli e recensioni il tema delle disuguaglianze contemporanee inquadrandolo da diverse prospettive. Tra queste, la contrapposizione tra luoghi che hanno beneficiato della globalizzazione e aree che sono state marginalizzate rappresenta oggi una sfida fondamentale per molti paesi, i quali si trovano a fronteggiare il risentimento di chi vive “territori perdenti” culturalmente e socialmente. Chi abita questi luoghi spesso si identifica fra gli sconfitti del sistema globale ed esprime tale rancore in due modalità: o li abbandona definitivamente oppure sfida il sistema dominante per mezzo di un voto di protesta dai connotati regressivi e intolleranti. Le recenti elezioni regionali in Emilia-Romagna non sono che l’ultimo esempio, in ordine di tempo, del manifestarsi di queste tendenze. Dall’analisi della distribuzione dei voti è emerso che il centrodestra e la Lega hanno ottenuto buoni risultati soprattutto nei centri più piccoli e nelle aree più povere e periferiche della regione, come la dorsale appenninica. Secondo molti ricercatori, questi risultati ci obbligano a tenere alta l’attenzione sulla frattura centro/periferia nonché a riflettere su possibili soluzioni e alternative. Seguendo l’intervista al ricercatore territorialista Filippo Tantillo questo secondo intervento presenta le considerazioni di Giovanni Carrosio a partire dal suo ultimo libro: “I margini al centro. L’Italia delle aree interne tra fragilità e innovazione”.

Giovanni Carrosio è professore di Sociologia dell’ambiente e del territorio all’Università di Trieste e fa parte dell’assemblea del Forum Uguaglianze e Diversità. Inoltre, in qualità di esperto di tematiche ambientali, ha fatto parte del Comitato tecnico Aree Interne (Strategia Nazionale Aree Interne). È vicepresidente dell’associazione di promozione sociale “Aree Fragili” e fa parte del comitato scientifico di Legambiente.


Giovanni Carrosio: una teoria per spiegare la crisi 

“I margini al centro” sembra manifestare sin dal titolo il desiderio di costruire una lettura alternativa al tema delle disuguaglianze territoriali. Porre i “margini” al “centro” significa dar voce a territori che da molti anni venivano trascurati nel dibattito pubblico e conseguentemente dalla politica. Secondo la sua lettura, qual è la definizione di margine?

Giovanni Carrosio: Esistono diversi modi per definire i margini territoriali. Proprio nel nostro paese esiste una tradizione di studi territorialisti che ha più volte messo in luce altre Italie rispetto a quelle tradizionalmente al centro del discorso politico e culturale (Nord-Sud e pianura-montagna). Grosso modo si tratta delle aree marginalizzate nel corso del Novecento, come conseguenza dell’accentramento dello sviluppo negli agglomerati urbani. Questo processo attraversa tutta la modernizzazione, e riaffiora oggi, esacerbato da politiche pubbliche e imprenditoriali che hanno deciso in quali territori investire nel nome della competitività, e di conseguenza quali territori lasciare indietro. A prescindere dalle caratteristiche morfologiche e geografiche, nel mio libro guardo alla geografia dell’Italia che prende forma da come le persone nei luoghi hanno accesso o meno ai diritti di cittadinanza. Che poi è l’innovazione introdotta dalla SNAI, che ha ribaltato il dibattito sulla coesione territoriale in tutta Europa e non solo. I margini sono perciò i luoghi dove vi è un deficit aggregato nell’esercizio dei diritti di cittadinanza, a causa della sotto-dotazione di servizi e della distanza dai poli. Tale mappatura, chiaramente, è spesso sovrapposta a quella geografica: per la maggior parte le aree marginali sono aree rurali sparse dall’arco alpino agli appennini, ma includono anche aree interstiziali di pianura e aree di costa lontane dai centri. Utilizzo il concetto di marginalità, però, nella sua dimensione euristica, come categoria di studio sociologico.

Dal punto di vista teorico parto da George Simmel, che definiva l’”uomo marginale” come il povero, lo straniero[1]. Concetti spesso stigmatizzati negativamente nel discorso comune ma che nella sociologia acquistano una dimensione molto nobile. Il “marginale” di Simmel – di cui lo straniero è l’emblema – è quell’uomo che fa parte del sistema ma non del tutto. Egli guarda il sistema da una posizione di alterità e con occhio analitico lo mette in discussione producendo innovazioni radicali. Se trasponiamo l’idea di marginale dall’uomo di Simmel ai territori, allora possiamo distinguere in questi ultimi una caratteristica analitica e una prospettica. La prima ci permette di osservare la crisi socio-ambientale che stiamo vivendo nella sua essenzialità più profonda, nella sua “nudità”, volendo citare il filosofo Giorgio Agamben[2]. I sistemi territoriali marginali sono infatti territori “nudi”, dove le interazioni tra ambiente, uomo e tecnologia si vedono chiaramente e si possono interpretare più facilmente rispetto ai territori urbani, resi “densi” dall’impasto fra moltissimi fattori. Dal punto di vista prospettico, invece, i territori marginali sono interessanti perché si situano sempre ai confini dei sistemi che usiamo come metro di analisi ed esprimono un’alterità. Essi, nelle parole di Enrico Camani, sono “spazi di libertà” dove si producono cultura, alternative e innovazioni radicali[3].

 

Secondo la sua analisi, la “crisi” che viviamo è in realtà la somma di tre crisi ben differenziate ma parzialmente sovrapponibili. Quali sono e che caratteristiche mostrano? 

Giovanni Carrosio: Per rispondere a questa domanda devo partire da una premessa: io ho costruito la mia analisi non contento di una tendenza diffusa tra tanti pensatori e teorici che fa nascere tutti i problemi contemporanei a partire dalla crisi del 2008. A detta di moltissimi analisti, essa avrebbe stravolto il sistema globale in profondità, ma dal mio punto di vista la crisi che stiamo vivendo non è una crisi economica, ma è una crisi socio-ecologica, che ha origine tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, e che vede intrecciarsi crisi ambientale, crisi fiscale dello Stato e crisi migratoria. Dentro questa lunga crisi di sistema, il 2008 è soltanto una tappa. È il momento in cui fallisce il tentativo di spostare nel tempo e nello spazio la crisi attraverso la finanziarizzazione dell’economia. Che le cose si complicano prima, si evince affiancando tre dati emblematici. Primo, il debito pubblico italiano prende forma in quegli anni perché lo Stato, al culmine delle lotte operaie, concede sempre più diritti ai lavoratori e welfare, senza però intaccare le libertà economiche e il processo di formazione della ricchezza. Di conseguenza si indebita, per legittimarsi sia di fronte ai cittadini che di fronte alle imprese. Secondo, negli stessi anni l’Occidente inizia a creare il cosiddetto “debito ecologico”. I dati mostrano che fino agli anni Sessanta il pianeta era più o meno in equilibrio rispetto alle risorse a disposizione ma a partire da quel momento, se prendiamo l’Overshoot Day come indicatore, si anticipa sempre prima il giorno in cui le risorse non riproducibili vengono consumate. La terza questione è la modifica della demografia nei paesi occidentali: in particolare in Italia, e in tanti altri paesi europei, prende forma il fenomeno delle migrazioni transnazionali. In Italia, il salto qualitativo dal punto di vista demografico avviene proprio in questi anni: da paese di emigranti a paese che inizia ad attrarre immigrazione. Questi tre fenomeni, che sono rinvenibili secondo modelli qualitativi, dagli anni Settanta iniziano a crescere sempre più velocemente intrecciandosi fino ad esplodere oggi. Ciò ci permette di declinare la crisi generale in tre crisi particolari sulle quali abbiamo perso il controllo: la crisi ambientale, contro la quale ci sentiamo impotenti, la crisi migratoria, che è rappresentata dal dramma del Mediterraneo come teatro di morte, e la crisi fiscale dello Stato che, a causa di decenni di economie in stato stazionario o in semi-recessione, non permette più di garantire gli stessi livelli di welfare di anni fa.

 

In che modo le tre crisi che hai delineato entrano in correlazione e come si può spiegarne il carattere interdipendente?

Giovanni Carrosio: Le tre crisi si intrecciano in un ciclo di cause e conseguenze ben preciso. Intanto la crisi ambientale è due cose: la prima è una contraddizione tra i tempi con i quali trasformiamo le risorse ambientali in merce e i tempi che impiega la terra a riprodurre le risorse stesse. Alcuni storici ambientali che fanno riferimento a Karl Polany[4] parlano di “grande accelerazione”. Allo stesso tempo la crisi ambientale è anche la rottura della coevoluzione del rapporto tra uomo e ambiente. Dapprima l’uomo, all’interno di una struttura economica di produzione più o meno sostenibile e più o meno circolare, co-produceva ambiente (si pensi ai mestieri che riguardavano la gestione del bosco, delle acque, alla produzione di tessuti naturali e via dicendo) e lo rigenerava perché funzionale alla riproduzione del processo economico. Con l’industrializzazione e il progresso tecnologico si è prodotta una disconnessione tra le due componenti che ha provocato la nascita di un’economia lineare e la polarizzazione tra territori “troppo pieni” e “troppo vuoti”. Cioè le città sono troppo piene di persone e troppo vuote di ambiente mentre le aree marginali sono “troppo piene di ambiente” e “troppo vuote di persone”. Ci tengo però a sottolineare che non penso possa esistere un “troppo pieno di ambiente” ma intendo dire che l’ambiente viene lasciato a sé stesso, abbandonato e non gestito, provocando un suo repentino degrado. Si pensi al dissesto idrogeologico o alla perdita di biodiversità a causa dell’avanzare del bosco spontaneo.

La crisi ambientale si intreccia con la crisi fiscale dello Stato per due motivi. Abbiamo detto che quest’ultima è, in estrema sintesi, la contraddizione tra la necessità di concentrare la ricchezza per le imprese e la necessità di redistribuire la ricchezza per le persone. Ma oggi la crisi ambientale accelera la crisi fiscale perché, come dice Moore, è finita l’era della “natura a buon mercato”[5]. Trasformare la natura in merci è diventato più costoso. Il processo di accelerazione produce dei “mali” ambientali come il dissesto idrogeologico o – a livello mondiale – il cambiamento climatico, per i quali gli stati spendono molti soldi. Di fronte ad economie stazionarie o decrescenti è evidente che la competizione tra risorse per il welfare e risorse da destinare alle imprese non solo si acuisce ma radicalizza anche la competizione con le risorse da destinare all’ambiente, contrapponendo il diritto ad un ecosistema pulito con il diritto alla cittadinanza.

A questo punto si inserisce la crisi migratoria. So di essere qui esposto a critiche che potrebbero evidenziare il carattere strutturalista e macro-sistemico della mia teoria, però io credo che la crisi fiscale dello Stato sia un fattore di attrazione di migrazione, mentre la crisi climatica sia un fattore di espulsione. Di fronte ad un welfare che viene sempre più ridimensionato – e di fronte ai diritti del lavoro che si erodono – io osservo come sia molto facile che ci sia del lavoro migrante a buon mercato che copre questi buchi. I fenomeni delle badanti, o dei lavoratori in agricoltura ne sono classici esempi e la crisi ambientale – sebbene il discorso dei migranti climatici sia più complesso – intesa soprattutto come abbandono di ambienti degradati o a rischio, entra così nel paniere dei fattori del movimento migratorio. Questo intreccio si autoalimenta e si rafforza, costringendoci a fare i conti con una trasformazione epocale e con una crisi senza precedenti.

 

Dunque solo invertendo lo sguardo si possono osservare i dettagli essenziali delle odierne trasformazioni socio-ambientali? Si sono create nuove fratture oppure si tratta di una “riedizione” dei paradigmi classici “città/campagna” e “centro/periferia”? 

Giovanni Carrosio: Secondo me, queste tre crisi, intrecciandosi, non eliminano le fratture del Novecento di cui parlava Rokkan[6] ma producono degli “slittamenti”. Io non credo che le fratture si esauriranno. Per me, ad esempio, la frattura tra capitale/lavoro è oggettiva e strutturata nella nostra società. Esiste ed esisterà sempre nel sistema capitalistico. Si è soggettivizzata e politicizzata nel Novecento, secolo in cui movimenti politici si sono formati attorno a quel cleavage. Ma si sta spoliticizzando perché surclassata da una nuova tensione che le tre crisi stanno producendo: quella tra integrazione e indipendenza. Le tre crisi fanno vacillare il principio di sovranità nazionale, scardinano i confini politici e amministrativi, e di conseguenza la capacità dei cittadini di incidere attraverso la democrazia rappresentativa sulle decisioni che si collocano su istituzioni che sono su scale inadeguate rispetto alla natura dei problemi che abbiamo di fronte. Il problema è che l’integrazione culturale ed economica, agita dalle élite dentro uno schema neoliberale, ha prodotto “vincitori” e “perdenti” della globalizzazione. Che, allo stesso modo del processo di integrazione europeo, non è stata una globalizzazione dei diritti e della solidarietà come chiedevano i movimenti sociali all’inizio di questo secolo. E oggi sono proprio i perdenti a domandare protezione e “indipendenza” perché questa integrazione “omogeneizzata e disuguale” ha prodotto una forte domanda di salvaguardia delle identità territoriali – e anche del lavoro – contro l’alterità. Un esempio sono i negazionisti climatici. Se osserviamo bene notiamo che spesso essi fanno riferimento a movimenti populisti e sovranisti. Ciò non avviene per caso: il sovranismo contemporaneo, infatti, deve essere negazionista climatico e anti-migranti per forza. Non esserlo significherebbe riconoscere un racconto di mondo che supera la nazione e riconosce dignità e diritti delle persone indipendentemente dalla loro origine.

Anche la vecchia dicotomia urbano/rurale credo resista ancora, nonostante negli ultimi anni, con il mito della “società liquida” e dell’urbanizzazione, si dica che tale distinzione non esiste più e che gli stili di vita si sono omologati. Io sono convito che non sia vero, perché negli attuali fenomeni di deriva autoritaria non c’è solo il problema dei “luoghi lasciati indietro”, ma anche il problema della riemersione dell’identità locale nel suo senso più profondo. Moltissimi territori esprimono la domanda di alterità di fronte a un racconto politico che l’ha misconosciuta, permeandosi attorno a parole come: “autoimprenditorialità”, “privatizzazione del rischio”, “start-up”, “dimensione metropolitana”. Una retorica neoliberale che ha misconosciuto le campagne. Questi luoghi oggi, evidentemente, trovano una risposta nel racconto populista, che è molto abile a raccogliere una domanda di protezione sociale, saldando ceti e interessi anche molto diversi. Come sosteneva Laclau, la narrazione populista muove dalla incapacità delle istituzioni e delle forze politiche tradizionali di rispondere a domande sociali emergenti e differenziate[7]. Nel processo politico, le domande inascoltate – ognuna isolata dalle altre – stabiliscono tra di loro una relazione di equivalenza. Il popolo che guarda al populismo, prende forma attraverso la catena di equivalenze che tiene insieme dentro un discorso nuovo e non necessariamente organico le domande sociali insoddisfatte. Chi è capace di unificare le domande in un sistema stabile di significazione, riesce a produrre un’offerta politica che entra in sintonia con il senso comune emergente dalla equivalenza delle domande sociali inascoltate. Per cui la domanda di protezione sociale dei margini, molto diversa da quella del ceto medio impoverito o della classe operaia, si saldano. Aggiungo infine che oggi non basta più dire che la sinistra non riesce a riconoscere l’alterità dei luoghi e perciò a dare risposta alla domanda di riconoscimento, perché il problema si trascina da decenni. Osservando i dati di lungo periodo, si nota che anche ai tempi della contrapposizione PCI-DC i luoghi marginali votavano DC. Prendiamo l’esempio dell’Emilia-Romagna: comparando le mappe del recente voto e di quello del 1970 i risultati sono emblematici. L’unico cambiamento è la provincia di Ferrara che, pur avendo una storia “rossa” come seguito delle lotte del bracciantato agricolo, oggi passa dall’altra parte.

 

A fianco di queste problematiche, tuttavia, lei parla spesso del dinamismo dei margini quali spazi di sperimentazione e innovazione fuori dai paradigmi classici. Perché è convinto che ci siano alternative?

Giovanni Carrosio: Perché se guardiamo in questi margini vediamo come esistano dei contro-movimenti che, pur prendendo forma a macchia di leopardo e in modo disorganico, vanno in direzione di invertire in modo virtuoso l’interdipendenza tra ambiente, crisi fiscale dello Stato e migranti. Sono casi che io chiamo “conati di autodifesa della società locale”. Puntiformi e ancora non sistemici, certo, ma che mostrano l’esistenza di alternative. Mi collego qui alla seconda parte dell’intervista ricordando come la Strategia Nazionale Aree Interne, pur in tutti i suoi limiti, è andata proprio nella direzione del creare rete fra tutte queste diverse esperienze. La nuova società che viene dai margini supera la crisi climatica creando forme autentiche di economia circolare con la natura al centro, supera la crisi fiscale costruendo welfare basato sulle comunità e costruisce forme di cittadinanza aperta per i migranti. Ciò che stupisce è come tutte questi “esperimenti” partano da una delle tre crisi e lavorino per risolverla nell’insieme. La Valle Maira, ad esempio, ha una società pubblico-privata i cui proventi di centraline idroelettriche vengono utilizzati per il welfare locale. Cito anche il caso di Fontanigorda, dove il recupero di vasche fluviali per l’allevamento ittico è stato possibile grazie ad un progetto SPRAR di integrazione dei migranti. E ciò che ritengo davvero sorprendente è notare come il “diverso” sia ormai il fattore che riproduce molto di quello che è l’“identità locale”. Muretti a secco, manutenzione del bosco, prodotti tipici, addirittura dialetti e lingue regionali, basta poco per rendersi conto che la maggior parte di queste attività sono ora nelle mani di soggetti di origine non italiana. Di conseguenza salta completamente il racconto sovranista della difesa della nostra identità contro i migranti. I migranti riproducono in realtà le identità materiali del nostro paese, che i nativi non sono più in grado di riprodurre.

 

L’esperienza della SNAI, le attività del Forum Disuguaglianze e Diversità e le buone pratiche di aree fragili

In qualità di esperto progettista della SNAI, credi che grazie alla Strategia ci sia stata una rottura degli schemi?

Giovanni Carrosio: La SNAI ha avuto alcuni elementi di rottura che vanno ricordati. In primo luogo ha prodotto una nuova mappatura del paese che non solo ha superato la lettura Nord-Sud, la lettura “altimetrica” e la lettura legata all’ampiezza dei comuni (sappiamo infatti che la definizione di Aree Interne si basa sulla distanza dai sevizi, vi sono quindi comuni grandi e piccoli, di pianura e di montagna e via dicendo). Ma ha avuto anche il pregio ulteriore di rompere una serie di coalizioni sociopolitiche che erano nate intorno a quelle letture e che non erano più capaci di esprimere innovazione. Il secondo elemento di rottura è che grazie a questa nuova mappa la SNAI ha avuto la forza di individuare alcuni elementi di identificazione nazionale attorno alle aree interne, mostrando un’Italia “vera”, con gli stessi problemi da Nord a Sud, e portando il tema dei margini nel dibattito pubblico.

Mi rendo conto, tuttavia, che questa non sia ancora l’idea dominante, per cui oggi è ancora forte l’idea che lo sviluppo debba concentrarsi solo nelle città e si creda ancora alla profezia che il futuro e il progresso saranno solo urbani. Questa è un’ideologia e mi spingerei quasi a definirla una grande “bufala” perché tutto, dall’innalzamento dei mari all’invivibilità di città che saranno vere e proprie “isole di calore” ci dice che la popolazione si deconcentrerà attirata da territori in vantaggio climatico. Questo non è complottismo, ci sono fior fiore di studi scientifici che prevedono queste tendenze. Evidentemente, se le politiche continueranno ad andare in direzione opposta, tali trend di deconcentrazione verranno ostacolati. Un ultimo elemento di rottura è l’aver introdotto un nuovo modo di fare politica pubblica per il quale amministrazioni centrali e regionali tornano nei luoghi e ne prendono coscienza.

 

Sono passati più di sei anni dalle prime teorizzazioni della SNAI e in molti, anche qui su Pandora, hanno iniziato a trarne dei bilanci. Sappiamo quali innovazioni questa Strategia ha portato, ma potresti evidenziarne anche alcune critiche?

Giovanni Carrosio: Sì. Io penso che un disegno di policy così innovativo, complesso e ben teorizzato si sia scontrato e si stia ancora scontrando con una Pubblica Amministrazione che in generale non è all’altezza del cambiamento. Purtroppo, molti burocrati che stanno nelle amministrazioni centrali fanno parte di sistemi di potere con una visione ancora troppo centralista rispetto ai loro territori. Questo vale anche per le regioni, che spesso si rivelano più centraliste dello Stato stesso e che non riescono a percepire le sempre più rumorose richieste delle loro periferie. Aggiungo una critica interna alla SNAI, che poi sarebbe un’autocritica: forse avremmo dovuto essere più incisivi nel rafforzare le aree progetto in termini di “capabilities”, cioè di capacità progettuale e amministrativa. È stato fatto un lavoro importante sull’intercomunalità, che fa scuola in tema di costruzione di unioni di comuni ma non si è riusciti a incidere sugli organici dei funzionari delle amministrazioni locali, che sono pochi e con una età media molto alta. Ma d’altronde, ad una politica non si può chiedere tutto, altrimenti si rischia di sovraccaricarla oltre le proprie possibilità.

 

Riguardo la sua altra esperienza di coordinamento all’interno della comunità “Aree Fragili”, ci può descrivere le attività del gruppo e in che modo i “laboratori sociali” che sono stati individuati rappresentano un’alternativa? 

“Aree fragili” è un’associazione di promozione sociale che ogni anno organizza un convegno a Rovigo su temi ogni volta diversi, ma legati a dotazioni, problemi e possibilità delle aree rurali fragili. Quando Giorgio Osti ha organizzato il primo convegno, io ero ancora uno studente, appassionato a questi temi per ragioni biografiche. Ottavio Rube, della cooperativa Valli Unite, si ammalò e lo sostituii nella sua presentazione, parlando come fossi un socio della cooperativa. In realtà, la stavo studiando per la mia tesi di laurea. Ogni anno viene pubblicata una call alla quale rispondono, in base ai temi proposti ogni anno, ricercatori, attivisti, amministratori, cooperatori ecc. Durante i due giorni di convegno si discute di possibilità, innovazioni e buone pratiche riguardanti i margini, le aree interne e tutte quelle zone che abbiamo imparato a definire “fragili”. Lo ritengo anche un modo per fare cultura e per consolidare relazioni in questo variegato mondo. Esistendo già da 15 anni si tratta di un osservatorio importante, con oltre 700 esperienze presentate – una cinquantina all’anno – che rappresentano la vitalità di queste aree e di queste ricerche. Quest’anno ci occuperemo di cambiamento climatico e qualità dell’aria nelle aree interne. Aggiungo che esistono oggi molte reti, enti e associazioni che si occupano di questi temi, tuttavia non è facile creare sinergie e vere occasioni per accumulare la conoscenza che si è prodotta. Altrettanto difficile è far dialogare discipline affini, quindi una spinta in questo senso sarebbe auspicabile.

 

Per quanto riguarda il Forum Disuguaglianze e Diversità, invece, che tipo di progetti vengono portati avanti e come si inquadrano nel contesto delle disuguaglianze territoriali contemporanee? 

Giovanni Carrosio: Il Forum Disuguaglianze e Diversità ha lavorato in un primo tempo ad un’analisi accurata sulle disuguaglianze, non solo territoriali, ma anche economiche, sociali e di riconoscimento e ha prodotto un documento di analisi con 15 proposte. Queste proposte hanno trovato degli alleati quali amministrazioni pubbliche, sindacati, politici, imprese ed altri attori che hanno lavorato per predisporre quella che noi chiamiamo la “messa a terra delle proposte”. Ogni “messa a terra” ha un’applicazione diversa e un livello di interlocuzione diverso. Tra le varie proposte ve ne sono due che si occupano specificatamente dei territori marginalizzati: la proposta 8 e la proposta 10. La prima tratta dei metodi per applicare una buona politica “place-based”, cioè, nelle parole di Barca, “attenta ai luoghi”. Invece la 10 cerca criteri per coniugare giustizia sociale e giustizia ambientale. È stato da poco pubblicato un libro per il Mulino, 15 proposte per la giustizia sociale ispirate dal programma di azione di Anthony Atkinson[8] dove si possono leggere sia le analisi che le proposte.


[1] George Simmel è uno dei padri della moderna sociologia. Si veda G. Simmel, Soziologie, Leipzig, Duncker & Humbolt, 1908.

[2] G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995.

[3] E. Camani, Alpi ribelli. Storie di montagna, resistenza e utopia, Roma-Bari, Laterza, 2016.

[4] K. Polany, Origins of our Times. The Great Transformation, New Yok, Farrar & Reinhart, 1944.

[5] J. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato, Verona, ombre corte, 2015.

[6] S. M. Lipset, S. Rokkan, Party systems and Voter Alignments, Free Press, 1967.

[7] E. Laclau, La ragione populista, Roma-Bari, Laterza, 2008.

[8] Forum Disuguaglianze e Diversità, 15 proposte per la giustizia sociale ispirate dal programma di azione di Anthony Atkinson, Bologna, il Mulino, 2020.

Scritto da
Alessandro Ambrosino

Dottorando in International History al Graduate Institute di Ginevra. Laureato in Storia e in Relazioni Internazionali all’università di Bologna. Dopo aver lavorato presso l’Ufficio di Collegamento della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia a Bruxelles, ha svolto il tirocinio UE presso il Comitato delle Regioni.

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