Intervista a Nadia Urbinati
- 30 Luglio 2015

Intervista a Nadia Urbinati

Scritto da Matteo Giordano, Tommaso Sasso

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Continua la serie di conversazioni e interviste svolte da Matteo Giordano e Tommaso Sasso per Pandora a personalità del mondo accademico, culturale e politico legato alla sinistra italiana. Il taglio delle interviste esclude domande di attualità per come viene generalmente intesa. Queste, incentrate sulle prospettive della sinistra, rimandano principalmente alla crisi della modernità in atto, allo scenario europeo e all’interpretazione degli esiti della pluridecennale egemonia neoconservatrice. A seconda dei casi, le domande vertono anche sulla biografia politica degli intervistati.


La crisi che viviamo, avanti tutto di civiltà, ha in qualche misura svelato la reale natura di una dottrina ideologica, quella neoliberale, ai cui assunti di fondo la Sinistra, in particolare quella europea, è stata subalterna culturalmente prima ancora che politicamente. Cosa ritiene ci sia stato alla base di questo pressoché totale appiattimento? Come si spiega il suo deficit di autonomia intellettuale, la sua incapacità di articolare una lettura propria della storia recente?

Nadia Urbinati: Penso che la ragione di fondo sia depositata nel marxismo, che è figlio del liberalismo (non solo dell’idealismo tedesco). Ha una radice comune con quella parte della dottrina liberale che si è materializzata nella dottrina economica. L’economicismo e la considerazione della dimensione politica come strumentale rispetto a quella economica è comune tanto a quello che oggi viene chiamato neoliberalismo quanto al marxismo. Come spiega molto chiaramente Carlo Marx nel testo del 1859, “l’introduzione all’Economia e politica”, Adam Smith, quella parte del pensiero di Locke che definisce tutta la libertà a partire dal diritto di proprietà e che poi distingue valore d’uso e valore di scambio, è non meno importante per comprendere il materialismo storico del lascito della Rivoluzione francese. È possibile dire che alle origini dell’incapacità di elaborare un linguaggio politico autonomo da parte della sinistra ci sia la storia della sinistra medesima, che è radicata all’interno di un nucleo economicista, realista e che può suggerire di ritenere il pensiero normativo come una forma di moralismo o idealismo stantio. Intendiamo per pensiero politico normativo quello che riconosce alla dimensione pubblica del vivere civile o alla nostra identità politica un valore di principio, che si esprime nei diritti fondamentali e nella libertà politica, rispetto ai quali l’interesse economico, individuale o di classe, può avere preminenza. L’assenza di questa base di principi politici autonomi rende il pensiero della sinistra un pensiero debole quando i suoi referenti sociali scompaiono. Fino a quando vi erano classi organizzate, come per esempio nell’età fordista o della grande fabbrica che riuniva un esercito organizzato di proletari, il pensiero della sinistra si è espresso con forza e la sua capacità di attrattiva politica è stata notevole. Ma tolta quella base organizzata, che cosa resta del pensiero emancipatore se non quella base economicista che lo avvicina al pensiero liberale? Non c’è più una visione alternativa, dissociata dalle classi. Anche questo spiega perché oggi la sinistra tradizionale sia priva di un pensiero autonomo dall’economicismo liberale. Decadute le classi, l’elemento di distinzione della sinistra è venuto meno. La sinistra marxista, figlia del pensiero economico liberale, si è invece tenuta a grande distanza dal liberalismo politico, quella dei diritti (cioè l’altro Locke, per riallacciarsi al discorso che facevamo prima). Ma è dal liberalismo politico e dei diritti che deriva una concezione democratica, il cui carattere saliente non è strumentale (ovvero espressione degli interessi economici), ma fondamentalmente autonomo. È su questo punto del resto che si è consumata la frattura con il pensiero di Carlo Rosselli e del socialismo liberale: è stato grazie a questo pensiero coraggioso e radicale (le cui origini sono da situarsi nell’ideale emancipatore svilippatosi nel corso delle discussioni sul pensiero di Kant, a partire dalla fine dell’Ottocento) che la sinistra è riuscita a trovare un suo linguaggio politico e a contribuire alla trasformazione democratica delle nostre società.

A distanza di almeno mezzo secolo, torna di grande attualità il tema della definizione del Sovrano. Il popolo sembra esserlo ormai solo sul piano giuridico-costituzionale formale, ma percepisce la sua effettiva impotenza, come testimonia la sempre più scarsa partecipazione al voto in gran parte dell’Occidente e il suo crescente disinteresse verso la vita pubblica. Quale chiave interpretativa propone di utilizzare in riferimento a questo tipo di processo? In quale senso sono oggi rivolti i reali rapporti di potere nelle società occidentali?

Nadia Urbinati: Come cercherò di sostenere, a me sembra che la domanda precedente si connetta direttamente a questa. Intendere il popolo come fondamento giuridico-formale dell’ordine politico è la condizione indispensabile per avere una democrazia costituzionale e rappresentativa; il popolo di cittadini portatori di diritti sta al centro del sistema politico ed è la base della legittimità delle decisioni. Senza un popolo di cittadini uguali, sarebbero molto probabilmente i gruppi sociali ed economici a determinate le scelte. Non dimentichiamo quindi che la concezione di popolo come soggetto sovrano è stata costruita in alternativa a una società strutturata per corporazioni o ceti e in nome di una visione della cittadinanza come condizione contraria a quella basata sulla mediazione di interessi organizzati. Alla base c’è il cittadino uguale in potere politico (una testa/un voto) e solo in base a questo fondamento normativo può essere ammesso fare accordi su questioni specifiche tra gruppi organizzati. E’ evidente che la democrazia rappresentativa non è indifferente alla condizione in cui i cittadini vivono, e la cittadinanza non è un’astrazione che fluttua su un mondo sociale autonomo.

Occorre che ci sia una corrispondenza giuridica almeno tra la dimensione politica e quella sociale. Non una corrispondenza deterministica, ma una corrispondenza di principi normativi (i diritti) che devono poter innervare ogni componente della società, dalla sfera privata o della vita famigliare a quella sociale ed economica. In una società nella quale non governano più strutture organizzate degli interessi, può facilmente succedere che coloro, i più numerosi, che sono la parte socialmente più debole siano anche privi di potere politico. Come superare la debolezza di potere senza violare il principio di eguale cittadinanza? Rispetto agli interessi organizzati dei pochi, i cittadini singoli sono indubbiamente impotenti. Quando questa impotenza cresce oltremisura, come succede in questo nostro tempo, allora può svilupparsi il populismo, ovvero una nuova forma di aggregazione dei molti, non più dentro i partiti, ma dentro una visione di Popolo che ingloba i “molti” senza potere opponendoli ai “pochi” organizzati o potenti. Dobbiamo comprendere l’esigenza oggi espressa da alcuni studiosi e leader politici di creare una forza organizzativa alternativa ai partiti tradizionali e quindi di fare, come ha scritto Ernesto Laclau, un uso emancipatore del popolo. Ma dubito che questo sia desiderabile. Quando questa unità di popolo si fa governo, infatti, c’è da aspettarsi che riprodurrà tutti i problemi che tradizionalmente, sopratutto in Europa occidentale, ha provocato il nazionalismo – perché nei paesi europei il “noi” sul quale è sorta la democrazia costituzionale, è la nazione. D’altro canto, però, i populisti non hanno tutti i torti a sostenere che il popolo, senza referenti organizzativi, rischia di essere una pura finzione giuridica. Il fatto che i cittadini si astengano dal voto, oltre a essere un segno in qualche caso di reazione negativa nei confronti dei partiti esistenti (come è stato nelle elezioni regionali in Emilia-Romagna nell’autunno del 2014 e poi in quelle in altre regioni italiane del giugno 2015), prova l’esistenza di un “senso di futilità nell’andare a votare”. Penso però che la risposta a una condizione di debilitazione della volontà politica dovrebbe essere, invece che adagiarsi su un’idea di democrazia minimalista e schumpeteriana (a contare sono i voti dati e votare significa delegare a una classe politica tutto il fare), costruire una visione di principio delle regole del gioco democratico. Curarsi delle procedure, ovvero del voto, della partecipazione al voto, è parte delle regole non un’opzione. La dimensione delle regole e delle procedure è quindi tutt’altro che formale; è molto ricca, e va ben al di là dell’apporre una croce su un simbolo di una scheda elettorale. A questa dimensione politica partecipano a pieno titolo i cittadini con le loro associazioni e i partiti. I partiti sono strumenti essenziali delle regole del gioco e per questo dovrebbero godere di finanziamenti pubblici. E là dove essi vengono finanziati con risorse private (come negli Stati Uniti) il diritto di voto perde di valore, poiché i cittadini hanno ragione di pensare che comunque le scelte politiche siano condizionate da costanti esterne alle regole del gioco. Occorre dunque prendersi cura, come dicevamo, dell’intera sfera del voto e delle procedure, se si vuole davvero mantenere in salute la democrazia.

In questo discorso rientra a pieno la crisi della democrazia in occidente. Le pongo una domanda più specifica: nel corso di tale crisi, in cui i diritti sociali sono ormai sotto attacco da decenni e quelli politici iniziano de facto a perdere di fondamento, quale ruolo giocano le due opposte facce della medaglia neoliberale, populismo e tecnocrazia? Possiamo definirli in qualche modo dei sintomi del divorzio tra capitalismo e democrazia?

Nadia Urbinati: Proprio di questo ho parlato nel mio libro Democrazia sfigurata. Dobbiamo pensare alla democrazia come a un termine contestato, non univoco perché denota sia un sistema politico che una forma d’essere della partecipazione; ha cioè due gambe, istituzionale e procedurale l’una, formativa dell’opinione e del giudizio politico l’altra. Se queste due gambe non si sostengono l’un l’altra (come quando il voto diviene mero esercizio di delega, non dando anche la capacità di intervenire sugli eletti e di controllare il lavoro della maggioranza esprimendosi anche attraverso una opposizione non impotente) è evidente che la democrazia si traduce in diritto di voto per eleggere un’oligarchia, con scarsa o nulla possibilità di controllare quel che i rappresentanti fanno, poiché i mezzi di informazione e di formazione delle opinioni diventano essi stessi parti del gioco politico, come del resto succede regolarmente in Italia. Questo non è solo il segno della crisi del rapporto tra capitalismo e lavoro, ma anche di un mutamento di identità della democrazia rappresentativa, fino ad ora strutturatasi grazie ai partiti. Occorre forse imparare a ragionare con altri canoni, che non sono più quelli del socialismo e del liberalismo – i quali dopo tutto consideravano la democrazia come un mero riflesso politico degli interessi sociali, un metodo di decisione a maggioranza mediante il quale le parti sociali facevano le loro politiche. Occorre dare autonomia alla democrazia, sottolinearne il principio egualitario che la anima e in relazione ad esso cercare di capire le sue diverse espressioni, siano esse populiste o come deliberazione dei “competenti” e dei tecnocratici con il sostegno elettorale dei cittadini. Questi – populismo e tecnocrazia – sono fenomeni correlati, e solo apparentemente alternativi tra loro. Populismo e tecnocrazia sono due reazioni a un declino di legittimità d’opinione di cui soffre la democrazia rappresentativa oggi, alla fine dell’epoca segnata dal compromesso capitale-lavoro gestito da grandi organizzazioni politiche e sindacali di massa. La crisi dei partiti e la crisi della democrazia è andata di pari passo con la fine del capitalismo fordista o industriale. E si esprime con populismo e tecnocrazia, due facce della stessa medaglia, che esaltano o contestano il principio dell’eguaglianza politica: nel caso del populismo perché interpreta l’eguaglianza come identità del corpo popolare unificato da un’ideologia forte e un leader che la incarna, e nel caso della tecnocrazia perché depotenzia l’eguaglianza del suffragio rendendola una delega in bianco al governo dei pochi, presentati spesso come competenti.

In un libro di pochi anni fa, “Liberi e uguali”, lei distingue tra le diverse accezioni di individualismo. A suo avviso quali sono i principali elementi degenerativi che innescano il passaggio dall’individualismo democratico descritto da Tocqueville all’individualismo egoista e indifferente verso il destino comune che ben conosciamo?

Nadia Urbinati: L’individualismo fondato sull’interesse economico o proprietario è il più semplice. Emerge spontaneamente da una società basata sul libero mercato e il calcolo costi-benefici. Fin da bambini impariamo a calcolare come realizzare il massimo per noi a scapito degli altri. È un principio che anima la concorrenza, la competizione e che plasma la nostra personalità. Gramsci parlerebbe a questo proposito di egemonia: la formazione di una morale privata funzionale a un determinato tipo di società.

Tuttavia, l’individualismo non si riduce a individualismo economico ed è anche un principio positivo. La democrazia è basata su di esso perché presume che a ciascuno sia chiesto il consenso ragionato. Essa non presume masse indifferenziate. Per fare un esempio: la repubblica ateniese classica divenne una democrazia quando i singoli cittadini che si recavano all’Assemblea poterono votare uno ad uno e avere i loro voti contati secondo regola di maggioranza. A Sparta, al contrario, il popolo era interpellato come massa e le decisioni venivano prese sulla base di un consenso urlato e indifferenziato con dei giudici di gara che cercavano di interpretare l’intensità dell’urlo per il “si” o il “no”. Ma il principio di maggioranza acquistò autorevolezza quando venne adattato alla conta dei voti: l’aritmetica risolse il problema del dissenso perché i numeri non sono interpretazioni individuali o sensoriali di intensità ma calcolo di quantità. L’individualismo – ogni voto vale uno – è fondamentale in democrazia. L’individuo della democrazia non è un atomo identico agli altri e chiuso nel suo interesse, ma è una persona che si correla necessariamente agli altri, in primo luogo per confrontare idee e convinzioni, per costruire strategie comuni, per convincere e per associarsi. L’associazione presuppone individui uguali che individualmente e volontariamente decidono di fare un lavoro comune. Dunque è un individuo che va oltre sé, ma non per negarsi bensì per realizzarsi. Perché questo ci sia, è necessaria una conseguente organizzazione giuridica della società – una costituzione e un ordine della legge basato sul principio di eguaglianza – e poi anche una vita socio-economica non in contraddizione con la regola dell’eguaglianza politica. È qui che si pone il problema della disuguaglianza. A troppi è preclusa oggi la possibilità di sviluppare le proprie potenzialità individuali e democratiche in un quadro di regole condivise. È insopportabile per chi nutre convinzioni autenticamente democratiche che il destino dei singoli sia determinato dal caso delle condizioni di nascita, dal fatto di essere nati in una famiglia o una regione del Paese. Una democrazia che accetta questo stato deterministico di cose è una democrazia insoddisfacente.

È noto il monito che Sen ha lanciato ormai anni fa all’economia, quello cioè di non trasformarsi da “scienza sociale” in “scienza della natura”. Purtroppo, ciò è largamente avvenuto, al punto che ogni aspetto della vita sociale delle persone è ormai insidiato dalla logica di mercato. Quali tratti deve avere una controffensiva culturale e politica adeguata, che sedimenti una antropologia più “umana” e capace di ridare valore e dignità alla persona?

Nadia Urbinati: Sono convinta che Sen abbia compreso una delle ragioni per cui oggi noi ci troviamo a parlare solo della nostra impotenza e della nostra incapacità di risolvere i problemi di ordine generale da cui siamo afflitti. Si tratta appunto della trasformazione della scienza economica da scienza umana a scienza della natura. Questa idea affonda le sue radici nel XVIII e XIX secolo. La si associa erroneamente a Adam Smith, il quale era invece ben consapevole tanto della dimensione umana della scienza economica, quanto del fatto che l’uomo economico fosse una pura astrazione. Smith usava lo schema argomentativo del “come se”: l’homo oeconomicus era per lui una funzione ipotetica necessaria per comprendere come funziona la relazione tra interessi e bisogni. Smith attaccò i monopoli – di casta, ceto o trasmissione ereditaria, o militare – e comprese che l’apertura allo scambio e alla logica dell’interesse poteva scardinare poteri sociali secolari. La scienza economica era per il filosofo Smith parte della filosofia morale, legata alla teoria dei sentimenti che egli aveva analizzato nella fenomenologia della simpatia, del reciproco adattamento che gli individui mettono in moto quando interagiscono. La simpatia funzionava nel suo sistema come una forza gravitazionale, frutto del bisogno individuale di vivere bene tra i suoi simili. La scienza economica contemporanea è una tecnica del mercato finanziario fatta di algoritmi; la psicologia, lo studio delle emozioni, è irrilevante.

Ciò detto, io non sono un’esperta del “cosa fare”, tuttavia credo che la battaglia contro la finanziarizzazione della politica e dell’economia debba cominciare dalla formazione, dalla scuola e l’università. Occorre ricomprendere il valore delle scienze umane e recuperare anche dal punto di vista della cultura specialistica il valore dell’umanesimo. E ciò va fatto in termini di sviluppo delle capacità critiche e di formazione della personalità nel suo complesso. Anche le nostre scuole sono vittime del nozionismo e del tecnicismo della riuscita. Dare strumenti tecnici senza sviluppare la capacità di dubitare, di farsi domande su ciò che si studia e si legge significa impoverire la formazione, creare docili esecutori. La formazione è aspetto essenziale dell’identità delle nostre società troppo ignorato.

La declinazione del rapporto tra libertà e uguaglianza sembra essere tutt’oggi uno dei nodi fondamentali da affrontare. Pensa che la ricostruzione di una cultura politica alla cui base stia un rapporto equilibrato tra libertà e uguaglianza possa in qualche modo venire incontro alla necessità della sinistra di dotarsi di un nuovo mito di mobilitazione di massa?

Nadia Urbinati: Penso di sì. Ad oggi non abbiamo altre soluzioni altrettanto valide. Per quanto riguarda l’Italia, disponiamo di un linguaggio politico che è quello della nostra Costituzione. Di lì dovremmo ripartire, anche e sopratutto per riscoprire e rilanciare la dignità della cittadinanza. L’Articolo 3 è molto chiaro: l’uguaglianza non è un valore astratto, bensì una relazione tra persone che non sono uguali, che sono anzi diverse in moltissimi sensi, ma che quando si tratta di riferirsi ai poteri dello Stato, alle capacità individuali e al rispetto della persona, devono essere trattate come uguali. Il “come se” è fondamentale perché adottare una prospettiva mentale che vede nell’altro non semplicemente una entità socio-economica o religiosa o culturale, ma un soggetto morale e politico che ha sue specifiche potenzialità. Per comprendere il senso dell’individualismo democratico occorre una cultura politica coerente. Faccio un esempio relativo all’Italia: è contraddittorio proclamare questi principi e poi promuovere una riforma della scuola come quella detta della “buona scuola”. Questa è palesemente indirizzata a rompere l’uguaglianza di opportunità e di capacità dei ragazzi di formare sé stessi indipendentemente dalle condizioni familiari e territoriali in cui per caso sono venuti al mondo o vivono. È una contraddizione. Esiste una coerente correlazione tra l’analisi critica e la definizione dei programmi di riforma. Senza questo collegamento, non avremmo che uomini politici che stanno nel mercato dei voti ovvero del consenso così come i piazzisti stanno nel mercato della compravendita dei beni, presentando sé stessi in vista di un unico scopo, quello di vincere, lasciando in secondo piano il contenuto: vincere per fare che cosa? Interpretare la democrazia come un gioco elettoralistico significa far transitare il consenso dai programmi – le cosa da fare o non fare – ai leader. Nella visione plebiscitaria di democrazia l’importante è che il capo vinca. A lui è poi demandato di prendere le decisioni, rispetto alle quale i cittadini non hanno voce. Del resto, se si vota ogni cinque anni perché doverli ascoltare nel corso dell’operato? Il paradosso di una democrazia plebiscitaria è che affinché i cittadini abbiamo voce occorrerebbe prevedere una permanente campagna elettorale – ma questo, come si intuisce, equivarrebbe negare la democrazia rappresentativa. Affinché in una democrazia elettorale la funzione dei cittadini non si riduca a quella di elettori è essenziale che i partiti siano retti su programmi e non identificati con un leader vincente. Qui sta la differenza tra un plebiscito dell’audience e una democrazia rappresentativa.

Scritto da
Matteo Giordano

Classe '96, studia Filosofia alla Sapienza di Roma.

Scritto da
Tommaso Sasso

Studia giurisprudenza all'università di Roma 3. È membro del Comitato di redazione di Italianieuropei.

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