Scritto da Francesco Rustichelli
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Massimo Campanini è un apprezzato orientalista italiano, storico del Medio Oriente contemporaneo e della filosofia islamica. Attualmente insegna Storia dei paesi islamici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento.
Abbiamo deciso di rivolgere al prof. Campanini alcune domande in merito alla storia recente e alla cronaca del Medio Oriente per approfondire meglio alcuni temi che già più volte abbiamo avuto modo di trattare su questo sito. Le domande poste a Campanini vertono sul concetto generale di Medio Oriente, sulle trasformazioni in atto nella regione, sulla fine del processo di de-colonizzazione e sulla nascita del radicalismo, sui casi egiziani e turchi, sulle primavere arabe, sulla natura dello Stato Islamico, sul pensiero politico islamico contemporaneo e sul concetto di democrazia in ambito arabo.
Ringraziamo sentitamente Massimo Campanini per la disponibilità che ha dimostrato e per la cortesia con cui ha risposto alle domande di questa intervista.
Quando parliamo del Medio Oriente è utile ricordare come in questa vasta regione le particolarità superino le omogeneità: si tratta di una realtà plurilinguistica, pluriculturale e plurireligiosa, di una identità multipla e conflittuale che sovente sfugge al pubblico europeo. La stessa categoria di “Medio Oriente” risulta essere problematica a livello teorico. Professor Campanini, quali sono gli elementi che dobbiamo avere ben presenti quando ne facciamo uso?
Campanini: Certamente la categoria di Medio Oriente è nata in Occidente, cioè non è una categoria che abbia un fondamento di tipo geografico e neanche culturale reale: è una definizione che è stata creata dagli europei quando si sono espansi, secondo logiche coloniali, al di fuori dei confini d’Europa e quindi hanno avvertito la necessità di “distinguere” l’Europa dagli altri territori. Da questa visione eurocentrica discende la definizione di orientali. Poi è chiaro che la categoria mantiene una sua fruibilità dal punto di vista pratico, nel senso che ormai è entrata nella prassi della comunicazione quotidiana. In questo contesto è comunque utilizzabile, ma in ogni caso bisogna considerare che è carica delle implicazioni e dei risvolti ideologici a cui abbiamo accennato e pertanto deve essere trattata con cautela. Ad ogni modo quando oggi si parla di Medio Oriente si intende ormai, rispetto alla fine dell’Ottocento quando questa categoria è nata, un assetto geopolitico molto ampio che comprende anche il Nord Africa e arriva fino ad oltre l’Iran, in piena Asia Centrale. Nei limiti più consueti e nella formula in realtà più precisa e accademica di MENA (Middle East and North Africa) si intendono i territori che vanno dal Marocco all’Iran latitudinalmente e dalla Turchia alla penisola arabica longitudinalmente.
La fase che viviamo oggi è caratterizzata da una intera “idea del Medio Oriente” che si sta sfaldando. Una concezione ancora frutto dell’opera delle cancellerie europee, specificatamente inglese e francese, e di trattati come il celebre Accordo Sykes-Picot del 1916. Siamo alla vigilia di un generale superamento di quei confini e all’emergere di nuove entità territoriali?
Campanini: Attualmente non mi sembra che si possa parlare di un reale superamento di quei confini. Direi anzi che il disegno – o il ridisegno – della carta geopolitica del cosiddetto Medio Oriente provocato dal colonialismo è ancora assolutamente valido e operante. Bisogna considerare che è stato proprio il colonialismo a creare i nuovi Stati-nazione nell’area mediorientale: prima non esistevano confini reali. L’idea stessa della nazione è un’idea importata dall’Europa e solo dopo applicata nel mondo arabo-islamico, malgrado ci fossero delle variabili che non corrispondevano alla realtà locale dei popoli arabo-islamici. Il colonialismo ha tracciato le grandi linee dei confini degli Stati nazionali, ha portato l’idea di Stato e ancor di più quella di nazione. Si tratta delle identità sulle quali gli Stati-nazione attuali tuttora si reggono. È però interessante rilevare come ci sia, anche a causa della disgregazione politica di una parte cospicua della regione, una tendenza alla trasformazione in senso federale degli Stati: l’esempio dell’Iraq è il più evidente, ma un esito di questo tipo è da tenere ben presente anche nel caso della Libia, della Siria e dello Yemen. Comunque credo che ancora oggi l’idea prevalente sia quella di uno Stato-nazione unitario, di una compagine statale racchiusa in confini ben precisi e con una identità nazionale, benché in vari contesti questa identità nazionale sia molto labile, non essendo esistita nel corso dei secoli ed essendo stata sostanzialmente creata dal colonialismo. Chi è il libico? Chi è l’algerino? Chi è l’iracheno? In realtà si tratta di figure abbastanza opache perché, se ci sono dei paesi come il Marocco o l’Egitto in cui è esistita per secoli una sorta di identità nazionale, gli altri in realtà non hanno mai avuto una vera e propria identità unitaria che è stata creata sostanzialmente dal nulla e che quindi rimane di fatto estremamente problematica.
La fase di costruzione postcoloniale degli Stati mediorientali ha visto il fallimento delle ideologie laico-secolari e nazionali. È in questo processo e nel conseguente vuoto ideologico e identitario che bisogna ricercare le origini del radicalismo islamico?
Campanini: Certamente si. Dobbiamo distinguere la storia contemporanea del cosiddetto Medio Oriente in tre fasi principali: la fase coloniale, la fase della decolonizzazione e la fase successiva alla decolonizzazione, in cui gli Stati hanno acquisito una vera e propria indipendenza. La fase della decolonizzazione è quella decisiva, in quanto ha rappresentato il trait d’union tra una realtà in crescita come lo Stato nazionale nella sua fase di nascita e sviluppo durante il periodo coloniale, e questo stesso Stato che si realizza compiutamente nel periodo post-decolonizzazione. Questo momento di passaggio molto delicato è stato gestito da élite militari, che hanno avuto un’influenza determinante nel racchiudere, nel reprimere le società civili e nell’imporre regimi autoritari. D’altra parte questi regimi militari erano anche tendenzialmente secolari o addirittura secolaristi. La maggior parte di queste élite militari ha represso e perseguitato il discorso islamico. Quando la fase della decolonizzazione è finita e le élite essenzialmente secolariste che si erano formate in essa sono entrate in crisi, chiaramente il discorso islamico è ritornato alla superficie. Naturalmente questo discorso si è sviluppato in molteplici direzioni e correnti, ha conosciuto diverse fasi di sviluppo e di affermazione: non è stato immediatamente radicale, estremista o terrorista. Ci sono state fasi di evoluzione ben distinte e differenziate in questo ritorno dell’Islam, non solo per quanto riguarda l’elemento che attira così tanto l’attenzione dell’opinione pubblica occidentale – ovvero il fenomeno terrorista e radicale – ma soprattutto rispetto all’islamizzazione dei costumi e della mentalità. Si è avuto un ritorno alla ricerca dell’identità nell’Islam, che era stata in qualche modo deformata dalle imposizioni secolariste del periodo della decolonizzazione.
Negli anni Settanta avvengono mutamenti cruciali a livello globale, cosa ha significato questo momento, dal punto di vista politico ma anche economico e sociale per i paesi del mondo arabo?
Campanini: Tra gli anni Settanta e Ottanta dal punto di vista economico giunge all’apice della sua parabola il rentier state, lo Stato che si basa sullo sfruttamento della rendita petrolifera e che inizia nello stesso momento la sua crisi. La questione petrolifera non coinvolge tutti i paesi dell’area, ma comunque c’è stato un ciclo di lungo periodo di crescita che va verso la conclusione. Questo a lungo andare ha sostanzialmente provocato un indebolimento delle classi medie e medio-basse, nonché una diffusione della povertà e delle disuguaglianze. Questi paesi sono andati nella direzione di un aumento della povertà piuttosto che di una sua diminuzione. Questo ha chiaramente provocato delle tensioni sociali interne, soprattutto in reazione ad altri due fenomeni estremamente importanti: la crescita demografica da una parte – si tratta di paesi da sempre caratterizzati da una forte espansione demografica – e l’aumento dell’alfabetizzazione – e quindi della coscienza, della consapevolezza – dall’altra. Questo secondo elemento incide soprattutto nelle fasce più giovani e più attive della popolazione. Questi elementi messi insieme – la crisi delle ideologie secolari, la crisi del sistema economico, l’impoverimento della classe media e medio bassa, l’esplosione demografica e l’aumento dell’alfabetizzazione – hanno creato una miscela che poi, con l’approfondirsi delle contraddizioni, è esplosa.
Professor Campanini, il caso dell’Egitto si presta perfettamente ad illustrate i temi peculiari della sua analisi
Campanini: Indubbiamente l’Egitto riguardo a questo discorso è, anche a livello interpretativo, un Paese esemplare. La sua parabola può essere veramente considerata paradigmatica di questa evoluzione. L’Egitto conosce in primo luogo una fase coloniale, dominata da regimi e tendenze di stampo vagamente liberale e occidentalizzante. Successivamente si ha una fase di decolonizzazione, in cui si afferma un élite militare di tipo secolarista, che reprime il discorso islamico. Infine si assiste ad una fase post-decolonizzazione, nella quale le élite borghesi – militari e civili – dell’epoca precedente, vanno in crisi. C’è una crisi economica, riemerge un discorso islamico, che man mano evolve e diventa in certe frange radicale o addirittura di stampo terroristico. L’esemplarità del caso egiziano ci aiuta anche a prendere in considerazione un altro aspetto significativo: i meccanismi relativi all’emergere dell’Islam non solo dal punto di vista ideologico, ma anche nell’ambito civile, degli usi e dei costumi. È un fenomeno che nasce dal basso, che proviene dal livello base della popolazione, mentre il fenomeno radicale o il fenomeno terrorista sono epifenomeni, sono marginali e collaterali. Per capire questo tipo di evoluzione è importante tenere presente che c’è un Islam o un sistema islamico non solo ideologico, ma anche educativo, pratico, sociale mainstream, dominante, che non è radicale – o magari lo è dal punto di vista della società, ma non da quello dell’azione politica –. Questo è quello che veramente incide, domina e condiziona la mente della popolazione. Sono tornato dal Cairo da poco: l’Egitto è un Paese assolutamente “normale”, apparentemente non succede niente: le persone si muovono, lavorano, scherzano, vivono e ogni tanto scoppia una bomba e muore qualcuno. È una situazione abbastanza paradossale, che però suggerisce quanto in realtà questi fenomeni di radicalismo e di terrorismo non siano veramente interni al tessuto sociale maggioritario, ma rappresentino degli epifenomeni, delle escrescenze. È una situazione analoga a quella che c’era in Italia negli anni Settanta: il terrorismo non era condiviso dalla maggioranza della popolazione. C’erano delle frange più o meno avanguardiste di destra o di sinistra, che portavano avanti una strategia della tensione di tipo terroristico. La situazione in Egitto è più o meno la stessa. Ovviamente un altro possibile parallelismo con la strategia della tensione in Italia riguarda il ruolo dello Stato e dei servizi: in Egitto c’è un sistema di potere autoritario che cerca di tenere sotto stretto controllo la società. L’impressione è che la popolazione egiziana per certi aspetti si affidi a questo autoritarismo perché ha paura ed è spaventata: il terrorismo è qualcosa che minaccia non solo le vite, ma anche la tranquillità sociale e l’economia. Di conseguenza un sistema autoritario che cerchi di tenere le cose sotto controllo viene considerato il “male minore”.
La forza dell’ISIS risiede anche nel suo progetto, di grande forza ideologica, di cancellare il modello statale postcoloniale e di riaggregare tutte le masse sunnite della regione all’interno di un unico soggetto politico senza più confini nazionali. Si può parlare di un’utopia califfale?
Campanini: Certamente sì: l’aspetto che più ha sedotto del messaggio dell’ISIS – almeno all’inizio – è stato proprio il richiamo a questa utopia del Califfato, cioè dello Stato Islamico vincente, forte, unito, che travalica i confini nazionali, unisce la comunità dei musulmani e si presenta come alternativo al neocolonialismo occidentale variamente mascherato. In seguito però l’ISIS, chiaramente, è diventato semplicemente un carnaio, una macelleria oscena davanti a cui anche gli stessi arabi rimangono attoniti. Credo quindi che questo tipo di messaggio ormai non abbia più nessun potere attrattivo. Chiaramente sull’ISIS allo stato attuale delle cose si possono avere solo opinioni più o meno fondate, ma non certo una compiuta analisi storica. Si tratta comunque di qualcosa su cui non sappiamo ancora la “verità”. Io sono convinto che l’ISIS non è quello che dice di essere, non è né uno “Stato islamico”, né una rivendicazione politica di masse diseredate; è un qualcosa di cui è difficile stabilire i contorni. La resilienza di cui gode e la potenza militare di cui dispone è inverosimile che si siano costituite autonomamente senza un aiuto esterno, senza che qualche istituzione, qualche stato o qualche gruppo di interesse abbia messo a disposizione organizzazione, denaro e armi. È difficile credere che dei terroristi ex al Qaeda o degli ufficiali sbandati dell’esercito iracheno riescano a mettere insieme una realtà così sofisticata: io ci vedo dietro qualcosa, un burattinaio o più di uno che ad oggi non siamo in grado di individuare. Ci sono degli aspetti dell’ISIS piuttosto oscuri, piuttosto difficili da decifrare. Se il messaggio dell’ISIS aveva inizialmente un’attrazione legata all’utopia del Califfato, della Umma dei credenti, è chiaro che quando questo presunto califfato invece di unire la Umma si mette a massacrarla – sono morti molti più musulmani che occidentali a causa dell’ISIS – è chiaro che questo tipo di messaggio viene a rivelarsi più uno specchietto per le allodole che una realtà ideologica e politica.
Forse la cornice in cui va inserita l’ISIS è quella del grande scontro tra sunniti e sciiti, con la ripresa dell’Iran dopo la rivoluzione khomeinista, che lancia una sorta di sfida al mondo prima egemonizzato dalle forze sunnite?
Se posso usare una metafora che mi piace molto: quello che ormai da decenni si può dire manchi al cosiddetto Medio Oriente è “un centro di gravità permanente”. Il Medio Oriente è una realtà talmente varia e caleidoscopica, talmente pluralizzata nelle religioni, nelle etnie, nei linguaggi, nelle obbedienze, nelle tradizioni, nelle vite quotidiane e nella presenza del petrolio, che senza un pivot, senza un pilastro che lo tenga insieme rischia di diventare un vaso di Pandora. Questo centro di gravità non c’è più da quando l’Egitto ha abdicato a questo ruolo, dalla fine degli anni Settanta. Ci sono state altre figure, da Saddam Hussein ai sovrani sauditi, a Gheddafi e adesso a Erdoğan, che hanno tentato di ricostituire questa sorta di pilastro che regge tutto il sistema. In realtà, però, non hanno avuto una reale occasione o non sono stati capaci di farlo. Questa mancanza di un centro ha fatto sì che le tensioni si acuissero. Quindi anche la rivalità egemonica tra sunniti e sciiti, tra Arabia Saudita ed Iran per il controllo del Golfo ma più in generale per l’egemonia su tutto il Medio Oriente è effettivamente l’esito di questa mancanza di un centro. Relativamente alla questione dell’ISIS o di altre infiltrazioni terroristiche, questa situazione più che esserne la causa ne è il pretesto: le rivalità tra Arabia Saudita e Iran, le contrapposizioni tra arabi, persiani e turchi, tra cristiani e musulmani, tra sunniti e sciiti, tra curdi e turchi sono tensioni che frantumano, indeboliscono il tessuto politico e sociale della zona e quindi facilitano l’infiltrazione di forze disgregatrici. Indubbiamente in un contesto di questo tipo le cosiddette primavere arabe sono state un disastro. Non in quanto tali, ma per il fatto che sono fallite: il loro fallimento ha ovviamente peggiorato il quadro della situazione, lo ha reso ancora più precario e fragile, più sottoponibile ad aggressioni esterne. È chiaro che in un orizzonte così labile l’inserimento di forze antisistema, che hanno interesse ad una destabilizzazione della zona, come l’ISIS adesso o al Qaeda prima – viene per molti aspetti indubbiamente facilitato.
Approfondiamo la questione delle primavere arabe e del loro fallimento.
Campanini: Intanto occorre ribadire che si è trattato appunto di un fallimento, con la parziale eccezione della Tunisia. La situazione è ancora una volta esemplificata dall’Egitto: non a caso la caduta del regime di Mubarak è stata un simbolo di questa stagione. Dopo una dura repressione il potere è tornato nelle mani dei militari e si è ricostituito un regime non dissimile da quello precedente. In generale si è trattato di movimenti spontanei e caratterizzati da una larga partecipazione popolare, nati dall’opposizione a regimi oppressivi e corrotti e da un insieme di rivendicazioni che si potrebbero riassumere con la formula “pane, libertà e giustizia”. Questi movimenti hanno duramente scontato l’assenza di una direzione politica, di quella che Gramsci avrebbe definito “una visione egemonica”: ciò ha comportato un loro progressivo indebolimento, sino all’esaurirsi della loro forza propulsiva. Nel caso della Siria e della Libia, le rivolte hanno contribuito alla disgregazione dello Stato senza essere in grado di proporre alternative. Un elemento che occorre mettere in luce per capire questo fallimento è la politica dei regimi militari autoritari, di cui già abbiamo parlato, che hanno represso e messo all’angolo ogni possibile fonte di opposizione interna, compreso l’Islam politico moderato e la cosiddetta società civile. Questi ultimi sono arrivati all’appuntamento con le primavere arabe in una condizione di fragilità, che non gli ha permesso di portare avanti quelle rivendicazioni che pure erano state formulate.
Come utilizzare il pensiero politico islamico contemporaneo per superare la visione di un Islam monolitico, immutato ed immutabile? Quali sono per lei, Professor Campanini, gli esiti del rapporto dialettico con l’Occidente e le sue ideologie?
Campanini: Esiste una vivacità intellettuale, piuttosto sconosciuta in Europa, del pensiero islamico contemporaneo. È una riflessione che ha molte sfaccettature e rivoli, che vanno da quello filosofico a quello teologico, da quello normativo a quello giuridico. Io sottolineerei due aspetti. Il primo è che questo tipo di pensiero non è solo teorico: il pensiero islamico contemporaneo è essenzialmente un pensiero pratico, che vuole trovare delle vie e delle soluzioni per cambiare la realtà, la società e la storia. Detto in altri termini, non esiste speculazione pura: che avvenga in campo filosofico, religioso o giuridico la riflessione ha comunque ben in vista il problema della trasformazione della realtà, della storia e della società. Trasformazione non significa necessariamente trasformazione progressista – la rivoluzione non è ipso facto progressista, ci sono anche delle rivoluzioni conservatrici – ma in ogni modo è finalizzata alla prassi, ad una modificazione della realtà. Il secondo aspetto interessante sta in una sorta di incomunicabilità o di afasia di questo tipo di pensiero: è un pensiero che vive una specie di contraddizione tra un’apertura, forse anche eccessiva, nei confronti dell’Occidente, che arriva a snaturare quello che è il carattere originario arabo-islamico di questa riflessione, e dall’altro lato una sorta di afasia: questo tipo di pensiero rischia di rimanere chiuso in se stesso, di rimanere confinato in un recinto proprio a causa di questa finalizzazione pratica all’interno di un campo autoreferenziale. Una autoreferenzialità che può essere anche pericolosa, perché evidentemente da una parte impoverisce il discorso teorico e dall’altra parte lo chiude, lo rende impermeabile. Questa sorta di dialettica è una cosa che mi sembra di verificare con grande puntualità nel contatto con questo tipo di pensiero.
Come si inserisce in questo quadro la parabola della Turchia, dal “primo Erdoğan” della via islamica alla democrazia all’insegna di un connubio di etica musulmana e spirito del capitalismo sino al progetto neottomano ed alle attuali involuzioni autoritarie? Cosa rappresenta il “modello turco”?
Campanini: Erdoğan e il suo partito hanno cercato di affermare una sorta di egemonia turca nel Medio Oriente presentando il modello di un islamismo moderno e modernizzato, di una via islamica al capitalismo. Sarei invece più cauto nell’usare il termine “democrazia”: questo tipo di esperienze non sono mai immediatamente ed automaticamente riducibili a quelle che sono avvenute in Occidente. Indubbiamente però Erdoğan e il suo partito hanno tentato di proporre un modello turco di Islam moderno e moderato che potesse essere egemone. Questo tipo di progetto ha due ostacoli davanti a se: il primo è il fatto che la Turchia, pur essendo un Paese di grande peso non solo demografico e militare ma anche economico, è però “sola” e per i retaggi storici risalenti alla dominazione ottomana non è facile per lei riscuotere l’adesione degli arabi. Quello che secondo me era di fatto un sogno perseguito da Erdoğan, soprattutto quando sono esplose le primavere arabe, quello di proporre la Turchia come una sorta di alfiere, di fer-de-lance, del Medio Oriente, in realtà ha lasciato gli arabi molto tiepidi. Non so quanto un modello turco possa essere esportabile in situazioni non turche, in una realtà araba, né tantomeno in una realtà persiana dove vige il khomeinismo con tutt’altra struttura ideologica e di potere. In secondo luogo la Turchia oggi deve fare i conti con altre potenze regionali e con un tentativo egemonico “triangolare”, di cui Turchia, Iran e Arabia Saudita sono tre vertici completamente eterogenei, completamente diversi l’uno dall’altro. La Turchia è sunnita e l’Iran sciita, ma l’Arabia Saudita sunnita è completamente diversa dalla Turchia: sono tre vertici molto distanti ed è difficile che possano trovare una convergenza. Nei confronti di questo gioco anche le ambizioni di Erdoğan non hanno molte possibilità di concretizzarsi in una reale egemonia. Nel contesto di un’egemonia regionale non soltanto turca ma plurale, turco-saudo-iraniana, è evidente che certe ambizioni di fare del modello turco un modello unico a cui tutti possano riferirsi diventino utopistiche.
È possibile intravedere quali saranno i caratteri della Presidenza Trump? Come valutare la scelta di figure come quella di James Mattis in ruoli chiave della futura amministrazione? Come si evolverà la politica estera americana nei confronti dei due principali attori regionali, l’Arabia Saudita e l’Iran?
Campanini: Secondo me oggi come oggi è ancora totalmente una incognita, perché Trump non ha alcuna esperienza politica internazionale e si muove molto a tentoni. Non siamo oggi assolutamente in grado di prevedere quali potranno essere le mosse in politica estera dell’amministrazione Trump. Certo Mattis ufficialmente è un interventista, un falco e non sembra essere una persona in grado di garantire un approccio totalmente equilibrato ai problemi. D’altra parte bisogna dire che anche la stessa amministrazione Obama, che era partita con squilli di tromba e che sembrava dover ottenere grandi risultati non ha migliorato la situazione. Anzi, proprio durante l’amministrazione Obama c’è stata l’affermazione dell’ISIS e la disgregazione di Iraq, Siria e Libia: dal punto di vista delle questioni mediorientali si è trattato di un’amministrazione del tutto negativa, fallimentare. A questo punto pragmaticamente l’unica cosa da fare è aspettare e vedere. Certo, non credo che ci sarà un significativo mutamento di direzione politica, fatta eccezione per i rapporti con l’Iran. Trump rimarrà tendenzialmente filo saudita e filoisraeliano. È chiaro, però, che i primi passi non denotano una conoscenza apprezzabile della situazione, né tantomeno un piano di politica estera preciso, il che naturalmente è estremamente preoccupante. Una amministrazione statunitense che in un pantano di quel genere si muove senza una schema articolato farà probabilmente ancora più danni e questa non è certamente una prospettiva positiva.
Per concludere, Professor Campanini, le sfide che Islam deve affrontare nel futuro prossimo sono molteplici, esiti non incompatibili con forme di governo democratiche sono possibili? Quale ruolo possono giocare in questo processo l’Occidente e in particolare l’Europa?
Campanini: Le evoluzioni democratiche, come le chiamiamo noi, sono ancora sicuramente possibili, ma ora innanzi tutto vorrei ribadire una cosa: un equivoco da cui dobbiamo uscire obbligatoriamente è che queste evoluzioni democratiche lo saranno secondo modalità perfettamente sovrapponibili a quelle europee. In Medio Oriente la democrazia avrà caratteristiche arabo-islamiche, cioè non potrà essere la democrazia British o statunitense. Tenendo presente che il concetto stesso di democrazia è molto vago e non deve essere limitato alle questioni procedurali, se comunque noi intendiamo con questo termine un sistema di tipo parlamentare rappresentativo, in cui vengono garantiti certi diritti e applicate certe regole, bisogna poi declinarlo in loco. Rimanendo al caso dell’Egitto, di cui abbiamo già parlato, non si può pensare di realizzare una democrazia di tipo British, non ha senso, e il contesto non può essere tralasciato quando si esaminano sul piano teorico questi regimi autoritari. Quando l’Italia ha affrontato la stagione del terrorismo aveva alle spalle un certo tipo di evoluzione democratica, che era passata attraverso la Resistenza, attraverso la partecipazione anche delle masse ad una serie di esperienze storiche. L’Egitto non ha questo tipo di passato e quindi le idee e i principi devono essere adattati ai contesti. Sulle ceneri di uno stato distrutto com’era l’Iraq dopo Saddam Hussein, sulle ceneri di uno stato distrutto quale sarà la Siria quando mai la guerra finirà non si può pretendere di mettere in piedi un sistema democratico che non tenga conto di questo passato. Lo vediamo per esempio anche in Libia. Noi ci aspettiamo e pensiamo che in Egitto, Siria o Iraq possano funzionare dei sistemi politici che siano fotocopia di quelli occidentali, ma la realtà è diversa, le esigenze sono diverse, la storia è diversa, la mentalità è diversa. Quindi cominciamo a chiarire di che democrazia stiamo parlando, a tenere conto del fatto che ci sono percorsi ed esigenze diverse. Diamo spazio ad una rilettura islamica delle libertà civili, dei diritti umani e del pluralismo politico e religioso che molti intellettuali musulmani stanno portando avanti. Così quando ci sarà la possibilità di realizzare un sistema politico pluralistico di tipo rappresentativo, che garantisca certi tipi di diritti, si potranno prendere in considerazione le condizioni e le necessità del tempo e del luogo. La grande sfida del futuro è appunto la formulazione del concetto e dei contenuti di una “democrazia” islamica.