Scritto da Lorenzo Cattani, Enrico Cerrini
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Giuseppe Berta è stato docente di storia contemporanea all’Università Bocconi di Milano e si è occupato principalmente di storia dell’industria e storia delle élite economiche. Fondatore e presidente dell’ASSI (Associazione di Storia e Studi sull’Impresa), è stato inoltre a lungo responsabile dell’Archivio Storico Fiat. Autore di numerose e importanti pubblicazioni, di cui ricordiamo alcune tra le più recenti, che abbiamo recensito su Pandora Rivista: Chi ha fermato Torino? Una metafora per l’Italia, Einaudi Torino 2020; Che fine ha fatto il capitalismo italiano?, il Mulino 2016; La via del Nord. Dal miracolo economico alla stagnazione, il Mulino 2015; Produzione intelligente. Un viaggio nelle nuove fabbriche, Einaudi 2014 e L’ascesa della finanza internazionale, Giangiacomo Feltrinelli Editore 2013.
L’intervista verte sulle caratteristiche e sulle problematiche del capitalismo e del sistema industriale italiano e sui suoi possibili sviluppi futuri in rapporto ai cambiamenti globali a cui stiamo assistendo. I temi affrontati in questa intervista, unitamente ad altre questioni, vengono trattati da Berta anche in un articolo uscito su un numero cartaceo di Pandora Rivista dedicato alla politica industriale.
Nel suo libro Che fine ha fatto il capitalismo italiano? parla delle locomotive dello sviluppo, chiedendosi se il Nord-Ovest sia ancora un’area forte in Europa. Nello specifico, afferma che il Nord-Ovest ha risentito di un processo di sfaldamento delle grandi organizzazioni. È possibile ricreare tali locomotive solo tramite le piccole e medie imprese senza apporti significativi da parte della grande imprenditoria, che secondo lei in questo momento vive una fase di “destrutturazione del capitalismo”?
Giuseppe Berta: Credo che il nucleo della nostra industria sia oggi composto dalla concentrazione delle medie imprese dinamiche ed esportatrici, diffuse nel tessuto economico del Centro-Nord. Non dalle piccole, che spesso arrancano con difficoltà: non dimentichiamo che l’80% del valore della produzione manifatturiera è realizzato da appena un quinto delle imprese italiane. Ciò significa che il resto – cioè i quattro quinti – concorrono soltanto per il 20%, il che denota lo stato difficile e spesso a rischio in cui esse versano. E tuttavia le medie imprese rappresentano una base insufficiente per trainare lo sviluppo italiano nel suo complesso. E allora ci vorrebbero condizioni diverse per la ripartenza dell’economia: si potrebbe ipotizzare la crescita di un nuovo grappolo di grandi imprese. Ma personalmente sono impressionato dal fatto che l’unica nuova grande impresa italiana, cresciuta dagli anni Sessanta a oggi, cioè Luxottica, abbia scelto per il suo futuro un’alleanza con un’impresa francese che implica il trasferimento a Parigi del suo centro direttivo (con il delisting dalla Borsa di Milano). Ciò è grave, in quanto segnala che le grandi imprese non trovano nel contesto italiano una situazione favorevole per il loro consolidamento. L’altra condizione, che mi sembra forse meno improbabile della prima, è di ipotizzare una crescita del numero delle medie imprese, dal momento che non vedo una “grande imprenditoria” disposta investire in Italia. Dovremmo cioè costituire un retroterra favorevole al potenziamento del sistema dell’impresa media, in modo da moltiplicare il numero dei suoi attori.
Nel libro lei mette in guardia contro i rischi della “sovraqualificazione”, affermando che una più corretta allocazione dei “lavoratori della conoscenza” è cruciale per lo sviluppo economico italiano. Da questo punto di vista, cosa ne pensa del recente “sistema duale” messo in piedi dall’ultima riforma scolastica? Pensa che in questo modo si possa arginare il problema della “overeducation”, almeno per chi non sceglie di iscriversi all’università? Infine, è possibile pensare un piano d’azione simile anche per i laureati?
Giuseppe Berta: Non credo che una questione così complessa come quella della tendenziale sovraqualificazione dei lavoratori possa essere affrontata e risolta mediante l’alternanza scuola-lavoro. Io ci vedo soprattutto uno scarto grave e crescente fra l’intelligenza collettiva presente nel lavoro giovanile e le possibilità d’impiego che esso può trovare. Si tratta di una questione che è presente in tutta la società occidentale e che riguarda lo spreco di risorse attuato dai modi di organizzazione dell’economia.
Il problema della conoscenza dei lavoratori non influisce solo sul loro lavoro, ma anche sulla rappresentanza. Lavoratori più qualificati sono maggiormente consapevoli delle proprie mansioni e delle dinamiche aziendali. Nel libro Produzione intelligente, lei prende spunto dagli scritti di Bruno Trentin, Lavoro e Libertà, per ricordare come sia necessaria una rivisitazione del ruolo del sindacato in modo da coinvolgere i lavoratori nelle decisioni aziendali. Come è percorribile questa strada?
Giuseppe Berta: Questa è una domanda molto difficile perché chiama in causa le politiche e le attitudini del movimento sindacale. Il quale mi sembra oggi schiacciato dentro una contraddizione: da un lato, deve far fronte alle urgenze immediate del lavoro, inerenti soprattutto alla sua mancanza e al fatto che vengono meno molti posti di lavoro; dall’altro, dovrebbe esprimere complesse istanze partecipative che, per loro natura, riguardano solo alcuni segmenti, piuttosto elevati, del mondo del lavoro. Dunque, il sindacato è preso in una morsa, che lo sollecita a rispondere a molte domande divergenti. Dovrebbe compiere un gigantesco sforzo di autoformazione, che in questo momento non so se abbia le risorse per fare.
Allo stesso tempo, la controparte, ovvero Confindustria, è interessata ad un maggiore coinvolgimento dei lavoratori nella vita dell’impresa? E soprattutto, anche se fosse interessata, la sua voce può essere ancora determinante nella vita delle imprese affiliate, in modo da rendere effettive le decisioni? Eventualmente, come dovrebbe comportarsi Confindustria per riacquisire la rappresentatività perduta?
Giuseppe Berta: Al momento mi sembra che la Confindustria sia del tutto priva di influenza, sfidata nella sua stessa esistenza. Non c’è mai stato un presidente tanto debole come Vincenzo Boccia e la rappresentanza imprenditoriale mi pare incapace di esprimere un orientamento. Che dovrebbe fare? Ripartire dalle imprese e dai loro problemi! Già, ma da quali imprese? Non certo dalle poche grandi che sono rimaste, ENI, ENEL, Poste, ecc.; che fanno parte di un blocco di consenso “politico” di estrazione governativa. Leonardo-Finmeccanica potrebbe essere l’eccezione, ma ha bisogno di un nuovo vertice. Dovrebbe certamente privilegiare le imprese più dinamiche, le medie, come ho già detto, ma ciò significa avviare una radicale revisione della rappresentanza, che temo Confindustria non abbia le risorse per operare. Certo, se va avanti così, la decadenza di Confindustria è scontata.
Quali sono le prospettive future di FCA, che da Confindustria è rumorosamente uscita? Leggiamo in questi giorni che sono in programma nuovi investimenti negli Stati Uniti. Ma quali saranno le relazioni con l’Italia? L’azienda si allontanerà lentamente dalla madrepatria oppure Torino resterà centrale per il gruppo internazionale?
Giuseppe Berta: Già da tempo Torino non rappresenta per FCA la sede del proprio quartier generale. Nel medio periodo il destino del gruppo sta in una nuova fusione. Il candidato naturale, vista l’attuale tendenza alla focalizzazione sugli Stati Uniti, ruvidamente sollecitata anche dal presidente Trump, è General Motors, che si sta riposizionando a propria volta (attraverso la probabile cessione di Opel a PSA). Ma si tratta di un’ipotesi che va vagliata nei fatti. Per quanto riguarda l’Italia io penso che dovrebbero essere al sicuro le produzioni relative ai marchi Maserati e Alfa Romeo (che potrebbero presto confluire in una società autonoma). Vedo forse più incerta la produzione del marchio Jeep, che è un marchio tipicamente americano. Per il nostro Paese è però importante mantenere una quota significativa di produzione in Italia: ricordiamo che l’anno scorso circa 120.000 vetture prodotte qui hanno presso la via degli Stati Uniti. Ciò significa che l’export del Mezzogiorno è fortemente dipendente dall’auto.
Il capitalismo italiano nel contesto globale
Ad oggi, molte vecchie aziende automobilistiche collaborano con i nuovi colossi di Silicon Valley per commercializzare auto a guida auonoma. La stessa FCA sta collaborando con Google, mentre altri progetti si sono arenati, come quello relativo alla Apple Car. Che futuro intravede per queste collaborazioni? Potranno aprirsi opportunità per un mercato del lavoro che sia in grado di assorbire i tanti operai sovraqualificati che lavorano nell’industria dell’auto?
Giuseppe Berta: La produzione della driverless car, a quanto è dato di capire, non si svilupperà certo a partire da un paese come l’Italia. Si tratta di una partita che si gioca su scala mondiale e che, appunto, sarà condizionata dalla presenza di nuovi attori del sistema della mobilità come Tesla, Google e, probabilmente, anche Apple. L’Italia non può sperare di avere un ruolo di primo piano. Può però incanalare le proprie competenze all’interno di nuove filiere produttive imperniate sull’auto elettrica a guida autonoma. Ma perché questo avvenga servono la rapidità degli operatori italiani e l’esistenza di piattaforme tecnologiche atte a favorirli.
In questo momento, sembrano tornati ad essere centrali nel gioco politico i lavoratori non qualificati. Donald Trump ha vinto le elezioni statunitensi anche grazie alla promessa di creare occupazione per quella classe di lavoratori poco qualificati che prima della crisi lavorava nelle fabbriche automobilistiche di Detroit e Toledo. La promessa del neopresidente è quella di un maggiore protezionismo sulle merci Cinesi e Giapponesi oltre che una tassazione insostenibile per le aziende americane che decidono di produrre all’estero. Quali sono gli esempi storici dell’applicazione di questa ricetta e cosa ci possiamo aspettare? Pensa che potrà avere una reale applicazione o resterà lettera morta?
Giuseppe Berta: Gli esempi storici sono negativi: nel 1930 il parlamento americano varò una legge – lo Smoot-Hawley Act, dal nome dei due uomini politici repubblicani che la promossero – che introduceva una tariffa protezionistica generalizzata. Henry Ford, il magnate dell’auto, trascorse una serata alla Casa Bianca, cercando di convincere senza successo il presidente Herbert Hoover che era una misura sbagliata. L’esito della politica voluta dai repubblicani fu fallimentare: la produzione dei prodotti americani cadde ancora di più e la Grande Crisi si trascinò per anni, con effetti terribili sull’occupazione. Il problema non era il protezionismo, ma il rilancio della domanda interna come comprese Franklin Delano Roosevelt, che non a caso costruì su questo principio la politica economica del New Deal. Il problema è simile anche oggi, a causa della forte polarizzazione dei redditi che si è verificata negli ultimi vent’anni. Ci vorrebbe una politica redistributiva, ma Trump fa esattamente il contrario: vuole abbattere le tasse e lasciare completa mano libera a Wall Street, mentre non fa nulla per elevare i salari. Le conseguenze saranno sicuramente pesanti.
Il suo libro L’ascesa della finanza internazionale racconta la formazione del capitalismo finanziario nella Londra del XIX secolo. Oggi la finanza ha acquisito un valore sempre maggiore e si è attirata gli strali della gran parte della popolazione, che la interpreta come una minaccia da abbattere per riconquistare il potere d’acquisto perduto. Al netto dell’umore dei cittadini, appare necessaria una riforma del settore che limiti gli effetti sull’economia reale. Sfortunatamente non intravediamo ancora una riforma incisiva in tal senso, sebbene se ne parli dall’inizio della crisi dei mutui subprime del 2007. Come interpreta questo lassismo?
Giuseppe Berta: Chi si attende che la riforma del mercato finanziario possa venire dai movimenti d’intonazione populista è vittima di un’illusione. Come ho appena detto, Trump avrà pure preso i voti dei forgotten, i dimenticati, come li chiama lui, cioè coloro che sono stati lasciati indietro dalla globalizzazione, ma si è servito del loro consenso per riempire il governo di speculatori. Per giunta, vuole cancellare le poche regole a disciplina dell’attività finanziaria che sono state introdotte dopo la crisi degli ultimi anni. D’altronde, la nuova destra aggressiva e nazionalistica si avvale delle risorse che derivano da oscure speculazioni internazionali condotte da paesi che sono maestri nel rendere opache le loro operazioni. Ecco perché nutro poca speranza nel futuro di una regolazione stringente che ponga severi limiti alle manovre speculative.
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