Intervista a Giuseppe De Rita
- 22 Giugno 2016

Intervista a Giuseppe De Rita

Scritto da Giacomo Bottos, Raffaele Danna, Lorenzo Mesini

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Le personalità interpellate nell’ambito delle interviste promosse da Pandora provengono da ambiti differenti. La composizione di ottiche, punti di vista e competenze differenti è un prerequisito necessario per un tentativo di comprensione della complessità del presente. In questo quadro la comprensione delle trasformazioni della società da un punto di vista antropologico, economico e sociologico, svolge un ruolo centrale. Per questa ragione abbiamo deciso di intervistare Giuseppe De Rita, fondatore e presidente del Censis (Centro Studi Investimenti Sociali), autorevole istituto di ricerca impegnato nello studio della società italiana. L’intervista è a cura di Giacomo Bottos, Raffaele Danna e Lorenzo Mesini.


Dottor De Rita, Lei ha scritto nel suo Dialogo sull’Italia che gli schemi e gli strumenti di ricerca sociale si rivelano inadeguati a descrivere pienamente le dinamiche e i profondi cambiamenti in corso nella nostra società. Che cosa intendeva dire con questo? Quali sono secondo lei i limiti e le prospettive di un programma di ricerca sociale che voglia raccogliere la sfida di interpretare i cambiamenti in corso? Qual è stato il ruolo che l’uso improprio di strumenti di indagine come i sondaggi ha giocato nella crisi della rappresentanza nella società italiana?

De Rita: Ci sono tre fattori che creano una situazione di difficoltà per la ricerca sociale in Italia. Il primo è dato dai ricercatori sociali che non mi sembrano, me compreso, in grande forma. Tutti centrati su se stessi, sulla loro carriera, anche accademica. Qualcuno si accorge che a Roma oltre al CENSIS ci sono centocinque professori di prima e seconda fascia di sociologia?  Centocinque professori di sociologia nella stessa città dovrebbero spaccare il mondo. C’è un declino della cultura della ricerca sociale che è profondamente connesso al declino delle persone.

Secondo punto. C’è un declino di questo tipo di ricerca perché una considerazione basata solo su fattori sociali oggi non è più sufficiente. Noi al CENSIS facciamo i socio-economisti. Poi, una volta all’anno, ho la possibilità di fare una riflessione di carattere generale, di filosofia della società. La nostra è una professione che è fatta di incroci con altre discipline, come l’economia o l’urbanistica. Posso citare ad esempio il nostro testo sul cratere dell’Aquila e il terremoto, dove il sociale c’entra fino a un certo punto. L’ibridazione ha diminuito l’autonomia del sociale. In particolare, le ibridazioni praticate fino ad oggi non bastano più: quelle con l’economia, con l’urbanistica, con il diritto sono quasi obbligate e danno poco. Quella che potrebbe dare maggiori risultati è quella con l’antropologia. Oggi, per fare ricerca sociale bisogna fiutare e capire i caratteri antropologici più diffusi. Si parla molto di individualismo, egoismo, nichilismo, narcisismo: sono tutti fatti antropologici. Chi fa oggi studi nel sociale sul narcisismo? In definitiva, il collegamento e l’ibridazione con altre discipline non è riuscito o non riesce, almeno per ora, a dar molto.

Il terzo punto riguarda la strumentazione. Noi ricercatori sociali abbiamo sempre pensato che il primato metodologico andasse dato non al sondaggio ma all’interpretazione, alla conoscenza dell’oggetto. Il sondaggio è visto come un elemento quasi iconico: come recepiamo l’opinione? I primi lavori della Doxa, negli anni Quaranta e Cinquanta, erano incentrati sulla conoscenza del consumatore, dell’elettore. Ecco, è questo rapporto di conoscenza della controparte, cioè della realtà che dobbiamo valutare, che è andato svanendo. Non è soltanto la tecnica del sondaggio che salta, ma certe volte mostrano i loro limiti anche forme più sofisticate di indagine: focus group o analisi di campo, a cui sfugge l’oggetto della ricerca: le persone, i gruppi sociali, la realtà territoriale che si vuole interpretare. Ci troviamo di fronte a ciò che noi chiamiamo lo “scaltro genio dell’oggetto”: l’oggetto intervistato si nasconde, risponde come vuole, non si fa più interpretare. Non si tratta di un puro fatto strumentale (“non funziona il sondaggio”). Non c’è più quel rapporto, anche di confidenza, tra interprete e interpretato che una volta c’era. Questi sono a mio avviso i tre principali fattori.

 

De Rita e il processo di cetomedizzazione

Nel suo lavoro di ricerca Lei ha descritto in modo articolato il processo di cetomedizzazione che ha caratterizzato la società italiana dopo il secondo conflitto mondiale. Ha anche affermato che tale processo è avvenuto in Italia in modo non del tutto efficace. Questa crisi della configurazione della società di mezzo è da imputarsi solo a cause di natura esogena alla società italiana o si è trattato anche della crisi di alcune delle sue dinamiche interne?

De Rita: Il processo di cetomedizzazione è inscritto negli anni Settanta perché lì ci sono tutte le condizioni per un passaggio di agiatezza, di orgoglio, di scala sociale, di status. Negli anni Settanta avvengono una serie di processi fondamentali, di cui all’epoca non ci si era resi conto. La stampa non si occupava di quelle cose, ma dall’autunno caldo, della cacciata di Lama, della morte di Moro: cose certamente importanti ma che non hanno inciso sulla struttura sociale italiana.

Cos’è successo negli anni Settanta? Primo: l’esplosione dell’economia sommersa. Tutti hanno potuto fare quello che volevano, per agire, organizzare, guadagnare. Secondo: l’esplosione del lavoro indipendente, un settore che poi è diventato enorme. Terzo: l’aumento del numero della imprese. Soltanto nell’industria le imprese sono passate da 500 000 nel 1971 a un milione nel 1981, il che significa che in dieci anni abbiamo raddoppiato lo stock di imprese private. Quarto: i processi di migrazione interna che erano iniziati negli anni del boom, negli anni Sessanta, si sono consolidati. Di fatto si era conclusa l’avventura del meridionale che arrivava a Sesto San Giovanni, e c’era invece chi a Sesto San Giovanni si organizzava diversamente: si insediava, comprava casa ecc.
Quinto: la grande corsa al mutuo per la casa. Sesto: il grande aumento dell’impiego pubblico: dai bidelli nella scuola agli insegnanti (legge Andreatta 1977-1978), la legge per il laureati ecc.

Tutti questi elementi hanno contribuito alla formazione del ceto medio. Questa società è diventata di fatto un grande lago in cui tutti confluivano: il lago del ceto medio. Nel lago del ceto medio entrava il forestale calabrese assunto dalla pubblica amministrazione come bidello, che diventava impiegato pubblico, percepiva uno stipendio sicuro, si faceva la casa, abusiva o meno. Ma ne veniva a far parte anche il professore di latino e greco dei grandi licei italiani, una volta considerati l’élite del mondo: un professore capace anche di scrivere libri, che poi è diventato un impiegato pubblico. Tutto ciò ha creato una sorta di ammassamento sociale in questo metaforico lago. Questo ha comportato due difetti.

Primo: gli appartenenti al ceto medio erano troppi e troppo diversi. Per questo la parola cetomedizzazione era la più corretta: non si trattava di imborghesimento di altri ceti e nemmeno della formazione di una nuova borghesia, di una nuova classe, del terzo o del quarto stato. Fu peraltro anche la dimensione di questo processo di cetomedizzazione a far si che la nuova entità sociale assumesse un carattere informe.   Quando in questo lago sono finiti milioni e milioni di persone, l’informità era inevitabile.

Secondo: psicologicamente la cetomedizzazione ha significato l’assunzione di caratteri propri della piccola borghesia, soprattutto sul versante dei consumi: la seconda casa, la seconda macchina, il telefonino ecc. Questo è stato un aspetto dirimente dell’imborghesimento. Tutto faceva parte di questo fenomeno, che però non dava luogo all’emergere di una nuova borghesia, magari espressione di una parte di tale ceto medio. Questo non è avvenuto: il ceto medio è rimasto lì a sobbollire e adesso ne paghiamo le conseguenze. Voi giustamente richiamate il fatto che è arrivata la crisi. La crisi non ha favorito un passo in avanti del ceto medio verso l’assunzione di una responsabilità neoborghese, ma ha invece comportato un passo indietro del ceto medio verso la prudenza contadina, la sobrietà dei consumi, l’accumulo dei risparmi. Siamo diventati più prudenti e questo non ha favorito certo uno sbocco positivo del ceto medio.

Nel libro Il popolo e gli dei Lei delinea il progressivo divorzio tra élite (politiche, economiche…) e popolo. In uno sguardo retrospettivo, con riferimento al ruolo della politica e al suo rapporto con la società nella storia italiana del dopoguerra, Lei sembra riconoscere alla politica un ruolo duplice. Da un lato un ruolo di accompagnamento e promozione dello sviluppo sociale e della crescita economica; dall’altro di essere all’origine, o comunque di aver aggravato, alcune delle tendenze che stanno alla base di certi problemi della società italiana di oggi. Potrebbe chiarire meglio questa complessa relazione?

De Rita: Torno agli anni Settanta, che un giorno qualcuno dovrà studiare meglio. Negli anni Settanta il ruolo della politica fu discusso a lungo, anche perché tutto ribolliva intorno a noi: c’era la paura della pistolettata quando uscivi dal cancello, gli scioperi generali del 1969 e poi del 1972. C’era un casino infernale. La politica che faceva, che doveva fare? Eppure c’era qualcosa di più profondo che stava accadendo, anche rispetto al tema della fermezza contro il terrorismo.

Ci fu una lunga discussione tra Andreotti e Moro sulle loro rivistine politiche. Nella rivista dei morotei Moro scrisse che in una società come quella degli anni Settanta, caratterizzata da capacità di movimento e sviluppo economico dato anche dalla piccola impresa, la politica dovesse orientare i processi, accompagnarli verso un fine, dare loro un orientamento, una direzione. Con ciò si riaffermava l’idea morotea del primato della politica: la politica deve guidare la società. Andreotti rispose, nel maggio del 1973, sulla sua rivista “Concretezza”, dicendo invece che compito della politica non era quello di orientare la società ma solo di rassomigliarle, perché solo rassomigliandole si prendono i voti.

Questo nodo non è mai stato risolto. I due hanno avuto destini diversi. Dopo la morte di Moro, quattro anni dopo, nessuno avrebbe preso il suo ruolo ed ereditato la capacità morotea di fare disegni. Lo stesso Berlinguer non era nelle condizioni politiche di fare grandi disegni. Andreotti, d’altra parte, continuava a rassomigliare alla società, non aveva alcun problema. Così siamo andati avanti con una politica che è diventata sempre più simile alla società sino all’arrivo di Berlusconi e poi di Renzi, che avevano mostrato l’intenzione di restituire alla politica un primato. Lo stesso Berlusconi disse di voler cambiare tutto e di fatto non ha cambiato niente. Però vi era una stanchezza diffusa nei confronti di tutto il sistema precedente, dovuta all’idea che il tran tran andreottiano basato sul tentativo di assomigliare alla società conducesse a una politica inerme e inerte. Assomigliando alla società non devi far nulla. Il consenso dato a Berlusconi nel 1993 e poi anche a Renzi, nasceva dalla convinzione che fosse arrivato uno che si sarebbe ripreso la responsabilità di riorientare la società nel suo complesso. Non saprei dire quanto questo sia possibile, o quanto questo sia in qualche modo passibile di un certo successo, ma ho forti dubbi al riguardo. Alla fine si continua sempre ad assomigliare alla società. Per fare politica bisogna prima di tutto capire la società, ma se si vuole dare un imprinting esterno ad essa, rivendicando un primato della politica, allora serve una politica delle riforme. Di tanto in tanto viene rivendicato questo primato della politica ma poi questo proposito in genere fallisce.

Lei ha affermato che la società italiana ha attraversato un processo di imborghesimento. Tale processo però ha portato alla diffusione soltanto di alcuni tratti dell’ethos propriamente borghese. Uno dei risultati di questa dinamica è che «oggi la classe si configura come stile di vita […] Questa cultura non può declinarsi in una critica di mera rivendicazione, è piuttosto legata a uno stile, a un modo di essere, a un ambiente, è un linguaggio». Potrebbe descriverci più approfonditamente questo processo che ha portato da una coscienza collettiva a un orizzonte di senso individuale e fondato sulla cultura del consumo? Quali sono secondo Lei le contraddizioni insite in queste dinamiche? Come si lega questo processo alla crisi della borghesia da Lei delineata nel libro L’eclissi della borghesia?

De Rita: Il nesso c’è e va spiegato. Esso deriva dal fatto che il ceto medio non è diventato vera e propria classe, che la neoborghesia come classe non è mai nata. Perché non è nata? Perché la classe è diventata un modo di vivere, un comportamento, non un’appartenenza statistica o sociale. L’origine della classe è un nesso tra interessi e identità. La rappresentanza politica e sindacale nasce a fine Ottocento, su due gambe: quella della rappresentanza degli interessi e quella della rappresentazione di un’identità collettiva. Si difendono quindi gli interessi dei lavoratori (l’orario, il salario, la sicurezza sul lavoro) da un lato e un’identità proletaria e sindacale dall’altro: da qui la classe operaia. Queste due cose, interessi e identità, sono sempre andate insieme. Anche la classe padronale, che sorge negli stessi anni, ha l’interesse di difendersi dagli scioperi incipienti della classe operaia e al tempo stesso difende un’identità. La prima associazione degli industriali italiani credo sia nata a Monza, non a caso vicino a Milano, dove c’erano grandi scontri e un’attività industriale di prima grandezza. Quindi c’era da un lato l’orgoglio di essere industriale dall’altro l’interesse di difendersi da quegli altri, da chi, ai loro occhi, aveva creato quella situazione.

Il ceto medio non è nato così: non c’erano interessi e identità. Quali erano i due piedi, le due gambe comuni su cui si posava? Negli anni Settanta l’interesse era quello di crescere, di esplodere: di creare nuova occupazione, nuova impresa, nuovo lavoro indipendente, di avere meno tasse ecc. Ma dopo? Di quali interessi sono portatori i nuovi ceti? Di quale identità? In parte di un’identità medio-alta (mandiamo i figli ad Harvard), ma così ritorniamo alle élite: non si tratta di un’identità di classe e diffusa. Oggi non abbiamo queste due gambe di formazione della classe. L’unico elemento di classe che il ceto medio ha ottenuto e perseguito è l’imborghesimento dei consumi e dei comportamenti.

Il popolo della sabbia

Lei afferma che una delle conseguenze della globalizzazione e del capitalismo finanziarizzato è che i processi decisionali tendono progressivamente a verticalizzarsi in centri di potere sempre più lontani dalla dimensione orizzontale del territorio. Questi processi di allontanamento e dislocazione della sovranità assumono forme peculiari in Italia? Come si sono articolati concretamente in Italia i processi di neoliberalizzazione?

De Rita: La verticalizzazione del potere nella finanza non è una cosa nuova per l’Italia. Il ruolo del governatore della Banca d’Italia, fino allo stesso Draghi, sostanzialmente è sempre stato fondamentale. Nel periodo di maggiore peso della politica, ossia nel dopoguerra, quando c’erano De Gasperi e Togliatti venivano prese decisioni fondamentali per la politica internazionale, come l’ingresso nel Patto Atlantico, a comandare era Menichella prima, e Carli dopo. Questo perché il denaro, la circolazione monetaria, la massa di moneta in circolazione sono strumenti indispensabili per governare una società complessa. Oggi però un Carli per comandare dovrebbe andare a Francoforte, come ha fatto Draghi. Il sistema italiano non permette più alcuna verticalizzazione, ma è la base di un cono con la punta che sta in due livelli. Il primo è formale: la BCE, le decisioni e le direttive europee, i vincoli di bilancio, il fiscal compact ecc. Si tratta di una bella verticalizzazione, perché se stai a 2,7 o 2,8 del deficit sul PIL la cosa ti crea problemi, ma almeno è una verticalizzazione che conosci.

L’altra no, è la verticalizzazione dei mercati mondiali: un mondo dove la capitalizzazione di Google è pari al bilancio dello Stato italiano, o dove la dimensione delle grandi banche come Goldman Sachs è tale che la loro consulenza deve essere richiesta per ogni manovra che si fa. Un tempo, una fusione come quella Montecatini-Edison, fra le due più grandi aziende chimiche italiane, fusione che fu il più grande episodio di politica industriale italiana negli ultimi cinquant’anni, fu fatta dai vertici delle due aziende insieme al governatore di Banca d’Italia. Oggi le grandi aziende fanno queste operazioni in totale indipendenza rispetto alle finanze pubbliche, e le grandi fusioni diventano casi di finanza internazionale. Quindi la verticalizzazione formale va verso l’Europa mentre quella reale va verso i grandi circuiti finanziari mentre in Italia resta poco da verticalizzare.

Nei sui lavori Lei elenca tre nuclei di sovranità che sembrano sopravvivere a questo processo di fuga della sovranità in un altrove irraggiungibile: la famiglia, l’impresa e il territorio. Questo è ancora vero nel quadro della crisi attuale? Come questi nuclei reagiscono al processo di disgregazione che origina quello che lei chiama “il popolo della sabbia”?

De Rita:  Se non ricordo male, “popolo della sabbia” è una vecchia dizione pre-risorgimentale, che mi sembra venga citata da Giulio Bollati, a significare quella frammentazione che noi oggi chiameremmo molecolarizzazione, ma la cosa è la stessa. Proprio per il fatto che il “popolo della sabbia” è un popolo di solitudini – ogni granello per sé e Dio per tutti – in una società piena di contraddizioni, ansie e paure come la nostra, si impone il bisogno di collegamenti fra gli individui, un bisogno che non nasce solo da interessi o da identità, ma da un’esigenza di coagulo. E questa esigenza trova soddisfazione prima di tutto nel nucleo della famiglia, che finisce per essere aggregante anche nei confronti del granello più disperso in caso di bisogno. Nella famiglia si trova anche supporto finanziario, ma prima di tutto un luogo di accoglienza. La famiglia è una sorta di impasto di sicurezza finanziaria e di ovattazione emotiva che mantiene ancora oggi la sua sovranità.

Allo stesso modo l’impresa è l’espressione tipica del “popolo della sabbia”: mi metto in proprio e apro un’attività, faccio impresa soprattutto nel momento in cui l’esigenza è quella di crearsi un lavoro. Abbiamo scritto di recente che in questo momento l’Italia ha come una strana reminiscenza di piccola imprenditorialità, quasi di sommerso, promossa da una tendenza della famiglia a investire sulla soglia bassa d’ingresso al mercato. Le famiglie non comprano partecipazioni in grandi aziende per i figli, ma preferiscono investire in attività a basso costo d’ingresso: la rosticceria, la pizzeria, il bed and breakfast ecc. Questo doppio movimento – della famiglia da un lato e di investimenti a bassa soglia d’ingresso dall’altro – fa sì che il meccanismo di aggregazione familiare e il meccanismo d’aggregazione imprenditoriale non solo confermino, ma solidifichino la loro influenza.

Il terzo fattore di aggregazione è il territorio, perché famiglia e piccola impresa si inscrivono in un territorio, su cui si innestano spesso anche orgogliose identità locali, convinte di esercitare la propria sovranità. Questi dunque sono i tre punti, peraltro mutuamente interconnessi e modificantisi, che danno l’illusione di poter collocare al loro interno l’esercizio della sovranità.

De Rita, nei suoi scritti sostiene la necessità di rivalutare e riportare al centro la dimensione orizzontale e territoriale. Può darci alcuni esempi storici di esperienze efficaci di quello che Lei chiama sviluppo dal basso? Per quale motivo crede che il modello dello sviluppo dal basso sia ancora sostenibile nell’economia globalizzata?

De Rita: Noi del Censis abbiamo inventato il concetto di “economia sommersa” e “localismo”, all’incirca negli stessi anni, vale a dire all’inizio degli anni Settanta. Questa crescita dal basso è sempre cominciata come economia sommersa: a Valenza Po, ora leader nella produzione dei gioielli italiani, hanno cominciato così, e lo stesso è avvenuto a Prato, a Sassuolo, a Carpi. Economia sommersa, piccola impresa e localismo sono elementi strettamente legati nello sviluppo dal basso.

Questa è una caratteristica che non è mai stata accettata dalla cultura economica italiana. L’economia sommersa viene vista solo come un manipolo di evasori fiscali e di stracciaroli. Ricordo molto bene nei primi anni dello studio Ambrosetti, nel 1975-1976, come i due fratelli Agnelli mi definivano “l’amico degli stracciaroli”. Questo pregiudizio, questa mancata accettazione del fatto che lo sviluppo dal basso avesse quelle caratteristiche, continua anche oggi nel pensiero economico italiano. Si continua a non accettare che lo sviluppo dal basso sia quello. Un mio grande amico del Partito Comunista, Gerardo Chiaromonte, dedicò la pagina centrale di Rinascita, la rivista del PCI, al nostro rapporto sul localismo, dicendo “siamo al folclore economico”. Oggi si intervista il sindaco di Carpi perché la squadra è entrata in serie A, e il sindaco si sorprende che solo ora si scopra che a Carpi sono forti, che lì da quarant’anni si produce il due per cento del PIL italiano. E ha ragione il sindaco. C’è voluto il campionato di calcio per far arrivare il messaggio che il Censis ripeteva ormai da anni.

Il rapporto pubblico-privato

Il rapporto pubblico-privato è stato uno dei cardini dello sviluppo italiano, che ha assunto forme talvolta virtuose e talvolta viziose. Su quali meccanismi virtuosi di collaborazione pubblico-privato si sono fondati i distretti produttivi italiani? Ritiene che oggi rilanciare nuove forme di questo rapporto non sia proponibile? In che senso afferma che «oggi fare un piano di politica industriale è assurdo?»

De Rita: Le questioni sono due: una riguarda la politica industriale e l’altra il rapporto pubblico-privato. Non so cosa dica oggi il governo o il Ministero per lo Sviluppo Economico. Bisognerebbe chiedersi innanzitutto cosa significhi oggi fare un piano di politica industriale. Io stesso ho scritto pagine e pagine su piani industriali –  il piano dell’auto, quello della chimica fine, ecc. –  fra il 1964-1965 e il 1971-1972. Erano anni in cui si credeva possibile fare piani industriali: ci credevamo tutti. Perché poi non ci abbiamo più creduto? Ritengo di aver scoperto che lo sviluppo stesse a Prato, a Valenza Po, a Sassuolo ecc., e ne sono ancora convinto.

Dalle dieci pagine di documento sulla banda larga io non capisco cosa sia la banda larga: io ho bisogno di vedere, di sapere chi ci sta dietro, chi la fa. Sembra più un contrasto fra potentati (Cassa Depositi e Prestiti, Telecom, ora Enel ecc.) in cui ci si divide il territorio. In passato nelle politiche industriali si partiva sempre dal settore. Oggi il settore crea sostanzialmente solo filiere logistiche: vendi occhiali in tutto il mondo e hai bisogno della filiera degli occhiali, non della politica industriale. È la filiera che crea la politica. Se si decide di vendere jeans, che li si produca in Cina o in Vietnam, interessa poco. È la filiera commerciale che impone una realtà produttiva, più che l’organizzazione logistico-produttiva. In passato pensavamo invece che la politica industriale nascesse dalla produzione: si produce la merce e poi la si vende. Oggi Benetton produce quello che ha venduto il giorno prima. È per via di questo capovolgimento che oggi ci troviamo, a mio avviso, nell’impossibilità di fare politica industriale di settore.

Questo è anche uno dei motivi per cui il rapporto pubblico-privato è diventato più difficile, in quanto il rapporto con la filiera sfugge al pubblico. Per fare un esempio: se Del Vecchio produce occhiali, finché  lo fa sulla montagna veneta non succede niente di particolare, ma quando arriva ad avere diecimila negozi a marchio unico Luxottica è il privato a produrre, e il pubblico non lo può aiutare. Guardiamo la Fiat. La Fiat è l’azienda che ha preso più finanziamenti dallo Stato italiano: in quel caso il rapporto pubblico-privato in forma distorta è stato fortissimo. Ormai gli interessi del privato sono altrove. Se gli strumenti, la logistica, la rete distributiva, a volte addirittura l’ideazione dei prodotti è fatta altrove, quali rapporti possono darsi tra pubblico e privato? La collaborazione è praticamente impossibile.

Ben diverso è stato il caso degli anni successivi alla guerra, quando il rapporto fra pubblico e privato è stato enorme. E furono proprio gli americani a spingere perché si creasse questo intreccio. Bisogna pensare ai rapporti fra Eugene Black, presidente della Banca Internazionale, e Menichella. L’indicazione era quella di fare investimenti pubblici e di investimenti pubblico-privati. Il fondo per il Mezzogiorno è stata un’idea di Black. La spinta a collaborazioni tra pubblico e privato è venuta dagli americani, salvo il caso dell’Eni, che loro ci chiedevano di chiudere perché i petrolieri americani la odiavano. Avevano addirittura convinto Giordani – fedele di Menichella – a trasformare il CNR. Basta con il CNR come consesso di professori per andare verso un insieme di authority di scopo pubblico-privato, nel nucleare, nell’energia, nell’agroalimentare. Poi alla fine i professori vinsero negli anni Settanta. Ma vale la pena andare a vedere il bilancio del CNR del 1963 e 1964 e quello del CNEN, il Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare. Quello del CNEN era superiore a quello del CNR: erano segni di questa spinta a intervenire pesantemente da parte dello Stato. Il libro su Black di Savona e Farese racconta bene questo intreccio italiano-americano, in cui furono gli americani a spingere per il rapporto pubblico-privato. La cassa del Mezzogiorno è il massimo esempio in questo senso.

Oggi dove è possibile andare per fare collaborazioni pubblico-privato? Le grandi aziende non ci sono più, nelle grandi operazioni stile banda larga non si sa più nemmeno bene distinguere chi sia il pubblico e chi sia il privato: Telecom è privata? Enel è pubblica? È vero però che l’economia mista pubblico-privato è stata una grande invenzione del secondo dopoguerra. Oggi però non ci sono più i protagonisti. Allora c’era la volontà forte di portare avanti investimenti per migliaia di miliardi da parte dello Stato. Quella dell’economia mista è stata una grande stagione del nostro sistema, poi naufragata nella crisi del Mezzogiorno, nella chiusura delle partecipazioni statali, nello smantellamento dell’IRI, nelle municipalizzate. Oggi insomma è sempre più difficile parlare di economia mista.

Due domande di natura più tecnica. Lei cita il fatto che la maggior parte dei finanziamenti europei per attività territoriali non riesce ad essere spesa dalle amministrazioni locali. Tutto ciò sembrerebbe essere il risultato di un’eccessiva e inefficace mediazione fra centri decisionali e il territorio. Quali sono gli ostacoli che abbattono la capacità di spesa delle amministrazioni locali? Quali sono i problemi strutturali dei progetti di finanziamento europei?

De Rita: Nella vicenda dei finanziamenti europei si consuma un terribile gioco al ribasso, perché vengono dispersi in realtà medio-piccole. Colpa di chi? Colpa del fatto che chi richiede fondi europei sono tutti soggetti di media dimensione. Raramente i programmi presentati superano i 500.000 euro: poca roba. Tutti gli spicciafaccende che girano per il Mezzogiorno scrivendo progetti per clienti, anche se sono bravi, riescono solamente a scrivere progetti per somme limitate. Tutta la progettazione è di media e bassa dimensione. Le grandi aziende non si mettono alla ricerca di questi fondi, non gli servono, non gli interessano. Ovviamente quando poi arriva il finanziamento – se arriva – è di medio-piccola dimensione già in partenza. A quel punto il sindaco di turno, avendo già a disposizione una somma limitata e avendo a che fare con realtà piccole, distribuisce a pioggia, riducendo ancora la dimensione del credito. Il risultato sono piccole opere: aiuole, marciapiedi, rotonde, sanpietrini. Nel Mezzogiorno si trova l’incapacità di pensare in grande.

Per quale motivo la tassazione locale è aumentata parallelamente al processo di accentramento e di verticalizzazione del potere?

De Rita: L’accentramento delle decisioni economiche, la verticalizzazione e l’europeizzazione non tolgono il fatto che i fondi e le tasse vadano raccolti, e in questo le amministrazioni locali sono più efficaci rispetto a quelle centrali: raccolgono più soldi, perché il controllo degli enti locali è più vincolante e vicino al contribuente, a partire dalla proprietà immobiliare. Questo è il motivo per cui la tassazione locale è più efficiente rispetto a quella accentrata.

Un tempo i partiti e in generale i corpi intermedi ad essi collegati da rapporti di collateralismo svolgevano, assieme ad altre istituzioni, come la Banca d’Italia, una funzione di selezione della classe dirigente. Oggi come avviene questa selezione? Da dove potrebbe provenire una nuova classe dirigente in grado di innescare una dinamica virtuosa di sviluppo?

De Rita: Non lo sappiamo. Non lo sappiamo perché la classe dirigente è una composizione chimica sempre inattesa. Si pensi al dopoguerra, nel 1945-1946, quando si affermò una classe dirigente che era cresciuta da un lato nelle parrocchie e negli oratori – quella democristiana – e dall’altro in esilio o nelle patrie galere – quella comunista. Nessuno aveva pensato che quelli sarebbero divenuti i luoghi principali della formazione di una classe dirigente. Ma è avvenuto, e così è stato. Si pensi anche a tutta la vicenda democristiana in cui la classe dirigente si distingueva secondo due logiche diverse. Da un lato la classe dirigente in senso proprio, che gestiva i problemi del governo, dell’economia e delle finanze; dall’altro la classe dirigente che costruiva e organizzava il consenso. La prima si è formata nelle partecipazioni statali, la seconda nei comizi elettorali. La Democrazia Cristiana era questo: era Giueppe Glisenti, grande cultore dell’intervento pubblico e delle partecipazioni statali ed era allo stesso tempo Vittorio Sbardella, che con Amerigo Petrucci prendeva voti ad Anzio o a Frosinone.

Finita quella, c’è stata una classe dirigente tutto sommato non indifferente, quella craxiana, che nasceva dalla politica universitaria. Da Marco Pannella a Mario Boni, a Stefano Rodotà a Giuliano Amato. Poi è arrivata la classe dirigente berlusconiana, che veniva fuori da Publitalia, formata da venditori puri: tutto il suo nucleo fondante era di derivazione aziendalista. Recentemente abbiamo pensato che una nuova classe dirigente potesse emergere dai comuni – il partito dei sindaci – ma ci abbiamo messo sei-sette anni a capire che non poteva arrivare da lì. Però certamente Chiamparino, Fassino e altri sono personaggi che nella dimensione comunale hanno realizzato qualcosa.

Oggi non vedo, né potrei vederlo, dove stia nascendo la nuova classe dirigente, ma credo che da qualche parte si stia sviluppando. Ma di certo non è quello che pensiamo che sia. La classe dirigente si fa ed è una concrezione in un momento dato di un tipo di spirito collettivo che diventa gruppo collettivo. Noi oggi questo non lo vediamo da nessuna parte.


Crediti immagine: da Luiz Centenaro [CC0 Creative Commons], attraverso unsplash.com

Scritto da
Giacomo Bottos

Direttore di «Pandora Rivista» e coordinatore scientifico del Festival “Dialoghi di Pandora Rivista”. Ha studiato Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, l’Università di Pisa e la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha scritto su diverse riviste cartacee e online.

Scritto da
Raffaele Danna

Laurea in Filosofia all’Università di Bologna e PhD in History presso la University of Cambridge, Pembroke College. Dopo un periodo presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Istituto di Economia, è attualmente Max Weber Fellow presso lo European University Institute, Faculty of History.

Scritto da
Lorenzo Mesini

Ph.D. Ha conseguito la Laurea magistrale in Scienze filosofiche presso l’Università di Bologna, dove è stato Allievo del Collegio Superiore. In seguito ha conseguito il Perfezionamento in Filosofia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, occupandosi di storia delle dottrine politiche. Scrive su diverse riviste cartacee e online.

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