Il Medio Oriente oltre la retorica. Intervista a Lorenzo Trombetta
- 12 Gennaio 2018

Il Medio Oriente oltre la retorica. Intervista a Lorenzo Trombetta

Scritto da Gabriele Sirtori

23 minuti di lettura

Reading Time: 23 minutes

Lorenzo Trombetta vive e lavora in Libano dal 2005, dove è uno dei due corrispondenti per l’ANSA dal Medio Oriente. Esperto e studioso di Medio Oriente, in particolare dell’area levantina, ci è sembrato naturale contattarlo per un’intervista proseguendo la serie di colloqui con esperti dell’area iniziata con Massimo Campanini e proseguita con Alberto Negri, specialmente alla luce dei recenti avvenimenti – tra i quali ricordiamo la vicenda delle dimissioni del premier libanese Hariri, le dichiarazioni di vittoria sullo Stato Islamico e la decisione di Trump di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme –. 

Conosciuto forse dai più come co-curatore e co-fondatore della rubrica quotidiana Lo strillone di Beirut della rivista Limes, Lorenzo Trombetta collabora anche con la rivista di geopolitica dal 2001 e con la Radio Svizzera. Ha scritto due libri: Siria. Nel nuovo Medio Oriente (Editori Riuniti 2005) e Siria. Dagli ottomani agli Asad. E oltre (Mondadori 2013).

Un ringraziamento particolare va a Isacco Cividini che ha contribuito alla realizzazione dell’intervista.


Non è stato facile raggiungere l’ufficio ANSA di Beirut, Libano, dove lavora Lorenzo Trombetta. Seguendo le indicazioni, imprecise, del sito ufficiale dell’Agenzia mi sono infatti ritrovato a Sodeco Square, trafficatissimo incrocio ai margini del benestante quartiere di Achrafieh. È un luogo iconico in un certo senso, importante per la memoria storica dei libanesi. Proprio qui infatti, stridente con i modernissimi edifici che la circondano, si trova Beit Beirut, un palazzo di inizio Novecento occupato durante la guerra civile dalle milizie cristiane. La sua facciata, volutamente lasciata immutata dai tempi delle ostilità, appare diroccata e crivellata dai fori di proiettile. Il suo nome significa “la casa di Beirut” e ad oggi, divenuta sede espositiva, ospita un museo dedicato alla memoria della guerra: è la cicatrice di un conflitto che il Libano lentamente prova a lasciarsi alle spalle. L’ufficio di Lorenzo Trombetta poi, in realtà una sistemazione provvisoria, non era molto distante, al settimo e ultimo piano di uno dei tanti palazzoni moderni di quel quartiere. Molto cordiale nei modi, Lorenzo mi accoglie scusandosi per il piccolo spazio in cui lui e altri due colleghi lavorano. Non volendo disturbare gli altri durante l’intervista, finiamo col parlare sulla terrazza.

Lorenzo, raggiungendo il tuo ufficio a Sodeco Square si passa di fronte a Beit Beirut, la cicatrice di una ferita che per il Libano pare essersi ormai rimarginata. È davvero così? O la guerra civile può scoppiare nuovamente da un momento all’altro come molti commentatori in Italia ci hanno raccontato nei giorni della vicenda Hariri? 

Lorenzo Trombetta: No, assolutamente no. L’allarmismo e il catastrofismo sono tradizionalmente legati alla parola Libano e ai racconti mediatici su questo paese a causa, spesso, di un’assenza di conoscenza delle sue dinamiche interne e della presenza ancora viva dei segni lasciati dalla guerra. Le ferite ci sono, certo, ma proprio per questo le varie comunità hanno ben chiari di fronte a sé i rischi e le implicazioni di una guerra protratta su scala nazionale per la loro causa e i loro interessi privati, personali e collettivi. Non c’è la volontà né l’interesse che le tensioni normalmente presenti in questo Paese deflagrino con un esito protratto nel tempo e su scala nazionale. Sottolineo questi due aspetti, temporale e geografico, perché il Libano dal 1990, anno della fine formale della guerra, fino a oggi ha vissuto vari periodi di tensione, dalla scaramuccia alla guerriglia vera e propria. Sono sempre stati però episodi contenuti, limitati nello spazio o nel tempo. Le varie comunità infatti, non soltanto la loro espressione politica e militare ma anche la loro espressione sociale ed economica, i loro sponsor e i loro alleati regionali e internazionali, non hanno interesse perché il Libano diventi la nuova piazza del conflitto, a maggior ragione oggi. Nel 2011, ma ancora di più nel 2013 quando la guerra in Siria e poi in Iraq ha cominciato a battere così pesantemente alle sue porte, il Libano per ragioni geografiche doveva restare assolutamente fuori dal conflitto guerreggiato e così ha fatto. Certo, non lo è dal conflitto freddo e dalle sue conseguenze, ma in una regione in fiamme serve avere un luogo, se pur piccolo geograficamente, perché le controversie possano essere, se non ricomposte, almeno discusse.

E questo posto oggi è il Libano.

Lorenzo Trombetta: Nella regione oggi sì, non perché abbia caratteristiche migliori di altri paesi, ma semplicemente per esclusione. Inoltre, proprio perché ha già vissuto un conflitto interno, oggi è l’area in cui è più difficile che scoppi nuovamente una nuova guerra guerreggiata.

Lorenzo Trombetta

Sodeco sqr., Beirut. La facciata crivellata di colpi di Beit Beirut stride con i modernissimi edifici circostanti.

Quindi la vicenda Hariri si inserisce in quest’ottica di conflitto freddo? Cos’è successo veramente?

Lorenzo Trombetta: Cosa è successo veramente, peccherei di superbia se potessi dirvelo. Ci sono varie ipotesi ma soltanto chi era a Riad con Hariri può dirci che cosa abbia spinto l’Arabia Saudita a imporgli di dimettersi televisivamente. Io propendo per credere che l’Arabia Saudita avesse più interesse a spostare l’attenzione sul suo dossier regionale in Libano e in Yemen rispetto alla questione interna delle purghe anti-corruzione che sarebbero state messe in atto di lì a pochi giorni: una questione che era ed è molto più scottante in quanto legata al problema della transizione politica dopo re Salman. In quei giorni i giornali hanno collegato il missile balistico lanciato dai ribelli houthi su Riad, le dimissioni di Hariri e le purghe anti-corruzione come un unico scenario. È possibile ma non necessariamente.

Innanzitutto le coincidenze esistono, non ci deve essere sempre un complotto dietro.

In secondo luogo gli insorti Houthi più volte hanno tentato di lanciare missili balistici con esiti più o meno fortunati. Quel giorno hanno avuto successo, ma nulla toglie che potesse capitare anche prima o dopo, come è successo tra l’altro anche il 19 dicembre. 

Di certo, terzo punto, è meno una coincidenza il fatto che due giorni prima della faccenda delle purghe in Arabia Saudita, Hariri appaia in Tv e annunci le sue dimissioni.

È passato più di un mese dall’inizio di questa che potremmo definire una “telenovela”. Ora che Hariri è tornato sostanzialmente dicendo: “scusate mi sono sbagliato” o comunque “sì, ci siamo messi d’accordo, tutto bene come prima”, possiamo dire con maggior forza che forse il vero obiettivo di Bin Salman non era quello di riaprire un fronte con l’Iran, ma quello di far parlare molto più della guerra tra Iran e Arabia Saudita che non di quello che sta accadendo a Riad. Questa ipotesi ha comunque i suoi limiti, me ne rendo conto. Si potrebbe infatti criticare questa tesi facendo notare quanto alto sia il prezzo di questa operazione: soltanto per spostare l’attenzione si è rischiata un’altra crisi proprio in un momento in cui Riad è più debole rispetto all’Iran.

Però sono solo ipotesi, ripeto. Guardando ai fatti che abbiamo di fronte, l’Arabia Saudita oggi è il paese che rischierebbe di più da una guerra contro l’Iran: si vedrebbe sconfitta su tantissimi fronti, è circondata. In questa posizione ha bisogno di mostrare i muscoli, di farsi vedere presente, ma sempre con cautela. Non sono stupidi a Riad: il loro leader Mohammed bin Salman, anche se ha solo 32 anni, sa che lanciare la guerra all’Iran usando Hariri, il quale comunque era già delegittimato a priori, prima di quanto accaduto il 4 novembre, non è una scelta saggia.

Perché delegittimato a priori? 

Lorenzo Trombetta: Perché da circa 2 anni non ha più la ricchezza e il potere di prima. La sua società registrata in Arabia Saudita di fatto ha chiuso e, non pagando più molti dei suoi impiegati, Hariri ha perso gran parte della sua influenza in Libano. Dare lavoro a mezza città di Beirut, a Sidone e a tante altre località del Libano si riscuoteva in termini elettorali, di presenza sul terreno. Il potere si compra, anche: quando c’è bisogno di fare una manifestazione per Hariri la gente scende in piazza. Ora però ha perso anche autorità nel campo della comunità sunnita la quale, in seguito e a causa della guerra siriana, si è estremizzata. Lì l’islam radicale di al-Nusra e dell’Isis è apparso vincente rispetto alla sua versione moderata con la giacca e la cravatta tanto amata dagli occidentali e che in Libano si identifica in Hariri. Questa offre sempre meno in termini di soldi, di posti di lavoro, di stabilità. Ecco perché l’attuale premier era già da tempo all’angolo.

Gli scenari dopo la sconfitta dell’ISIS

Il che è grave per l’Arabia Saudita, considerato, come dicevi prima, il ruolo del Libano come piazza sia del dialogo sia del conflitto “freddo” tra le potenze regionali. Ad un ritiro dell’influenza di Riad possiamo immaginare un’avanzata di Tehran. A tal proposito mi viene in mente una dichiarazione del 2014 di Ali Reza Zakani, parlamentare iraniano vicino a Khamenei, in cui si parlava di quattro capitali arabe in mano alle forze della Repubblica Islamica: Baghdad, Damasco, San’a e Beirut. Tu sei d’accordo con questa affermazione? Quanto è forte l’influenza persiana sul Paese? 

Lorenzo Trombetta: In termini di influenza la frase è verosimile. Poi chiaramente l’influenza va misurata, varia a seconda dei contesti. Certo se fosse soltanto un titolo parrebbe sicuramente una sparata: è un po’ troppo semplicistico.

Innanzitutto, non è così immediato dire che gli insorti yemeniti siano una propaggine dell’Iran. Sebbene negli ultimi due, forse tre anni abbiano avuto dei forti sostegni da parte della Repubblica Islamica, prima non era così. Anzi, il loro essere zayditi non li pone poi così in prossimità dell’islam sciita duodecimano, dominante in Iran, come parrebbe. Bisogna essere attenti a non semplificare eccessivamente e a non vedere il mondo sciita come un’unica grande comunità, ma semmai come un insieme molto variegato di correnti che si confrontano tra loro anche con grande animosità. É vero che le posizioni degli Houthi yemeniti sulla carta – “morte all’America, morte a Israele” – sembrano un copia e incolla dei comunicati iraniani o degli Hezbollah degli anni ’80 e ’90, però, se grattiamo sotto la superficie, superando la retorica, non è del tutto chiaro quanto le agende di questi due attori possano coincidere.

Ad oggi, in un contesto di forte polarizzazione, “o con me o contro di me”, oserei dire che l’Iran ha un’influenza importante sul governo di San’a, almeno nella retorica. Ma non è il solo.

Leggevo oggi (20 dicembre, ndr) – tuttavia da fonte iraniana, quindi da confermare – che la Russia vuole tornare ad aprire un’ambasciata a San’a. Mosca in questi anni pare un po’ andare dietro alle aperture che l’Iran le riesce a fare nella regione. A parte la Siria dove già era presente, in Iraq, in Kurdistan e forse anche in Yemen infatti sembra agire lasciando andare l’Iran davanti per poi raggiungerlo e in seguito allargarsi. Io direi che nel futuro sarà interessante vedere come gli interessi iraniani e russi, sebbene per ora sembrino convergere, potranno prendere direzioni diverse.

Per quanto riguarda l’Iran a Baghdad invece l’influenza è più diretta. Questa avviene attraverso le milizie sciite, ovvero il Fronte di Mobilitazione Popolare (Hashad Sha’bi); attraverso lo stesso governo federale iracheno, con Nuri al-Maliki e Haydar al-Abadi, i due premier che si sono succeduti l’uno dopo l’altro; infine, attraverso le autorità religiose sciite che hanno un rapporto alcune di prossimità altre di rivalità con l’Iran. In generale tra Tehran e Baghdad c’è un rapporto dottrinale, religioso e politico forte, geograficamente e storicamente più giustificabile rispetto ai casi degli altri Stati.

Damasco. L’influenza iraniana è aumentata molto in questi ultimi anni in termini militari, di mantenimento della sicurezza e persino in termini religiosi. Inoltre molti imprenditori siriani con dietro delle cordate di imprenditori iraniani stanno acquistando terreni e industrie importanti nella capitale e non solo. Infine, l’intensificarsi dell’opera di proselitismo religioso intorno ai santuari e alle moschee sciite nella capitale siriana ha allargato il ruolo politico dell’Iran. Però oggi Damasco non direi che sia una capitale in mano all’Iran, direi piuttosto una capitale in mano alla Russia.

Infine Beirut. Beirut è il luogo del compromesso, è il luogo della negoziazione. È vero, nel governo libanese ci sono gli Hezbollah, nelle istituzioni libanesi ci sono gli Hezbollah, però nella specificità del contesto libanese gli Hezbollah devono comunque fare sempre i conti con l’altro. L’influenza c’è ma non è mai così schiacciante. Sebbene su alcuni aspetti sia molto determinante, su altri lo è in misura minore.

In conclusione la risposta è sì: l’Iran ha un occhio su ciascuna di queste quattro capitali, sebbene con gradi di influenza diversi.

Visto che l’abbiamo citata, parliamo di Siria. Si parla sempre più di ricostruzione e di fase “post-conflitto” specialmente ora che giungono varie dichiarazioni per cui l’ISIS sarebbe stato definitivamente sconfitto. È davvero così?

Lorenzo Trombetta: No, lo Stato Islamico ancora non è stato sconfitto militarmente, né tanto meno culturalmente e politicamente.

I suoi guerriglieri infatti mantengono ancora delle zone nella valle dell’Eufrate sotto il loro controllo e la loro sconfitta militare può essere annunciata domani o in una qualsiasi altra data – qualcuno l’ha già fatto – a seconda delle scadenze elettorali che ciascuno ha nel proprio Paese. Tuttavia lo Stato Islamico, così come è nato da un vuoto culturale e politico, così non può essere sconfitto soltanto perché la sua presenza militare, strutturata come lo è stata dal 2014 al 2017, non è più in quell’area.

La lezione che abbiamo avuto da vari movimenti di rivolta locale, non soltanto in Medio Oriente, ci insegna che se non si vanno ad affrontare le cause profonde che hanno determinato la nascita di un’insurrezione, quella automaticamente riprenderà nonostante ogni tentativo di repressione, con quel nome o con un altro nome, con quelle sembianze o con altri caratteri.

Nel caso dello Stato Islamico parliamo di un’insofferenza sociale ed economica da parte di popolazioni che per decenni sono state messe ai margini del benessere dello Stato e della regione in senso più ampio. Se a queste comunità infatti fosse data una dignità, una prospettiva di vita, un quadro di riferimento di partecipazione alle istituzioni locali o nazionali se parliamo di uno Stato-Nazione o, se parliamo di trans-regioni, nel caso ci rivolgiamo ai legami tribali che vanno al di là dell’Iraq e della Siria, se, insomma, queste persone venissero in qualche modo incluse in un progetto di sviluppo politico, economico e sociale allora così forse potremmo dire di aver iniziato a pensare di fare la lotta al terrorismo. Altrimenti sarebbero tutte parole al vento.

Per fare un esempio recente: nel 2008 iniziava la campagna americana anti al-Qaeda ad al-Anbar, nell’Iraq occidentale. Grande dispiego militare, grande enfatizzazione mediatica. Nonostante questo, dopo meno di 10 anni ci ritroviamo in una situazione forse peggiore di quella di allora, con al Baghdadi tra l’altro nato proprio da lì.

La storia insomma sembra ripetersi: se lasciamo le questioni profonde inalterate, ci ritroveremo al punto di partenza.

Quindi se lo Stato Islamico non è stato sconfitto non possiamo nemmeno parlare di vincitori.

Lorenzo Trombetta: Questa non è una guerra che è stata vinta da qualcuno.

Possiamo dire che la partita siriana, iniziata nel 2011 e ancora in corso, ha visto rafforzarsi il ruolo della Russia e dell’Iran nella regione, due attori però già presenti.

Un inciso metodologico: per comprendere meglio eventi recenti spesso è utile guardare alla cronologia, isolando i periodi storici e dilatando il nostro campo visivo. In questo caso ad esempio vediamo che la partita siriana non inizia nel 2011: quell’anno, con tutto quello che ha significato, è stato solo un momento, una puntata di uno scontro più ampio. La partita regionale e internazionale sulla Siria è antica almeno quanto la Siria stessa: per essere convenzionali possiamo dire che ha almeno un secolo. Anzi, 101 anni per la precisione. È dal 1916 almeno, anno degli accordi di Sykes-Picot che sancirono la creazione di questo Stato, che nei circoli diplomatici si dice che la Siria sia al centro degli interessi del medio oriente.

Vedendo la storia nel suo complesso poi sappiamo che già in epoca assiro-babilonese era così. La geografia d’altronde non tradisce. La conformazione e la posizione di questo territorio è immutata da millenni e le vie della seta, le vie del petrolio, le vie del commercio di qualunque merce sia trasportata, devono comunque continuare a passare per queste zone, per quanto avanzate possano essere le nostre tecnologie di trasporto.

Chi ha vinto dunque? L’Iran e la Russia, se guardiamo la fotografia di oggi. Queste due superpotenze però sono qui da decenni in quanto da sempre hanno considerato la Siria un loro territorio strategico per il controllo di territori più ampi. Oggi possiamo dire che l’Iran e la Russia sono ancora più forti sul Mediterraneo orientale, Mosca in particolar modo. Per quanto riguarda Tehran invece l’accesso al mare gli interessa fino ad un certo punto ma, capitalizzando la sua presenza in Siria, riesce a creare una sorta di cintura intorno all’Arabia Saudita.

Iran e Russia sono anche i due attori che vediamo più attivi nei negoziati di pace al tavolo di Astana, voluto e gestito dai Russi. Anche a Ginevra, in questo caso sotto l’egida delle Nazioni Unite, sono in corso dei negoziati per una soluzione comune che garantisca la pace e la ricostruzione dopo il termine delle ostilità. È notizia recente che al tavolo sarà presente anche il governo di Damasco. Cosa dobbiamo aspettarci da questi negoziati? Gli Assad rimarranno al potere? Ma soprattutto, quale sarà l’assetto statale della nuova Siria?

Lorenzo Trombetta: Ginevra serve ad un proposito ben preciso: tenere il cappello della comunità internazionale su una risoluzione del conflitto che prima o poi avverrà. Quando le parti che veramente contano decideranno che la fine della guerra è raggiunta, allora l’ONU potrà mettere il suo cappello. Proprio per questo da tempo tiene quel tavolo apparecchiato. Noi però non dobbiamo farci ingannare dal fatto che per tenere apparecchiato questo tavolo ogni tanto bisogna aprire la stanza, bisogna invitare qualcuno, bisogna versare il vino. Questa è tutta cerimonia. Ginevra non serve a niente al di fuori di questo protocollo e chi vi partecipa lo sa.

Abbiamo perso il conto delle parti sedute al tavolo dell’ONU. Sono tutti attori con visioni completamente diverse, poco disposti a scendere a patti con gli altri. È un dialogo tra sordi.

Accadrà probabilmente qualcosa di simile a quanto accaduto in Libano con gli accordi di Taif del 1989: ad un certo punto, visto un improvviso mutamento della situazione – in quel caso la caduta del muro di Berlino – le parti in gioco decideranno di chiudere il conflitto perché la guerra non conviene più loro come prima. Verranno prese delle decisioni ad Astana, a Sochi o in un’altra ex capitale sovietica dove faranno un’altra conferenza di pace non sponsorizzata dall’ONU ma a cui comunque l’ONU parteciperà come osservatore. Lì le parti si accorderanno ma poi, per soddisfare tutti gli attori che hanno spinto per tenere aperto il tavolo apparecchiato a Ginevra, andranno a Ginevra e là, sotto la bandiera azzurra dell’ONU, diranno: bene, la pace è fatta.

Come sarà dunque la Siria futura?

Lorenzo Trombetta: Innanzitutto Assad rimarrà al potere senza ombra di dubbio: è il cavallo su cui Iran e Russia puntano e punteranno. Tra l’altro suo figlio nel frattempo cresce quindi dobbiamo aspettarci una terza generazione di Assad. L’unica parte di Siria che forse potrebbe rientrare in una sorta di confederazione è l’area curda, che di fatto è sempre più autonoma. Al momento i curdi si sono presi sempre più asset energetici: l’acqua, il gas, il petrolio e in più controllano più della metà della valle dell’Eufrate. Non si terranno tutto, chiaramente, ma questo li rende forti in termini negoziali: ogni concessione fatta da parte loro avrà come contropartita garanzie sempre maggiori di autonomia.

Al tempo stesso però è evidente che uno stato curdo accerchiato da stati ostili come Turchia, Iraq e Siria è impossibile, per questo inglobare quei territori nel processo nazionale è un obiettivo di entrambe le parti. L’unica soluzione immagino possa essere una sorta di dualismo: governo centrale da una parte, curdi dall’altra. Le restanti aree che oggi sono sotto le opposizioni siriane – Idlib, Daraa o quello che rimane – gradualmente torneranno sotto il controllo di Damasco.

La Turchia continuerà ad esercitare la propria influenza, però non credo che nel lungo termine Ankara possa continuare a controllare direttamente con i suoi militari dei territori siriani.

Minoranze in medio oriente: una questione annosa

Eccoci quindi arrivati a parlare di curdi. Spesso considerati come un blocco unico e compatto, si presentano però come una galassia di comunità, con una sua varietà di esperienze e realtà: dai curdi del Rojava, beniamini della sinistra occidentale grazie al loro esperimento democratico, fino ad altre formazioni in Siria, in Turchia, in Iraq, in Iran. Ci sono delle possibilità per cui le differenze all’interno del movimento curdo trovino una soluzione e si riescano ad unificare le varie correnti in una proposta politica comune? A livello umanitario poi, quanto è possibile che i curdi possano attivare un processo di pulizia etnica a bassa intensità nei territori che controllano, se già non l’hanno fatto? 

Lorenzo Trombetta: Anche i curdi hanno una capacità di dividersi al loro interno molto forte. Per fortuna oserei dire: l’esercizio del pluralismo tra loro è molto ben assimilato. Nei fatti, al di là del mito e della retorica del pancurdismo, qui parliamo di comunità anche molto sparse che si sono sviluppate e vivono in contesti geografici e naturali diversi con varietà linguistiche diverse tra loro. In poche parole: ci sono mille e un curdo. Un po’ come “gli europei”, sono categorie che vanno usate con cautela.

Al momento non esiste e non credo possa esistere un progetto curdo comune, al di là di quanto emerga da una certa retorica e da certi discorsi. Evidenti i fatti degli ultimi mesi: ognuno si cura degli interessi di casa sua, o meglio, di quella che ritiene essere casa sua, con molta diffidenza da parte dell’altro. Anzi, ci si allea spesso con i nemici dell’altro. I curdi siriani, ad esempio, definiti ala del PKK, sono molto in ostilità con la Turchia, la quale invece fino a qualche tempo fa era in rapporti di estrema cordialità con il governo di Erbil che in teoria dovrebbe essere fratello con gli altri curdi siriani. É evidente: non ci sono possibilità per il fronte curdo di avere unità di intenti.

Per quanto riguarda invece la pulizia etnica a bassa intensità: l’hanno già fatto, lo stanno ancora facendo. “A bassa intensità” non so se sia la definizione giusta. Di certo è un’operazione compiuta in maniera meno mediatizzata, meno cruenta – lo dobbiamo dire – rispetto a quanto fatto dallo Stato Islamico. Ma attenzione! Dobbiamo avere la capacità di non farci intrappolare dai racconti mediatici: la barbarie dell’ISIS ha alzato di molto l’asticella dell’orrore per cui tutto ciò che è sotto è divenuto accettabile. Questo è un gioco a cui ci hanno portato. Lo stesso discorso vale per Assad in Siria, così come per tanti altri crimini e violazioni. Noi non dobbiamo guardare al grado di violenza, dobbiamo guardare alla sostanza: se un principio viene violato, quale che sia, è un principio violato.

Che venga compiuta una decapitazione in diretta televisiva o che si brucino delle abitazioni ma a telecamere spente, in entrambi i casi qualcuno ha comunque cacciato una popolazione da un territorio. Questo è sanzionato dal diritto internazionale e dalla nostra etica condivisa.

Sottolineo questo aspetto perché in Italia spesso il dibattito vede la presenza di qualcuno che esalta la retorica pancurda o la resistenza curda – specialmente a sinistra, i centri sociali, Zerocalcare, ecc… – perché “l’alternativa era l’ISIS”. Ma se ci dimenticassimo l’ISIS, giustificheremmo mai questi crimini? No. Semplicemente dobbiamo guardare le cose senza prendere parte come se fossimo dei tifosi allo stadio. Non stiamo facendo politica o attivismo ma, da osservatori, da coloro che vogliono continuare a raccontare la realtà, è necessario continuare a farci quella domanda: al netto di tutto, un dato crimine è accettabile?

Al tempo stesso però c’è un altro meccanismo spesso nascosto dietro le giustificazioni avanzate dall’una o dall’altra parte. È la solita domanda: chi è venuto prima, l’uovo o la gallina? Ad esempio, soprattutto da parte dei curdi, si dice: “La regione da cui cacciamo queste popolazioni una volta era a predominanza curda prima di diventare araba nel 1966 quando il governo baathista di Damasco ha arabizzato i nostri territori”. A questa affermazione, però, i sostenitori baathisti replicano dicendo: “I curdi sono arrivati in quelle zone solo dopo le repressioni turche del 1914”. Come si vede c’è sempre un ritorno ad un passato lontanissimo.

Nel racconto giornalistico poi però dobbiamo essere il più possibile onesti: oggi sicuramente commettono delle violazioni, sia che le si chiami “pulizia etnica” sia che si usino altri nomi. Una volta detto questo però si deve anche raccontare che la fortissima ostilità e recrudescenza delle violenze è anche e soprattutto causata da una memoria storica, da una ferita ancora aperta per i curdi che sono stati cacciati nell’opera di arabizzazione compiuta sia da Baghdad, sia da Damasco a partire dagli anni Sessanta. Questo non per giustificare, ma per capire, per far capire il lettore. Altrimenti si rischia di rappresentare questi movimenti come dei mostri arrivati da Marte con il coltello fra i denti e la bava alla bocca che sgozzano e bruciano case per pura cattiveria. Purtroppo ci sono dei corsi e ricorsi storici che, in un racconto giornalistico completo, devono essere raccontati. Poi oggi la realtà è questa: chi sta cacciando gli arabi dalle loro abitazioni nella valle dell’Eufrate, o chi non li fa tornare, o comunque chi in qualche modo li tratta come persone di categoria B, oggi sono i curdi.

E queste violenze tra l’altro non sono solo rivolte contro gli arabi.

Lorenzo Trombetta: Certo, noi diciamo gli arabi perché è la comunità numericamente più esposta a questo, quindi fa più notizia. Vittime di queste violenze sono anche i turkmeni, che sono stati i primi ad andarsene. Non invece gli assiri o i caldei, quindi i cristiani, perché in qualche modo servono. Infatti i curdi, proteggendo queste comunità, riescono ad avere maggiore accesso ai fondi messi a disposizione dai governi occidentali nei programmi di salvaguardia delle minoranze. L’attenzione dell’Europa per la causa curda è in parte spiegata dal fatto che loro proteggono e garantiscono la presenza dei cristiani. Vedasi quanto successo a Ninive. Lo fanno in maniera strumentale, quindi. In modo forse quasi “disonesto” potremmo dire.

In maniera simili a quanto ad esempio fa il regime di Assad a Damasco che si è proposto come baluardo a difesa delle minoranze contro lo Stato Islamico.

Lorenzo Trombetta: Esatto: questo è il gioco. Hanno capito qual è la parola chiave che piace a noi occidentali.

“Minoranza” appunto. La condizione delle minoranze è effettivamente una questione centrale nelle vicende del Medio Oriente. Sembrano infatti porre seri problemi per la stabilità di quasi tutti gli Stati della regione e per i loro governi. Nel caso siriano è il regime al potere ad essere una minoranza con tutte le sue criticità, in Iraq i sunniti paiono esclusi dai ruoli di spicco nel governo, in Turchia l’instabilità arriva dalle popolazioni curde, infine in Yemen assistiamo alle nefaste conseguenze della rivolta della comunità degli Houthi contro il governo centrale. Il Libano è un caso un po’ limite: non essendoci una vera e propria maggioranza le principali componenti della società – sunniti, sciiti, drusi, maroniti e ortodossi – si sono accordate nel 1943 per una spartizione equa delle cariche di governo in un patto non scritto noto come Patto Nazionale, aggiornato nel 1989 con gli accordi di Taif in seguito alla guerra civile. Tra i punti principali si prevede che il capo dello Stato sia un cristiano maronita, il premier un musulmano sunnita e il presidente del parlamento uno sciita.
È un modello ancora valido secondo te? Come si garantisce allo stesso tempo la democrazia e la rappresentanza delle minoranze?

Lorenzo Trombetta: Innanzitutto io contesto l’uso della parola minoranza. Non credo sia appropriata: continua a dare un’impressione di gerarchia delle comunità. Anche da un’ottica storica quella che ora è una piccola setta non necessariamente lo era in precedenza e non necessariamente lo sarà domani: ci sono molte variabili. Questa mentalità della minoranza poi nasconde dietro di sé anche un’ideologia della persecuzione, della rivincita, del vittimismo e, infine, della rivalsa anche laddove questo non corrisponde alla realtà effettiva. Pensiamo ad esempio agli sciiti, in Libano e non solo: storicamente sin dalla loro nascita vivono l’idea di essere una comunità vessata – basti pensare alle persecuzioni del partito di Ali, al martirio di Kerbala e a tutto il vittimismo intriso nella loro corrente vivo ancora oggi. Eppure se li guardiamo dal punto di vista politico, grazie al volano Iran, sono tutt’altro che una setta perseguitata.

Un altro caso emblematico è quello dei drusi in Libano. Loro sì, sono una minoranza, costituituendo solo il 3% della popolazione. Eppure anche in questo caso politicamente contano tanto: Walid Jumblatt, il loro leader, deve essere sempre interpellato. Alleandosi con un partito o con l’altro, infatti, sono in grado di spostare gli equilibri politici. Da grande politico, Walid è riuscito a capitalizzare il suo minimo peso elettorale.

Il concetto di minoranza, poi, è totalmente dipendente da quanto è ampio il territorio in cui noi misuriamo. Un esempio lampante è la creazione del “Grande Libano”. I cristiani diluiti nella Siria Ottomana non erano certo una maggioranza e dunque i Francesi, per poter affidare loro un territorio di cui costituissero la maggior parte della popolazione, hanno ristretto i confini intorno a queste comunità fino a creare i confini del Libano di oggi. È evidente: c’è molta soggettività e arbitrio.

Oltre a questo, l’idea di minoranza è pericolosa perché genera conflitti: si escludono e non si includono comunità. Un’idea sulla carta ottima, proposta dagli accordi di Taif, è quella di creare un sistema bicamerale in cui ai deputati della camera bassa si aggiungono i senatori, non eletti ma nominati dai vari gruppi confessionali, creando così una sorta di senato delle comunità. In questo modo si deconfessionalizza il parlamento, cioè la camera bassa, la quale resta senza quote comunitarie, aperta a tutti indistintamente e con il potere esclusivo di legiferare. Le comunità invece manterrebbero il diritto di espressione e sarebbero rappresentate in questo nuovo Senato garante che le decisioni del parlamento trovino la loro approvazione. Non si può infatti deconfessionalizzare il Libano se non si danno garanzie alle comunità: tutto questo attaccamento alle fazioni religiose deriva infatti dalla paura, paura che un giorno arrivi qualcuno che ti tolga i diritti che hai, o che ti minacci, o addirittura che ti annienti fisicamente. Allora ci si arrocca, ci si chiude in se stessi, ci si riconosce come drusi, sunniti, sciiti, quando prima si beveva e si faceva di tutto insieme.

Se si riuscisse a disinnescare la paura, e quindi la mentalità della minoranza, la mentalità della persecuzione, trovando degli strumenti istituzionali validi che garantiscano la rappresentanza delle comunità, una presenza negli organi istituzionali, la partecipazione di tutti, troveremmo, come dicevo prima, un ottimo antidoto anti-ISIS. Bisognerebbe dare ai sunniti di Tikrit, che dopo Saddam si sono visti costantemente ignorati, il diritto di poter tornare a contare qualcosa, bisognerebbe dare alle comunità minoritarie di quel Paese lo stesso diritto che hanno altri di avanzare, ad esempio, delle riserve o delle critiche su un progetto governativo. Al tempo stesso però dovrebbero lavorare dei deputati che non siano direttamente emanazione delle comunità, delle maggioranze e delle minoranze.

Una delle poche cose buone che poteva essere applicata in questa regione, e non lo Stato-Nazione che ha creato tantissimi problemi, è il principio di cittadinanza e di uguaglianza di ogni cittadino dinnanzi alle leggi, siano esse imperiali, di una trans-regione o dello Stato-Nazione. Siamo tutti ugualmente cittadini, sebbene ciascuno provenga da una comunità specifica che ha le sue sensibilità. Bisogna notare che qui c’è, costante, l’incontro con l’altro, a differenza di quanto avviene in Italia. Noi non ne siamo abituati: nel Paese in cui siamo cresciuti eravamo quasi tutti cattolici o comunque non ci si sentiva tanto diversi, anche se forse così non sarà nell’Italia dei nostri figli. In Medio Oriente invece no: qui c’è la necessità costante di garantirci che nessuno ci faccia del male, considerando anche che, storicamente, ci sono dei pregressi violenti importanti e a volte molto recenti.

Ecco perché dovremmo abbandonare il termine “minoranza” e riscoprire il valore della cittadinanza e del diritto per cui certe violenze non si fanno a nessuno degli appartenenti alla più grande comunità dello Stato – se parliamo di Stato – o altro se parliamo di configurazioni alternative. Il resto rischia di diventare un parlare a vuoto che giustifica la pratica dell’esclusione e della discriminazione dell’altro.

Nei fatti poi, quando la retorica sparisce, quando mancano i soldi a fine mese… certo che, come avviene da noi, il tuo vicino inizia a puzzare, il tuo vicino comincia a pregare in un modo sbagliato. Lui spara quando parla il leader che tu odi, allora tu spari in aria quando parla il tuo leader, e magari la prossima volta vi sparate ad altezza d’uomo. Qui accade. Ma accade soprattutto perché siamo in contesti di repressione sociale, di mancanza di prospettive. A Raouché (quartiere ricco di Beirut) sunniti e sciiti che vivono in case come quelle non hanno problemi. Lo so che questi possono sembrare discorsi semplicisti però dare prospettive alle persone davvero conta: farli sposare – considerando che qui sposarsi è un’impresa economica prima che un bel contratto d’amore – permettere loro di formare una famiglia che per loro è importante, dar loro stabilità, mandarli a scuola, … A quel punto tutti i discorsi sulla necessità dei “dialoghi inter-religiosi”, sulle minoranze perseguitate, e tutte le retoriche simili si dissolverebbero nel nulla. A quel punto ci troveremmo con tante comunità, ciascuna con le proprie specificità, con le proprie paure, ma che a livello istituzionale potrebbero essere rappresentate e garantite.

Lorenzo Trombetta: superare il settarismo è possibile

Il discorso che fai sulla cittadinanza è interessante, molto vero, molto necessario, però mi pare implichi l’idea di “laicismo”. Ma in un Libano in cui la legge non è uguale per tutti i cittadini, in cui nel campo del diritto personale e familiare ogni comunità ha le sue leggi ad esempio per il matrimonio, per il divorzio o per la successione, il laicismo dove si inserisce?

Lorenzo Trombetta: Ad oggi le comunità sono riuscite a far sì che il diritto personale sia determinato dalle loro leggi e non dalle leggi dello Stato perché non hanno dei fori, non hanno dei luoghi dove la comunità è garantita. In termini di eredità, istruzione, a volte anche questioni di sanità, si sentono talmente minacciate dall’altro che si sono arroccate su se stesse anche a livello legale.

Se si disinnescasse la paura, se venisse garantito che, accanto alle questioni affrontate a livello legale nazionale come cittadini, rimarrebbero delle altre questioni più specifiche che possono essere prese in esame dalle autorità comunitarie, si riuscirebbe a convincere le comunità a fare un passo indietro e a cedere sovranità allo Stato. Tuttavia occorre trovare un luogo come un Senato in cui vengano rappresentati i loro interessi e venga garantito che la comunità non scompaia, che non venga alienata, che non perda il suo carattere proprio.

Non è un percorso facile e immediato. Prima di tutto occorre dare delle rassicurazioni e sgomberare il campo da quelle voci massimaliste, tipiche di molti attivisti laici libanesi, che gridano alla riforma radicale dello stato civile, all’abolizione del confessionalismo. Ovvio che la risposta immediata a questi proclami è l’irrigidimento: abolire il confessionalismo significa abolire i privilegi, abolire l’arroccamento. Questo panorama non lo si può cambiare e non sarebbe nemmeno auspicabile farlo. Invece di essere lontani dalla realtà e pensare di essere a Parigi o a Londra – molti di questi attivisti infatti vivono nelle grandi capitali occidentali – mettiamoci nei panni dei leader politici confessionali e cerchiamo, con pazienza, di capire quali potrebbero essere i loro interessi. Su alcune cose possono cedere, siamo sicuri. Bisogna rassicurarli però, bisogna dare loro qualcosa in cambio. Ma almeno il processo così può iniziare.

Purtroppo questa intervista, così come gran parte del dibattito pubblico sul Medio Oriente, è dominata da un approccio che rischia di nascondere in qualche modo il vero problema, e quindi di soffermarci su questioni che non sono veramente fondamentali – la pace a Ginevra, il dibattito confessionalismo-laicismo, maggioranze e minoranze, la vicenda Hariri, … Bisognerebbe invece cercare di andare più in profondità nelle questioni. Ci sono una serie di titoli che ci colgono, noi stiamo lì a romperci la testa e cercare di capire che cosa sia successo, come può avvenire, e non riusciamo ad uscirne. Non ci sono vie di uscita dal confronto “maggioranze-minoranze”, “confessionalismo-laicismo”, “Hariri-Iran-Arabia Saudita”. Dobbiamo invece provare a guardare le cose da un altro punto di vista, provare a far spazio, a togliere ciò che vediamo come problema e pensare che possa essere un effetto del problema in sé.

Lorenzo Trombetta

Tripoli, Libano. Manifestazione pacifica anti-Trump all’indomani della decisione sullo spostamento dell’ambasciata.

Proviamo allora, spostandoci però in un’altra zona “calda” del Medio Oriente, a prendere in mano uno di questi titoli, in questo caso la decisione di Trump sul trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme, e cerchiamo di guardare al di là degli effetti più immediati. Abbiamo assistito a grandi manifestazioni di piazza in tutte le città arabe e alla ferma condanna di tutti i leader politici arabi. Ti chiedo quindi: cosa testimonia, in termini di processi di lungo periodo, questa decisione? Un segno della vittoria di Israele che ha ottenuto un nuovo passo nel riconoscimento della propria egemonia su Gerusalemme oppure di una rinascita del mondo arabo che si riscopre compatto contro una causa comune?

Lorenzo Trombetta: Il mondo arabo non esiste da questo punto di vista. Non c’è. Ci sono varie piazze, vari leader che hanno bisogno della questione di Gerusalemme e di Israele per legittimarsi. Questa volta lo hanno fatto in maniera nemmeno troppo convinta ma continueranno a farlo. I palestinesi in sé l’hanno capito: la loro questione è una questione di politica interna con Israele in quanto l’autorità vera lì sono gli israeliani. I territori occupati palestinesi, volenti o nolenti (a parte Gaza che forse può essere inclusa nell’Egitto dal punto di vista della gestione della sicurezza e dell’intelligence) sono ormai parte di fatto di Israele: sono sempre più colonizzati, sempre più divisi in territori sconnessi l’uno dall’altro. Duole ammetterlo ma non esiste un vero e proprio Stato palestinese al di là delle dichiarazioni dell’ONU e del suo cerimoniale. In qualche modo Trump con tutta la sua goffaggine ha dimostrato che innanzitutto gli Stati Uniti non sono un attore imparziale. Ed è bene che qualcuno l’abbia finalmente visto. Sono un attore che da sempre lavora per una delle due parti: non possono essere un mediatore, così come non lo può essere la Russia in Siria. Grazie a Trump poi abbiamo sgomberato il campo dalla retorica e dal “buonismo” di Obama e dei suoi predecessori. Grazie anche a Trump, infine, abbiamo visto che la soluzione dei due stati non esiste: la retorica dei due popoli è una cosa da vetero ottocento, quando si parlava di “popolo nazione”. Ad oggi infatti Israele non può pensare di stare senza i palestinesi, che loro chiamano “gli arabi” con un uso molto politico della definizione dell’altro, e al tempo stesso i palestinesi sanno che non possono stare senza Israele. Già lo fanno: parlano ebraico, usano lo shekel, vivono in un contesto di economia dell’altro.

Scritto da
Gabriele Sirtori

Nato a Lecco nel 1996, studente di arabo e persiano, ha passato gli ultimi 3 anni tra Iran, Egitto, Libano, Kurdistan (iraniano) e il Veneto. Ha seguito corsi presso l'Università Ferdowsi di Mashhad, Iran. È studente del terzo anno presso l'Università Ca Foscari di Venezia.

Pandora Rivista esiste grazie a te. Sostienila!

Se pensi che questo e altri articoli di Pandora Rivista affrontino argomenti interessanti e propongano approfondimenti di qualità, forse potresti pensare di sostenere il nostro progetto, che esiste grazie ai suoi lettori e ai giovani redattori che lo animano. Il modo più semplice è abbonarsi alla rivista cartacea e ai contenuti online Pandora+, è anche possibile regalare l’abbonamento. Grazie!

Abbonati ora

Seguici