La cultura di fronte al cambiamento. Intervista a Massimiliano Tarantino
- 15 Aprile 2019

La cultura di fronte al cambiamento. Intervista a Massimiliano Tarantino

Scritto da Giacomo Bottos

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Massimiliano Tarantino, Direttore della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, ha partecipato alla prima edizione del Pandora Rivista Festival intitolata “Pensare l’italia” in un panel dedicato al ruolo della cultura. L’intervista, a partire dai temi trattati nel Festival affronta gli sviluppi delle attività della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, il rapporto tra cultura ed economia, le potenzialità del tessuto delle fondazioni e istituti di cultura italiani nel contrastare i fenomeni di disintermediazione, la sfida dell’innovazione per il sistema culturale, i mutamenti imposti dalle nuove tecnologie digitali e il cruciale nodo della complessità e dell’ipersemplificazione e quindi il ruolo che può giocare la cultura nel “pensare” un’Italia diversa. 

Massimiliano Tarantino, Direttore della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, laureato in Giurisprudenza, lavora da una ventina d’anni nel mondo della comunicazione e delle relazioni istituzionali. Giornalista professionista, è stato collaboratore di diverse pagine culturali di testate del Gruppo Editoriale L’Espresso e ha inoltre lavorato come programmista regista, autore di testi e speaker per diverse trasmissioni radiofoniche dei canali nazionali RAI.


Partiamo dalla sua esperienza come Direttore della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Quali sono state le linee e gli orientamenti principali che ha seguito nello svolgere il suo ruolo e quali gli obiettivi che ha perseguito? In quali direzioni intendeva sviluppare l’attività della Fondazione?

Massimiliano Tarantino: La Fondazione ha intrapreso in questi ultimi anni un percorso per certi versi inedito, originale e quasi corsaro all’interno del panorama delle istituzioni culturali di questo Paese. Ciò è avvenuto tenendo in considerazione due aspetti. Da una parte la storia della Fondazione, con il suo radicamento nel territorio nazionale e la vicinanza ad altre grandi istituzioni che conservano fondi archivistici e bibliografici di rilevanza internazionale, ciascuna delle quali ha sperimentato nuovi modi di valorizzazione del patrimonio raccolto attraverso i propri ambiti di ricerca. Dall’altra il grande scenario internazionale della cultura, la trasformazione che sta avvenendo intorno a noi, dal punto di vista sia degli strumenti sia dei linguaggi con cui si fa cultura e si fa ricerca. Adottando queste due prospettive, la Fondazione si è anche chiesta – in un processo che a me piace definire quasi di autoanalisi – quale potesse essere il suo ruolo nel futuro del nostro Paese, a che cosa potesse servire conservare ancora le testimonianze delle lotte del movimento operaio o le fonti originali che ricostruiscono le resistenze del Novecento in Europa di fronte ai regimi totalitari. Ci siamo chiesti che cosa significasse e che cosa significherà nel 2030 – con uno sguardo anche verso gli SDGs dell’Agenda ONU per lo sviluppo sostenibile – guardare alla storia di Solidarność o alla storia delle lotte per i diritti delle minoranze in America negli anni Sessanta e Settanta.

Il percorso che abbiamo fatto con la Fondazione è stato dunque quello di ripensare il ruolo di un’istituzione culturale nata con funzioni di studio e conservazione, cercando di renderla il più possibile una realtà dinamica, che non vuole musealizzare il proprio patrimonio ma lo vuole mettere in relazione con le tematiche più urgenti per la contemporaneità, impegnandosi nella profilazione di soluzioni che migliorino anche la vita dei singoli cittadini.  La stessa attività di ricerca viene ripensata in questo ambiente, cercando di fornire chiavi interpretative utili e rilevanti rispetto alla storia, all’economia, alla politica. Nella nostra visione l’istituzione dovrebbe essere capace di trasformare quelle analisi che provengono dalla ricerca, in un patrimonio che possa essere messo a disposizione di tutti i nostri interlocutori, anche di un pubblico generalista, diverso da quello originario della Fondazione. Siamo stati in grado, nell’ambito di questo percorso, di intercettare pubblici nuovi, immettendoci in una filiera di trasformazione dei contenuti molto ambiziosa. Un percorso che, dopo i primi anni di avvio, si conferma essere una sfida molto entusiasmante.

 

Le trasformazioni del sistema culturale

Uno dei temi che inevitabilmente si pone a chi voglia “fare cultura” oggi è quello del rapporto tra cultura ed economia. Come ritiene che si articoli oggi questo rapporto? Ritiene che siamo di fronte a cambiamenti importanti rispetto al passato? Pensa sia necessaria oggi una maggiore attenzione alla dimensione economico-produttiva e manageriale delle attività culturali e che questo ne comporti una ridefinizione e un ripensamento? E se sì, in quali direzioni?

Massimiliano Tarantino: In relazione a questo tema la risposta può essere molto diversa a seconda di chi viene interrogato. C’è chi continua a pensare che fare cultura voglia dire stare chiuso in una stanza a liberare il Genio creativo, ammirando in seguito quello che si è prodotto. Io personalmente rimpiango gli intellettuali del Novecento: attribuisco un forte connotato di utilità alla cultura quando questa entra in circolo, non quando rimane una semplice auto-celebrazione delle proprie idee. Rispetto a ciò l’economia resta certamente un mezzo necessario per dare continuità alla realizzazione delle attività culturali, ma oggi è importante mettere in evidenza anche quella che solitamente viene definita come “economia delle relazioni”, ovvero lo strettissimo rapporto che intercorre tra rapporti interpersonali, progettualità culturali e produzione di valore specificatamente economico. Questo implica fare in modo che un prodotto creativo o l’esito di un percorso di ricerca – e quindi ciò che ha a che fare con la parte più immaginifica del lavoro culturale – contribuisca al processo trasformativo della contemporaneità, intesa come realtà materiale nella quale le persone sono quotidianamente immerse. Coloro che potremmo definire gli “intellettuali contemporanei”, devono entrare in relazione con qualcun altro che non solo li legittimi in quanto tali, ma che sappia accogliere e fare propria l’idea proposta rendendola parte della propria vita quotidiana.  Da questo punto di vista sento poi il bisogno di inserire una terza componente del nostro ragionamento da affiancare alla cultura e all’economia, e cioè la politica. Io penso che le connessioni tra questi tre elementi siano indispensabili e siano i pilastri del processo evolutivo di una società. Se questi pilastri si reggono in maniera olistica e interdipendente si riesce a catturare il cuore del processo di cui stiamo ragionando, quel processo che intendo non in termini di mero progresso, quanto piuttosto di sviluppo di un nuovo ecosistema culturale nel quale la dimensione economica e quella politica sono inscindibili. Anche per questo motivo ritengo che l’attività di ricerca trovi un punto di ricaduta nella vita materiale delle persone: a mio avviso i cittadini giocano un ruolo fondamentale nello scenario culturale contemporaneo. Di conseguenza, se non si riesce o non si vuole vedere l’interdipendenza fra questi tre ambiti, separandoli e sezionandoli, si finisce per fare un discorso retrotopico, conservativo e non generativo.

Siamo partiti nello specifico dell’esperienza della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Considerando invece le fondazioni e gli istituti culturali nel loro complesso – anche se chiaramente ci troviamo di fronte a realtà diverse, che forse è difficile ridurre ad un discorso comune – quali sono in generale le potenzialità e i limiti di questo tipo di realtà culturali? Come possono essere uno strumento per agire in un contesto caratterizzato dall’insorgere di processi di “disintermediazione culturale” a cui stiamo assistendo in questi anni?

Massimiliano Tarantino: Penso che il sistema culturale italiano sia un unicum e sia fortemente influenzato da due elementi senza i quali non saremmo la società che siamo: da un lato il fattore dell’identità, con le sue rappresentazioni di interessi e tradizioni, dall’altro il tema del processo di formazione continua all’interno del quale siamo inseriti. Le istituzioni culturali – ed in particolare quelle che conservano un grande patrimonio storico come la Fondazione Gramsci, la Fondazione Einaudi o la stessa la Fondazione Feltrinelli –, costituiscono una parte essenziale del tessuto culturale del nostro Paese, assieme ad alcuni contesti museali, ai musei della scienza e a tutte le realtà parallele pubblico/private che conservano la storia e rappresentano le chiavi di accesso alla contemporaneità, all’innovazione, al futuro. Questo tessuto contribuisce senza dubbio a connotare in maniera specifica l’identità del Paese: un tessuto fatto di esperienze, storie, documenti, ma anche di curiosità ed errori. Noi oggi, giovani e meno giovani, siamo il frutto di stratificazioni complesse, di idee molto giuste, ma talvolta anche molto sbagliate. L’Italia è riuscita negli ultimi due, tre secoli a metabolizzare, a trasformare, a rendere tutto questo una combinazione estremamente dinamica e creativa. Se lei mi chiede quanto questo insieme di associazioni e fondazioni che animano il sistema culturale sia consapevole di essere il depositario di questo portato storico e di questa identità, le rispondo che forse non lo è appieno e quella riserva di saperi e memorie non è pienamente sfruttata neanche dai cittadini. Non bisogna poi dimenticare che le tante realtà che compongono il tessuto culturale del nostro Paese stanno tra loro in un rapporto di forte interdipendenza per un futuro comune, aspetto che ritengo cruciale ma che richiederebbe un approfondimento a parte. Inoltre, e qui vengo al secondo aspetto, tutti questi soggetti giocano un importante ruolo rispetto al processo di aggiornamento continuo – il lifelong learning, come si usa dire – a cui si faceva cenno in precedenza, il quale trova una specifica declinazione sotto forma di potenziale stimolo culturale continuo rivolto all’intera cittadinanza, oggi forse eccessivamente lasciato, per indolenza del sistema che ci circonda, al web o alle forme più effimere della medialità visiva come il cinema e la televisione. Continuo invece a credere molto a un lavoro sinergico tra il mondo della scuola, quello dell’università e quello delle fondazioni che detengono patrimoni storici. Un’alleanza finalizzata non solo e non tanto a ricordare chi si è partendo da ciò che si era, ma proprio per comprendere e vivere il contemporaneo, compito arduo ma imprescindibile.

Tutto il settore culturale è in questo momento messo alla prova dalla sfida dell’innovazione. Cosa significa per lei “innovazione” in ambito culturale? La Fondazione Giangiacomo Feltrinelli ha lavorato molto, e con risultati importanti su questo tema. Quale metodo ha applicato? Su cosa ha investito? Quale visione guida le sue scelte?

Massimiliano Tarantino: Da questo punto di vista per me la risposta è molto semplice, l’innovazione in ambito culturale non la fa chi produce cultura ma il pubblico. Innovazione in ambito culturale significa, quindi, costruire dei prodotti e delle filiere così da attivare dei sistemi culturali che, in qualche misura, sappiano agire nello spazio sociale presente e la cui utilità non venga determinata da chi li crea ma da chi li fruisce. Quindi ovviamente, rispetto alla filiera industriale classica il processo è esattamente opposto: non si fa ricerca e sviluppo e non si innova a partire da un prodotto precedente e già dato, ma tutto origina dalla cultura che è sì un prodotto creativo, frutto di costanti invenzioni e innovazioni, ma che è – soprattutto – un prodotto di relazione, che necessita di un profondo ingaggio con il pubblico, se vuole dirsi efficace. Perciò fare innovazione significa intercettare i cambiamenti linguistici, semiotici, antropologici, sociologici, di gusto, di costume e in qualche misura accettare la sfida – e il rischio – di andare oltre l’autoreferenzialità del singolo operatore culturale, sforzandosi di entrare negli interstizi, nelle indolenze che il sistema digitale ha indotto, creando così quella scintilla che di fatto è la differenza tra un essere umano e un sistema digitale. È a quella scintilla, a quel corpo umano, a quella mente, a quel cuore a e quella relazione emotiva che, secondo me, il prodotto culturale innovativo deve guardare per conquistarsi un futuro.

Massimiliano Tarantino

L’editoria è sicuramente uno dei settori al centro delle attuali trasformazioni. Dal suo osservatorio privilegiato nel gruppo Feltrinelli come vede la situazione del settore? Come immagina l’evoluzione dell’editoria, delle sue forme e dei contesti di fruizione?

Massimiliano Tarantino: L’editoria italiana si conferma come una realtà fondamentalmente tradizionale, dove l’editore è colui che pratica un mestiere molto nobile, ovvero sceglie cosa pubblicare e lo “confeziona” nella forma libro o in altre forme. Allo stesso tempo, però, l’editore diviene oggi anche colui che non solo è capace di intercettare dove sta la qualità – muovendosi quindi nella filiera della produzione dei contenuti –, ma è anche quel soggetto capace di adattarsi alle trasformazioni della tecnologia e ai gusti del pubblico. Attraverso un simile adattamento crea nuove connessioni tra questi elementi, facendo di ciò che ne risulta un prodotto di massa. Nel momento in cui si sceglie di fare l’editore – e dunque di stare a strettissimo contatto con le trasformazione degli usi e dei costumi, dei linguaggi, dei dispositivi tecnologici e delle fonti – si sceglie di voler provare a essere uno dei protagonisti di questa partita, capace di agire in maniera diretta sui processi. Si accetta anche di confrontarsi con realtà che hanno delle economie di scala che non sono più paragonabili a quelle che si osservavano nel Novecento, ma che sono globali.

In altre parole, a livello economico, per tornare all’inizio della nostra conversazione, si accetta di giocare una partita impari. Proprio una tale asimmetria, o relazione diseguale come si ama dire oggi, definisce un tratto tipico del mondo editoriale contemporaneo, che non può essere né ignorato, né sovvertito dall’oggi al domani. La risposta da parte di soggetti come la Fondazione Feltrinelli è quella di restare sempre in ascolto, sempre aperti alla contaminazione con altri soggetti e realtà, puntando a sviluppare al massimo i propri elementi connotanti. Sono proprio quegli elementi che il grande player globale – inarrivabile dal punto di vista del potere economico – può far fatica a captare perché non sono nelle sue corde. Di fatto si tratta di puntare su quello che sappiamo fare meglio: investire sulla nostra tradizione, sulla capacità di rendere attuale e utile in prospettiva futura quello che è il gusto del nostro pubblico, nonché sulla sperimentazione di tutto ciò che può introdurre rinnovamento e maggiore competitività sul mercato, sia dal punto di vista specificatamente economico, che identitario e di senso.

 

L’innovazione digitale e il nodo della complessità

I nuovi linguaggi e spazi introdotti dall’innovazione digitale stanno trasformando in maniera radicale non solo le dinamiche della comunicazione, ma anche le forme del sapere e dei modi di relazionarsi tra le persone. Quali sono, dal suo osservatorio, gli aspetti più rilevanti di questa trasformazione per il mondo culturale? Come stanno affrontando e come dovrebbero affrontare le istituzioni culturali le complessità di tali mutamenti?

Massimiliano Tarantino: Io mi chiedo, ed è la stessa domanda che mi faccio per i grandi fenomeni politici internazionali, come mai non si stia giocando la partita. Mi chiedo, cioè, come mai quelle che oggi vengono vituperate come élite – che siano élite culturali, élite economiche, élite industriali – si siano fatte irretire dai grandi player digitali e abbiano lasciato loro campo libero, soprattutto nell’ultimo decennio, perdendo completamente non solo il proprio potere e la propria influenza, ma anche la propria autorevolezza. Allo stesso tempo mi interrogo anche sul perché il campo progressista non riesca a ritrovare coesione e incisività. È come se avessimo tutti quanti sottovalutato un grande fenomeno che io racconterei così: ci siamo illusi che quello che stava succedendo fosse una trasformazione solo di linguaggio e non di sistema. Abbiamo lasciato che questo linguaggio digitale ci permeasse, illudendoci che poi le nostre leve, il nostro know how, la nostra capacità di gestire le trasformazioni ci consentissero di dominare il fenomeno, mentre invece è stato questo nuovo sistema emergente a dominare noi/a sopraffarci. Oggi il nuovo dispositivo conosce i nostri gusti, possiede miliardi di informazioni sulla nostra vita e sulla nostra personalità. Eppure solo ora iniziamo seriamente a interrogarci su quale sarà il futuro dell’uomo nel mondo del lavoro e come cambieranno i modi di relazionarsi tra le persone.

Ovviamente lo scenario futuro è ancora un orizzonte molto aperto e io non ho una risposta, penso che l’unica cosa che dobbiamo evitare sia negare l’emergere di uno scenario radicalmente nuovo o, a priori, contrapporci arbitrariamente. Ha ragione Geoff Mulgan quando dice che per vincere le grandi sfide del futuro ci dobbiamo affidare all’intelligenza collettiva. Dobbiamo, cioè, costruire una nuova tassonomia di quella che era l’intelligenza a cui facevamo riferimento noi, i nostri padri e i nostri nonni, mettendo insieme tutta la nostra capacità cognitiva, il nostro spirito adattivo e le competenze digitali, che permettono di moltiplicare enormemente la portata di determinati fenomeni. Il punto cruciale resta la capacità di utilizzare la trasformazione digitale per far sì che le condizioni di vita, nostre, dei nostri concittadini e di tutti coloro che ci vivono accanto migliorino, evitando processi involutivi. Bisogna agire a livello di politiche per l’uguaglianza, redistributive e dei diritti, utilizzando tutte le componenti di questa nuova realtà e puntando sull’unico elemento distintivo – come dice Jack Ma, il fondatore di Alibaba –, che ci differenzia davvero dalle macchine, ovvero il cuore. Allora usiamolo e quella trasformazione, che non abbiamo intuito essere una trasformazione di sistema e non solo di linguaggio, sarà la nostra migliore alleata.

Quello della complessità – un tema su cui abbiamo insistito molto come rivista – è talvolta usato come alibi per giustificarsi, per astenersi dallo sforzo del comprendere. Si tratta, però, di un punto chiave: come è possibile coniugare la complessità – anche mettendo in campo, come diceva lei, gli strumenti dell’intelligenza collettiva – delle domande a cui si è chiamati a provare a rispondere con l’inevitabile grado di semplificazione reso necessario dai meccanismi di comunicazione e dalle necessità politiche di rendersi comprensibili? Come preservare il “senso” dei grandi cambiamento in cui siamo immersi?

Massimiliano Tarantino: Io penso che l’ipersemplificazione della realtà sia una grande illusione. Non è una grande bellezza, è sicuramente una grande illusione. Mi spiego: quello che noi dobbiamo fare è semplificare il racconto della complessità, ma non ridurre la complessità a un insieme di nozioni semplici, perché non è così. Questa è la grande illusione e qui non posso esimermi dal fare un riferimento al campo della sinistra, che da sempre si è impegnato a rappresentare nella maniera più autentica e meno stereotipata la realtà sociale, sforzandosi con coraggio di non mentire rispetto alla complessità. Purtroppo però ha ceduto, nel non essere stata, e nel non esserlo ancora oggi, capace di fare due cose: di trasmettere competenza nell’affrontare la complessità e di comunicare quella competenza, laddove c’è, in modo semplice. Lo slogan che oggi si sente ripetere spesso “prima gli italiani” non è un concetto semplice, è un concetto complesso proposto in maniera semplice. La partita qui si gioca non solo sul piano dell’efficacia linguistica, ma anche sulla credibilità nel mettere la faccia di fronte ad una gerarchia delle questioni e riuscire a costruire una propria narrativa, rispondendo alla sfida della narrazione della complessità, proponendo una visione comprensibile e di impatto. Questo è in primo luogo quanto chiede l’elettorato progressista del nostro Paese, ed è da quella cruna che bisogna passare. Questo anche perché facendo questo percorso si comprende quanto sia illusorio vivere di una sommatoria di semplificazioni e quanto sia poi doloroso scoprire sulla propria pelle la tragicità di tali illusioni. Questo significa che la complessità nella quale viviamo non è semplificabile solo con un messaggio linguistico e populista, va affrontata e va comunicata con competenza e con una visione.

Servirebbe, insomma, un lavoro egemonico… Questo ci conduce verso la conclusione della nostra conversazione. Può, in definitiva, la cultura essere una reale e concreta forza di sviluppo per il nostro Paese, di crescita economica e uno strumento per disegnare un futuro diverso ripensando l’attuale paradigma economico e sociale? Che ruolo può giocare la cultura nel “pensare” un’Italia e un mondo diversi?

Massimiliano Tarantino: Siamo tradizionalmente riconosciuti in tutto il mondo non solo come il “Paese del bello” ma come il Paese della creatività, il Paese che, attraverso l’ingegno, riesce a trasformare e a rendere migliore con il design un prodotto, un paesaggio o un’opera di ingegno. La cultura è sempre stata il segno distintivo del nostro percorso storico; a volte lo abbiamo dimenticato, a volte abbiamo rinnegato che questo elemento sia stato alla base del grande progresso economico. Se non ci fosse stata la cultura – e nella cultura considero anche il patrimonio immateriale e il “saper fare” – non ci sarebbero stati i distretti industriali come quello della ceramica o della pelletteria. Io non guardo a chi sa fare un liuto, a chi sa fare una piastrella, a chi sa fare un prodotto di alta moda con lo snobismo di chi ritiene che la cultura sia solo Dante o Raffaello. Penso che l’Italia come Paese, come identità complessiva della sua storia e del suo presente, abbia nella cultura e quindi in quella immissione di creatività nel processo trasformativo di tutto ciò che noi facciamo, di tutto ciò che noi produciamo, la chiave distintiva nel mercato globale. Probabilmente a volte facciamo finta di non saperlo o di non guardare al nostro passato. Oppure ciò che ci sta attorno ha un connotato così depressivo che non crediamo di potercela fare. Io credo invece che noi possiamo e dobbiamo farcela.

Scritto da
Giacomo Bottos

Direttore di «Pandora Rivista» e coordinatore scientifico del Festival “Dialoghi di Pandora Rivista”. Ha studiato Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, l’Università di Pisa e la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha scritto su diverse riviste cartacee e online.

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