Sardine e politica. Intervista a Mattia Santori e Andrea Garreffa
- 19 Gennaio 2020

Sardine e politica. Intervista a Mattia Santori e Andrea Garreffa

Scritto da Giacomo Bottos, Raffaele Danna

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Questa intervista a Mattia Santori, la figura mediaticamente più esposta del movimento delle sardine, si inserisce in una serie di interviste e approfondimenti sul ruolo dei movimenti rispetto al sistema dei partiti, sui rapporti tra politica e antipolitica, sulle forme di mobilitazione efficaci oggi, che ha visto anche il contributo di esperti e politologi, quali Giovanni Orsina e Gianluca Passarelli, per approfondire questi temi anche muovendo dall’interesse che si è generato recentemente a partire dal fenomeno stesso delle sardine. In chiusura dell’intervista sono presenti alcune risposte ulteriori a cura di Andrea Garreffa, un altro dei fondatori bolognesi delle sardine, aggiunte in occasione di un’intervista in francese per Le Grand Continent.

Un fenomeno in merito a cui si possono avere opinioni differenti, con giudizi più o meno critici relativi ai suoi limiti. Ma le dimensioni e la risposta che ha suscitato in termini di partecipazione suggeriscono un’osservazione attenta, volta a capirne peculiarità, potenzialità e limiti. 


Il fenomeno a cui avete dato origine ha avuto un successo che, suppongo, va ben oltre le aspettative che potevate avere all’inizio. Secondo la tua interpretazione qual è lesigenza diffusa a cui avete dato voce e qual è il rapporto tra le vostre intenzioni iniziali e quello che si è sviluppato nel tempo?

Mattia Santori: La nostra intenzione iniziale, quando abbiamo organizzato la piazza di Bologna, era contestualizzata in un momento ben preciso: l’inizio della campagna elettorale e l’arrivo ufficiale in Emilia-Romagna di Salvini, che sapevamo si sarebbe trattenuto qui per mesi. Si trattava di presentare un’alternativa collettiva, di dare una sveglia subito, in modo da non doversi interrogare il giorno dopo le elezioni sulle responsabilità. In seguito quello che è successo è che, evidentemente, è saltato un tappo, si è scoperchiata una pentola che ribolliva. Da una parte all’altra dell’Italia c’era un senso di fastidio e malsopportazione di quello che stava avvenendo a livello di dibattito politico. A distanza di tre settimane, ci sono state ieri [sabato 7 dicembre, NdR], in un solo giorno 14 piazze in tutta Italia, autogestite, auto-organizzate, da parte di persone che hanno visto quello che era successo a Bologna, si sono riconosciute e hanno voluto scendere in piazza a manifestare il proprio dissenso rispetto alla piega che la Lega, e non solo, stava facendo prendere alla politica. Noi eravamo a fare tutt’altro, a seguire le nostre vite, e nel frattempo in Italia c’era questa ondata di manifestazioni, piazze gremite di persone.

Come interpreti il vostro ruolo? Usi spesso la parola “fenomeno” invece che “movimento” per definire la realtà che è nata. Perché questa scelta, qual è il significato e quali sono le implicazioni di questa scelta di termini?

Mattia Santori: Un movimento è qualcosa di organizzato. Nell’accezione del termine che siamo abituati a dare noi, ad esempio nel caso del Movimento 5 Stelle, è qualcosa di molto più organizzato e centralizzato, mentre questo è un fenomeno di riappropriazione di pensieri, di idee di società: è molto più riconducibile a un fenomeno sociale che a un movimento politico.

Ma l’idea che questo sia un fenomeno è legata anche a un’idea di temporaneità o è legata soprattutto a un tema organizzativo?

Mattia Santori: Anche la mancata consapevolezza della durata dà l’idea di un fenomeno. Stiamo parlando di qualcosa di incontrollato, che all’inizio doveva durare un giorno, forse una settimana. Sta durando un mese e forse proseguirà anche nei prossimi mesi. Forse diventerà qualcosa di più stabile ma in questo momento resta un fenomeno sociale.

Nella storia recente del nostro Paese spesso le mobilitazioni collettive, da quelle dell’epoca di Mani Pulite, ai girotondi, alle fasi iniziali del Movimento 5 Stelle, hanno teso a porsi tendenzialmente in contrapposizione alla politica e ai partiti. Invece nel vostro discorso sembrano esserci accenti diversi. Quale dovrebbe essere secondo te il rapporto tra un fenomeno come il vostro e la politica rappresentativa e i partiti? Qual è il ruolo che queste diverse forme politiche dovrebbero avere reciprocamente?

Mattia Santori: È un ruolo complementare. Da un lato serve un anticorpo sociale che aiuti a ristabilire le regole del gioco e del sano dibattito. Dall’altro serve una dimensione rappresentativa che, approfittando di questo sostegno da parte delle piazze, cerchi di ripristinare una politica in senso stretto più efficace, dove finalmente si possa discutere di temi. È chiaro che le due cose devono dialogare. La scommessa, un po’ utopica, alternativa, innovativa di questo fenomeno è appunto la ricerca di un dialogo tra i due aspetti. C’è una piazza che riconosce la responsabilità di essere stata assente per tanto tempo e una politica che riconosce di non essere stata in grado di dare un’alternativa alla retorica populista, sovranista.

Uno dei vostri obiettivi polemici è appunto il populismo, termine su cui si è discusso e scritto moltissimo. Molto in sintesi come definiresti il populismo? Quali sono nella vostra visione le caratteristiche essenziali di questo fenomeno che criticate?

Mattia Santori: Populismo significa dire alle persone quello che vogliono sentire, nascondendo la complessità delle questioni. Si sostiene il bisogno di stare uniti perché il nemico è solo uno, invece di essere sinceri e riconoscere che la politica è qualcosa di serio e di complesso, e che comunque sarà necessario trovare un compromesso tra chi sta bene e chi sta male, tra persone che fanno lavori diversi, tra interessi differenti. Sulla base di questa identificazione di un unico nemico si alimenta l’illusione che sia facile risolvere i problemi. Qui secondo me c’è anche una differenza tra il populismo e il populismo di destra.

Qual è questa differenza?

Mattia Santori: Pensiamo al populismo di Grillo che, ad esempio, sosteneva che fosse possibile spostarsi tutti in auto elettrica. Era una falsità ma non rappresentava un pericolo sociale. Il populismo di destra di Salvini e Meloni pone anche un problema di sgretolamento del tessuto sociale. Se si iniziano a vedere nemici dappertutto, si perde quella coesione sociale che è fondamentale in un Paese come l’Italia, che ha tante diversità al suo interno.

Come accennavi anche prima, un elemento centrale nella vostra visione è la richiesta di un dibattito pubblico più serio, approfondito, argomentato. Qual è secondo te la situazione del dibattito pubblico oggi? Quali sono le ragioni di tale situazione e cosa occorrerebbe fare per cambiare questa rotta? Infine qual è il rapporto tra questo obiettivo più generale e l’avversario politico immediato contro cui la mobilitazione è nata, ovvero Salvini?

Mattia Santori: Il primo punto è questo: se il campo da gioco è inquinato è difficile che venga espresso un buon gioco. Prima di guardare alle responsabilità dei diversi partiti – della sinistra, del centro, dei moderati – noi dovremmo riflettere sul modo in cui una parte della destra ha ottenuto i propri consensi. Questo è avvenuto con dei metodi, basati anche su psicologia e informatica, tali per cui su Internet e Facebook – dove ormai moltissime persone sviluppano opinioni su tutti gli argomenti – fosse possibile manipolare ad arte i messaggi. In questo contesto la difficoltà per chi voleva esprimere un concetto complesso era di riuscire ad affermarlo senza essere sovrastato da chi usava toni diversi e senza essere aggredito. Se anche Berlinguer, Pertini o De Gasperi fossero stati presenti in questi anni non sarebbero riusciti ad affermare un concetto in questo schema di gioco. Quindi c’è una responsabilità oggettiva e finché non la si riconosce non si va da nessuna parte. Dopodiché ci sono stati politici più o meno efficaci ma prima di tutto va riconosciuto questo nodo. Anche per quanto riguarda i temi ambientali non è possibile affrontarli seriamente fintantoché, ad esempio, Greta Thunberg è sminuita in quanto persona e non si analizza il messaggio che porta. Questo è il terreno su cui lavoriamo: ripartire da una serie di temi e lavorare su questi. Anche perché, se finora l’esperienza diretta e immediata delle minacce, degli insulti, della manipolazione di Facebook e di Internet era riservata prevalentemente ad alcune figure molto esposte, ora viene vissuta da molte più persone. Chiunque ha organizzato una piazza in Italia è andato incontro a tantissimi problemi, di reputazione, di insulti, di diffamazione della propria persona, di violazione della privacy. In questo momento ci sono centinaia, migliaia di persone in tutta Italia che hanno capito e subìto quello che di solito può succedere ai politici o agli esponenti di istituzioni o ai sostenitori di determinate idee.

Questa richiesta di serietà, stando ad alcuni tuoi interventi, sembra tradursi in una richiesta di delega ai competenti nelle varie materie. Non vedi un potenziale rischio di svuotamento del dibattito democratico sulle questioni? Come si legano preparazione e partecipazione, democrazia e complessità?

Mattia Santori: L’Emilia-Romagna è un buon laboratorio di analisi. Quello che è successo in Emilia-Romagna, dopo tante piazze piene, è che il candidato alla Presidenza della coalizione di centrosinistra ha accettato la sfida e ieri [sabato 7 dicembre, NdR] ha riempito una piazza per proporre dei contenuti politici. Non è un tecnico, è un politico che è tornato in piazza senza filtri, schermi, social a spiegare qual è il suo progetto. Tutto questo è possibile. Probabilmente bisognava ristabilire o annullare questa percezione sbagliata che faceva sì che tutti fossero convinti che nessuno avesse più voglia di andare in piazza. La politica si è resa conto che le piazze possono essere riempite non solo di gente che urla, che odia o che ha paura, ma anche di persone che non vedono l’ora di sentir dire qualcosa di sensato.

Voi chiedete alla politica di svolgere il proprio ruolo, di affrontare la complessità, ma lo fate con un messaggio semplice, diretto ed efficace. Come si articola questo nesso tra complessità e semplificazione? Sono possibili dei punti dincontro? In quali luoghi può avvenire questo incontro?

Mattia Santori: Abbiamo parlato con un direttore d’orchestra, che è anche un compositore, che diceva “quanto è difficile essere semplici”. Questa è stata la sfida. Quando riesci a coinvolgere le persone attraverso qualcosa di apparentemente semplice e a far passare un messaggio tutt’altro che semplice, allora hai vinto la tua scommessa. Io non sono un esperto. Riporto l’esperienza di Bologna: noi abbiamo chiesto 20 minuti del proprio tempo alle persone. In quei 20 minuti noi, facendo finta di coinvolgerli in qualcosa di “stupido” li abbiamo fatti scendere in piazza, abbiamo fatto costruire loro una sardina – quindi c’era un’applicazione fisica, mentale, manuale – e poi nel momento del flash mob in piazza abbiamo proposto la canzone di Lucio Dalla, una canzone per niente facile, con un testo molto profondo, che serviva a far pensare le persone. Ci sono quattro dimensioni che si attivano: fisico, cervello, mani e pensiero. Tutto questo è come se fosse un defibrillatore, che ti scuote e ti fa tornare in vita. Dopodiché sei molto più ricettivo a valutare, selezionare le informazioni che ti arrivano. Poi è chiaro che c’è una componente semplicistica di questo movimento, visto da fuori, ma per chi lo vede da dentro ha una complessità spaventosa. Tant’è che è un fenomeno che tiene insieme dentro di sé i cattolici, la comunità LGBT, i comunisti, i grillini delusi, le associazioni, gli immigrati, i benestanti, i giovani. È impressionante l’ampiezza di questo fenomeno. Poi è chiaro che ciascuno deciderà per conto suo chi votare, però intanto si è sentito parte di uno schieramento diverso.

Tra i diversi elementi della vostra mobilitazione sembra esservi anche un elemento generazionale. Secondo te questo ha un significato particolare? E se sì come si lega al complesso delle richieste e della prospettiva che hai delineato?

Mattia Santori: Questa è la componente più importante. Io ho sempre pensato al valore del dialogo intergenerazionale delle nostre comunità. L’Emilia-Romagna ha fatto scuola in questo. C’è una forte relazione tra persone di diverse età, che scambiano competenze, imparano lavori, lavorano per creare comunità più solide e più ampie. Questa è la parte più interessante di questo fenomeno. Noi abbiamo voluto comunicare che l’Emilia-Romagna funziona anche perché non c’è una frattura tra giovani e anziani, ma c’è un diverso grado di competenze. L’anziano riconosce al giovane di essere molto più energico e gli chiede di emergere perché è il suo momento. Il giovane riconosce all’anziano di avere mezzi superiori per saper leggere, per descrivere, per informarsi, gli riconosce di avere una storia. Queste due cose messe insieme generano quello che si è visto. Nelle piazze si vede tantissimo. Le piazze organizzate solo da giovani o solo da adulti hanno delle lacune. Le piazze organizzate, come nel caso di Rimini o di altre città, da un gruppo eterogeneo di persone, hanno un valore incredibilmente diverso. Hanno l’energia dei giovani ma, al tempo stesso, la saggezza degli adulti.

Il successo della vostra mobilitazione cosa vi ha insegnato sulle forme di organizzazione politica oggi? Quali sono i fattori di una mobilitazione di successo? 

Mattia Santori: Il grande tema è l’innovazione comunicativa. Questo è il tema su cui insistiamo sempre e insisteremo anche a Roma con tutti i referenti. Non si può più pensare di presentare temi politici con gli schemi del passato, perché non funziona più.

Cosa avete imparato in queste settimane? E quale sarà il futuro di questo fenomeno?

Mattia Santori: Abbiamo imparato che la percezione delle cose è completamente falsata. Internet e i social network arrivano a falsare le percezioni non solo dei prodotti commerciali, ma anche delle idee di società. Questo lo abbiamo visto in tutte le piazze delle sardine. Quasi sempre i referenti mi chiamano il giorno prima della manifestazione dicendo che la loro è una piazza difficile, che non riusciranno a riempirla. Gli stessi referenti mi chiamano il giorno dopo raccontando che la piazza è stata un successo, qualcosa che non si era mai visto negli ultimi trent’anni. Questa è sicuramente la questione centrale. L’altra cosa che abbiamo scoperto è che se si sta zitti, qualcuno parlerà al nostro posto. Questo vale sia nel dibattito politico, sia nelle piazze, sia a livello mediatico. L’errore del Movimento 5 Stelle nella fase iniziale era quello di rifiutarsi di andare in televisione, di rilasciare interviste, di parlare. Sono stati gli altri a descriverli. Noi – forse troppo – andiamo in televisione, andiamo sui giornali, rilasciamo interviste, interveniamo, proprio perché vogliamo evitare che qualcun altro ci descriva al posto nostro. Per quanto riguarda il futuro credo bisognerà ritornare sul livello territoriale. L’idea, molto complessa, per la quale servirà tanto tempo, è quella di sintetizzare quello che siamo, che siamo stati, di capire chi ha composto questo movimento, quali sono i temi che ci hanno unito, quali sono le sfide future. Questo è necessario proprio per fare in modo che nelle sfide future possiamo essere uniti e dare ancora un segnale, che non sia politico in senso stretto ma che rappresenti quel famoso argine, quell’anticorpo rispetto all’avanzata di qualcosa di disastroso. Questo richiederà tempo. Roma sarà solo l’inizio di un percorso che metterà insieme il livello nazionale e quello territoriale.


Le risposte seguenti sono a cura di Andrea Gareffa, un altro dei fondatori bolognesi delle sardine, e sono state aggiunte in occasione di un’intervista in francese per Le Grand Continent.

Come concepisce il fatto che il fenomeno delle sardine sia soprattutto urbano? Vede un rischio di rottura con le soggettività meno / non integrate?

Andrea Garreffa: Per prima cosa sottolineerei che, se è vero che quello delle sardine è stato finora un fenomeno prevalentemente urbano, non lo è stato esclusivamente. Ci sono stati esempi di realtà “minori” come Castelnovo ne’ Monti e altre località, in special modo in Emilia-Romagna, che si sono attivate. Questi esempi possono indicare una direzione per il futuro: le zone più periferiche sono il prossimo passo. Non è nell’intenzione di noi organizzatori lasciarle ai margini dell’attenzione. Anzi, vorremmo che fossero coinvolte, messe al centro, perché si vada a ricucire il tessuto, la connessione, tra centri e periferie. Siamo convinti che anche le periferie possano interessarsi a questo tipo di iniziativa. A livello di mobilitazione stiamo usando questo periodo di pausa per fare le valutazioni del caso, in modo da poter ripartire a gennaio con delle idee che, riprendendo quanto già fatto, introducano anche qualche elemento di novità. È importante che le forme siano coerenti ai nuovi contesti in cui intendiamo muoverci, che non vengano vissute come calate dall’alto da parte degli abitanti delle città, che rispondano al sentire delle varie zone. Personalmente ho già ricevuto varie chiamate da parte di abitanti di paesi che non vedono l’ora di interpretare in chiave fortemente locale quanto è stato fatto finora. In realtà contiamo molto sulla partecipazione dal basso, non su un’imposizione di un modello o di attività da parte nostra. Così come è avvenuto finora nei contesti cittadini, crediamo che anche nelle zone più periferiche possa nascere un’iniziativa da parte delle persone che le abitano.

Ci sono delle relazioni tra le sardine e i gilets jaunes? Come si dovrebbero relazionare i due fenomeni a suo avviso?

Andrea Garreffa: Pur non avendo conoscenza diretta o contatti personali con persone interne al fenomeno dei gilets jaunes, dall’esterno sono portato a dire che le istanze fondative e le modalità delle due realtà siano diverse. Nel caso dei gilets jaunes il movimento parte da una questione molto specifica, come il prezzo della benzina – e dunque il costo della vita –, per poi allargarsi a una serie più ampia di rivendicazioni, assumendo un carattere di contrapposizione netta, talvolta anche violenta, nei confronti del governo. Nel nostro caso il punto di partenza è un altro e ha come oggetto principalmente un certo tono, una modalità di far politica e i contenuti che questa propone, avendo come obiettivo polemico principale il populismo. A Bordeaux c’è stato un contatto con un rappresentante dei gilets jaunes, che ha portato alla presenza di alcuni manifestanti del movimento nella piazza delle “sardine” organizzata in quella città. Nel complesso dunque si può dire che finora i rapporti in questi contesti sono stati improntati a reciproco rispetto nella distinzione delle motivazioni.

Nel vostro posizionamento si trova spesso un riferimento al tema della competenza. Come si pone di fronte alla critica di un assorbimento tecnocratico del fenomeno sardine che ne farebbero un’espressione della tendenza tecnopopulista contemporanea?

Andrea Garreffa: Penso che la domanda, per quanto ben posta, trascuri il fatto che la competenza tecnica non è l’unico e il solo aspetto che viene portato all’attenzione pubblica da chi ha deciso di scendere in piazza. Pensiamo però che il confronto democratico presupponga delle condizioni di base, dei fondamentali: c’è bisogno di una capacità di intendersi, di ascolto e di un rispetto delle istituzioni all’interno delle quali il confronto dovrebbe avvenire. Questo per quanto riguarda la forma. Per quanto riguarda i contenuti riteniamo che richiedere la competenza non porta di per sé a una deriva tecnocratica. Il tema della rappresentanza resta ed è fondamentale. Occorre combinare i due elementi. La politica, del resto, è fatta di tante sfaccettature: non a caso uno dei temi fondamentali che portiamo all’attenzione del dibattito pubblico è quello della complessità.

Scritto da
Giacomo Bottos

Direttore di «Pandora Rivista» e coordinatore scientifico del Festival “Dialoghi di Pandora Rivista”. Ha studiato Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, l’Università di Pisa e la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha scritto su diverse riviste cartacee e online.

Scritto da
Raffaele Danna

Laurea in Filosofia all’Università di Bologna e PhD in History presso la University of Cambridge, Pembroke College. Dopo un periodo presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Istituto di Economia, è attualmente Max Weber Fellow presso lo European University Institute, Faculty of History.

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