Scritto da Giacomo Bottos
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Peppe Provenzano Ministro per il Sud e la cosesione territoriale e già Vice Direttore della SVIMEZ (Associazione per lo Sviluppo del Mezzogiorno), si è laureato e ha conseguito il dottorato in Diritto Pubblico alla Scuola Superiore “Sant’Anna” di Pisa. È il promotore dell’associazione Sinistra Anno Zero.
Abbiamo deciso di intervistarlo, anche in occasione dell’uscita delle anticipazioni del Rapporto SVIMEZ 2018, per approfondire il complesso di temi legati alla frattura Nord/Sud e alla “questione meridionale” che ha accompagnato la storia del nostro Paese. L’intervista mira a mettere in evidenza i diversi aspetti di questa frattura, a partire dalla sua dimensione storica per giungere alla forma che ha assunto negli anni più recenti, soffermandosi tra le altre cose sulla stagione dell’intervento straordinario e sulla sua successiva crisi, sul ruolo delle classi dirigenti locali e nazionali, sulle politiche europee, sugli effetti della crisi, sullo stato attuale dell’economia meridionale e in generale sul carattere paradigmatico che l’analisi dell’economia e della società del Mezzogiorno può rivestire nell’evidenziare le principali contraddizioni del modello di sviluppo italiano ed europeo. L’intervista è a cura di Giacomo Bottos. Le opinioni espresse dall’intervistato non impegnano l’istituzione di appartenenza.
Hai spesso ripetuto come guardare al Sud e ai suoi cambiamenti possa rivelare delle tendenze più generali, come permetta di vedere, in forma concentrata, contraddizioni e dinamiche che sono presenti anche nel modello di sviluppo del Paese nel suo complesso o, ad esempio, su scala europea. Per quali ragioni avviene questo secondo te?
Peppe Provenzano: Forse questo accade per me, come per chiunque parta da un punto di osservazione specifico e si interroghi su cosa gli accade intorno. Ma io ne sono convinto: il Sud non è un luogo a sé, gravato da vizi interni tali da offuscare il contesto, avulso dalla storia e dalla geografia. È invece un’area inserita nelle grandi trasformazioni della società italiana e dell’economia mondiale rispetto alle quali si presenta spesso uno specchio rivelatore, riproducendone in forma concentrata contraddizioni e fratture vecchie e nuove. Non si tratta solo dei limiti del modello di sviluppo italiano, che al Sud si accentuano: debolezza della macchina pubblica, modello di specializzazione produttiva, organizzazione aziendale e scarso contenuto di conoscenza, limiti che si riflettono sulla produttività. Le lezioni che possiamo trarre dal Sud sono più ampie: se avessimo considerato meglio le dinamiche della più grande area meno sviluppata d’Europa – tale è infatti oggi il nostro Mezzogiorno – ci saremmo accorti, ben prima che importanti libri scritti da economisti per fortuna divenuti alla moda lo spiegassero, dei nessi tra equità e sviluppo (Piketty, Atkinson, Stiglitz) e dei limiti un mercato che, al di là dei suoi noti fallimenti, di per sé non produce innovazione e convergenza (Mazzucato). In definitiva avremmo colto le ragioni profonde della crisi, che la Grande recessione ha soltanto disvelato. Avremmo allo stesso tempo posto il tema della frontiera meridionale dell’Europa e dell’inadeguatezza di un impianto economico europeo e dell’Eurozona, privo di degli strumenti per correggere gli squilibri di sviluppo, di benessere e competitività, e che anzi finisce per aggravarli.
L’Italia è un paese da sempre segnato da molteplici fratture e divisioni. Ritieni che quella Nord/Sud mantenga tuttora un valore paradigmatico e resti una, o la chiave fondamentale per interrogarsi sui problemi del Paese?
Peppe Provenzano: È quello che provo a sostenere. Non va dimenticato che, storicamente, la prima delle divisioni del nostro Paese è proprio quella fra Nord e Sud, connessa alla formazione dello Stato unitario, alla quale si lega immediatamente il porsi della “questione meridionale”. Si tratta di una linea di divisione forse inevitabile, per un Paese troppo lungo, come lo descrissero gli arabi mille anni fa nelle loro scorribande da Sud a Nord e come ricordava Giorgio Ruffolo in un bel libro intitolato appunto Un paese troppo lungo. L’unità nazionale in pericolo, una frattura che oggi si carica di un tratto di forte attualità. Non mi riferisco al risultato elettorale del 4 marzo, che restituisce un’Italia politicamente divisa come mai prima d’ora, ma a processi più ampi. L’Italia è attraversata da molte linee di frattura, che creano sacche di emarginazione in cui si genera il risentimento, al Sud come al Nord. Se provassimo a fare un inventario di queste fratture dovremmo ricordare almeno: quelle sociali, di genere e di generazione, sul lavoro e sul welfare; tra territori, centro e periferie, città e aree interne; tra imprese, inserite nelle catene globali del valore o ripiegate in una competizione difensiva e al ribasso; perfino democratiche, se penso al godimento dei diritti di cittadinanza; e infine demografiche. Ecco, tutte queste fratture al Sud si sommano, si combinano e si accentuano. In questo senso per le complessità che tale sovrapposizione porta alla luce, il Mezzogiorno può tornare ad essere una chiave di lettura fondamentale dei problemi dell’Italia tutta.
La “questione meridionale” ha accompagnato la storia unitaria del nostro Paese, con approcci anche molto differenti sul piano teorico e politico. Quali sono a tuo avviso i momenti più alti della riflessione sul Meridione e i modelli di intervento che hanno sortito maggior successo nella riduzione di uno storico divario?
Peppe Provenzano: Sul meridionalismo si è esercitato il meglio della cultura italiana, ma non bisogna cadere nella retorica. La questione meridionale non coincide con la storia del Mezzogiorno. I meridionalisti classici dicevano peraltro cose molto diverse tra di loro, come spiega bene Salvatore Lupo nel volume La questione. Le vette si sono toccate ogni volta che partendo dal Sud si è riusciti a comprendere un fenomeno generale. Questa è stata la grandezza della riflessione gramsciana sulla quistione meridionale, al centro della quale vi è l’idea che il potere funzioni per blocchi, al Sud come a Detroit. La capacità di inserire l’analisi sul Sud all’interno di un quadro complessivo è stata anche la grandezza del “nuovo meridionalismo”, che nel Secondo Dopoguerra si raccolse intorno alla SVIMEZ, forse il primo think tank italiano. Morandi, Menichella, Saraceno vollero promuovere un meridionalismo, per così dire, “scientifico”: mettere i numeri accanto ai problemi, e anche alle soluzioni. Lì fu concepita l’esperienza straordinaria della prima Cassa per il Mezzogiorno, e un complesso di istituzioni e politiche pubbliche per lo sviluppo del Sud, per le quali si può dire che il miracolo economico non fu “un miracolo”. Alla base di questo successo c’era anche un rapporto con la società e con un sindacato che, dopo l’epopea delle lotte contadine, aveva raggiunto il suo punto più alto nel Piano del Lavoro di Di Vittorio. Cruciale era anche il rapporto con il governo e le sue catene di comando: fu lì che, pochi anni dopo, si approntò il Piano Vanoni. Soprattutto, c’era la consapevolezza del contesto generale: la questione dello sviluppo del Mezzogiorno, per liberare il potenziale di crescita dell’intero Paese, era inserita nella riflessione mondiale sulle teorie e pratiche dello sviluppo delle aree arretrate. Presso la SVIMEZ si tenevano corsi di alta formazione, di livello internazionale: quelle stanze erano frequentate da personaggi come Jan Tinbergen, il primo Premio Nobel per l’economia.
Negli ultimi anni, a partire almeno dagli anni Novanta, si sono diffusi approcci di vario genere che tendevano a ridimensionare, relativizzare o ribaltare l’idea della centralità della “questione meridionale” come era classicamente posta. Quali sono stati i principali approcci e momenti di questo dibattito e quali errori ravvisi in queste posizioni?
Peppe Provenzano: Esaurita, per ragioni interne e internazionali, la stagione migliore dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, già negli anni Ottanta, la lettura dualistica del divario Nord-Sud apparve come una retorica, che alcuni, anche con buone intenzioni, provarono a decostruire, raccontando la complessità, i molti Sud. Solo che anche questa divenne una retorica: per descrivere il ritardo, ricorrevamo alla categoria di Mezzogiorno, se volevamo parlare delle cose che andavamo bene, parlavamo dei “Mezzogiorni”. Per una fase, negli anni Novanta, si pensò persino di “abolire il Mezzogiorno”, cosa che in effetti sarebbe in un certo senso accaduta, con la rimozione del riferimento contenuto nell’articolo 119 della Costituzione, nell’ambito della riforma “federalista” del 2001. La Seconda repubblica nasce del resto all’insegna della “questione settentrionale”, il Sud insegue. Fu d’altronde la fase di entusiasmo legata alle cosiddette “primavere dei sindaci” che preparò il clima nel quale maturò il riassetto costituzionale. Sul piano istituzionale già il regionalismo era stato un fallimento; il localismo non è riuscito, né avrebbe potuto fare di meglio. Ancor prima, il mito ingenuo e rivelatosi fallimentare dello sviluppo “endogeno”, “autopropulsivo” – declinazione della subalternità al neoliberismo – portò allo smantellamento, soprattutto dopo il 1992, degli strumenti di intervento pubblico nell’economia. Si trattava di illusioni, miti rinverditi da ultimo con la retorica delle “eccellenze”, come se un’area di venti milioni di abitanti non fosse ricca di complessità, di contraddizioni interne, disuguaglianze.
La questione delle classi dirigenti rientra spesso nella discussione sui problemi del Sud. Si tratta di problemi da attribuire prevalentemente alle classi dirigenti locali o nazionali o a entrambe? Quali strade si potrebbero immaginare per iniziare a sciogliere questo nodo, di un deficit di capacità da parte della classe dirigente di mettere in campo soluzioni strutturalmente efficaci?
Peppe Provenzano: È il tema più antico della riflessione meridionalistica, che attraversa il pensiero di Salvemini, Gramsci e Guido Dorso. Io ne ho discusso a lungo con Emanuele Felice che, nel suo libro Perché il Sud è rimasto indietro, faceva ricadere le responsabilità dell’arretratezza del Sud sulle classi dirigenti locali, applicando, forse un po’ schematicamente, il concetto di “estrattività” delle istituzioni di Acemoglu e Robinson. Finendo in questo modo per prestarsi alla lettura più interessata, quella secondo cui “la questione meridionale è una questione di meridionali, e vedetevela voi”. Ma così il tema del Mezzogiorno, nella sua valenza più generale, muore. Va da sé che il “ritardo” del Sud non può ridursi a una sola causa, ma sarebbe arbitraria la rimozione delle responsabilità, e anche dei meriti, dal Dopoguerra in poi, delle classi dirigenti “nazionali” che si sono misurate col problema meridionale. Non è sulle classi dirigenti nazionali che ricade la responsabilità prima e ultima del superamento dei divari e degli squilibri di sviluppo? Anche se si considera la cosiddetta Seconda Repubblica, è alle classi dirigenti nel loro complesso che va rivolta la critica, con un’aggravante per quelle nazionali e di sinistra: è stata l’apatia, quando non l’antipatia, verso il Sud, frutto di una certa “frigidità” nei confronti delle questioni sociali, a lasciare proliferare oligarchie locali – nel frattempo, destinatarie di un trasferimento di potere considerevole – con cui le dirigenze centrali hanno stabilito nel migliore dei casi rapporti di reciproca e nefasta non interferenza. Nel peggiore dei casi, al Sud venivano garantiti compromessi scadenti in nome di equilibri nazionali. Ovunque, poi, le classi dirigenti locali sono state lasciate in balia di un processo di personalizzazione della politica, favorito anche da legislazioni elettorali (dai vizi troppo a lungo ignorati) che, sommate al rachitismo dell’organizzazione dei partiti, hanno esposto gli eletti all’insostenibile ricatto dei potentati economici locali. Nel frattempo, un’intera generazione altamente scolarizzata, la futura classe dirigente, in assenza di prospettive, ha abbandonato il Mezzogiorno. Dorso diceva che la formazione delle classi dirigenti è un frutto misterioso della storia, ma senza una stagione di ricostruzione della democrazia, della politica, delle istituzioni, delle organizzazioni sociali, e soprattutto senza riavviare un processo di sviluppo che offra lavoro buono, che liberi dal ricatto del bisogno, questa resta una discussione astratta.
Oltre alle classi dirigenti, vanno presi in esame anche i caratteri della società meridionale. Quali sono le principali differenze rispetto al Nord? Esiste effettivamente una diversità in termini di articolazione del tessuto sociale e se sì quali ne sono le cause storiche?
Peppe Provenzano: Certo che bisogna guardare ai caratteri della società, ma se il riferimento è al tema del cosiddetto capitale sociale, devo essere sincero, non mi convince né sul piano scientifico né tanto meno su quello politico. È un filone sempre più calcato nella letteratura, che parte dalla discutibile (ma fortunatissima) categoria del “familismo amorale” di Banfield e passa per gli studi (sempre discutibili) di Putnam sulla civicness nel lungo periodo, e che individua nella mancanza o insufficienza del capitale sociale la “causa” del ritardo di sviluppo del Mezzogiorno. A parte l’eccessiva e indefettibile “vaghezza” del concetto, che ne rende incerta la “misurazione”, riservare un ruolo decisivo ai fattori “culturali” e “relazionali”, peraltro dichiarati come persistenti (se non addirittura immutabili) nel tempo, rischia di negare l’efficacia e la stessa utilità di politiche (inficiate a loro volta dal deficit di cultura civica) per modificare questa dotazione e innescare una dinamica di convergenza e riduzione dei divari. Come si forma il capitale sociale? Qual è il nesso di causalità tra capitale sociale e sviluppo? Abbiamo molte evidenze, specialmente nel quadro della crisi, di “causalità inversa” rispetto alla tesi dominante. Si assiste all’emergere di situazioni paradossali: per fare un esempio, il tasso di partecipazione elettorale (uno degli indicatori del capitale sociale) è stato alle regionali il doppio in Calabria rispetto all’Emilia-Romagna. Bisogna riscrivere il libro di Putnam? La verità è che la riflessione sul “capitale sociale” come causa determinante del ritardo, non è estranea alla temperie culturale, che ha dominato il pensiero economico negli ultimi decenni, e che mostra estrema insofferenza alle politiche pubbliche, e tanto più a un intervento pubblico in economia mirato alla riduzione delle disuguaglianze e alla attivazione del capitale “sottoutilizzato”.
Nel contesto che si è determinato a partire dagli anni Novanta in relazione al processo di integrazione europea, le politiche a favore del Mezzogiorno sono cambiate. Il ruolo dei fondi europei legati alle politiche di coesione ha in parte sostituito le allocazioni derivanti da politiche nazionali. Quali le criticità e i limiti che si sono manifestati in questo contesto?
Peppe Provenzano:Il 1992, l’anno di Maastricht, coincide forse non a caso con la conclusione dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno. Dopo di allora, la politica di coesione europea – i famosi fondi strutturali – ha rappresentato l’unico ancoraggio per un Sud altrimenti privato di ogni forma di intervento. Si è esternalizzata ai soli fondi strutturali della politica di coesione la soluzione del problema meridionale. Questo è divenuto un alibi per la rimozione del tema dalle politiche nazionali. I fondi europei, venendo impiegati in sostituzione – e non come integrazione – delle risorse nazionali, perdevano la loro efficacia. Le carenze nella governance economica complessiva dell’Europa hanno poi aggravato questo stato di cose. Da Maastricht all’Euro senza un governo politico delle politiche fiscali e sociali, fino al vincolo “capestro” del cosiddetto Fiscal compact, ciò che si è determinato è l’impossibilità nei fatti di mettere in campo politiche di sviluppo in grado di innescare convergenza tra le aree e accelerare i processi di sviluppo. L’assetto che ne è risultato ha favorito la divergenza, esito che certo non poteva essere corretto da una politica di coesione che, da un punto di vista quantitativo e qualitativo, diveniva uno strumento sempre più “debole”. In sintesi: anche in assenza dei nostri limiti interni, sarebbe stato difficile far fronte al duplice svantaggio competitivo determinato dall’essere al contempo un’area debole e un membro dell’Eurozona, il che comporta uno svantaggio sia rispetto alle aree forti, per la non ottimalità dell’area monetaria, sia rispetto alle aree deboli esterne all’Euro, che possono adottare politiche fiscali meno vincolanti, tassi di cambio più facilmente manovrabili, e più in generale politiche meno restrittive rispetto ai Paesi che hanno adottato l’Euro. Bisogna fare attenzione però a non cadere nel meccanicismo. L’”Europa tedesca” era ancora lungi da venire quando l’Italia rinunciava a politiche di sviluppo per il Sud, a politiche industriali. Se non si sono fatti investimenti pubblici, anche quando abbiamo si è goduto della “flessibilità”, come nel 2016, la colpa non è certo della Merkel.
Come la crisi iniziata nel 2007-2008 ha impattato, nel complesso, su un contesto già indebolito come quello meridionale? E che valutazione complessiva si può dare delle politiche adottate dagli ultimi governi?
Peppe Provenzano: Sette anni consecutivi di contrazione dell’economia meridionale – a tutti gli effetti, una Grande recessione – hanno avuto un impatto devastante perché si sono abbattuti su un tessuto economico e sociale già segnato da evidenti fragilità: la crisi al Sud precedeva “la crisi”. I poveri sono raddoppiati. Sono stati persi 600 mila occupati, dei quali 300 mila sono stati recuperati ma senza che le fasce giovanili fossero coinvolte da questa ripresa dell’occupazione. Sono state espulse dal mercato non solo le imprese che non reggevano, ma anche imprese sane, a cui è mancato del tutto l’impulso della domanda pubblica. L’austerità è stata fortemente asimmetrica sul piano territoriale, penalizzando il Sud. Questo è avvenuto non solo per la carenza di investimenti pubblici, ma anche per la riduzione della spesa corrente: gli acquisti delle Pubbliche amministrazioni, i consumi collettivi, che al Sud si sono contratti fortemente. Si è poi ulteriormente deteriorata la capacità di offrire servizi pubblici ai cittadini e alle imprese. Si è parlato del “trionfo delle idee fallite”, ma non si tratta solo di questo. La situazione è stata ancora peggiore: vi è stato un accanimento masochistico, determinando la situazione paradossale per la quale, nel momento in cui avremmo avuto maggiormente bisogno della leva pubblica, questa è venuta meno. L’effetto è stato negativo per tutto il Paese, in quanto le risorse investite al Sud generano benefici anche per il Nord, attivando una domanda di beni e servizi che vale, complessivamente, il 14% del Pil. Le politiche che sono state attuate negli ultimi anni sono state all’insegna del “troppo poco e troppo tardi”. Troppo tardi, perché alcune misure sono rimaste sulla carta e non sono ancora attuate. Troppo poco, perché una legislatura – la scorsa –, con una maggioranza di centrosinistra, che fa toccare i livelli di investimenti pubblici più bassi di sempre, situandosi sotto di quasi un punto di Pil rispetto ai livelli pre crisi, rappresenta un fallimento.
Sono uscite di recente le anticipazioni del nuovo Rapporto SVIMEZ. In estrema sintesi che immagine emerge dell’economia meridionale e quali raccomandazioni se ne ricavano?
Peppe Provenzano: Emerge un Sud che prosegue la sua ripresa, al ritmo del resto del Paese. è un risultato non scontato, che è importante perché dimostra come il Mezzogiorno non sia destinato a rimanere fuori dai processi di sviluppo. Ma la ripresa è stata troppo debole per colmare le voragini scavate dalla Grande recessione. Inoltre nel quadro di questa ripresa si registra un ulteriore allargamento delle disuguaglianze tra cittadini, tra imprese, tra territori. Disuguaglianze che hanno come ricaduta il lavoro che manca, o che è precario e a bassa retribuzione, nonché una nuova stagnazione salariale che incide sull’emergenza sociale di vecchie e nuove povertà. Questo avviene anche per le carenze del welfare e per l’insufficienza di una spesa pubblica per quanto riguarda sia gli investimenti che i consumi. In sintesi, il settore privato, con l’impulso positivo di alcune misure – penso soprattutto al credito di imposta per investimenti e ai contratti di sviluppo, mentre la decontribuzione, a un’analisi costi-benefici, non sembra reggere –, mostra segnali di “resilienza” (per usare una parola di moda). Manca invece il contributo del settore pubblico alla ripresa, e questo la rende debole e precaria. Se guardiamo al quadro complessivo e di medio periodo, lo scenario diventa ancora più preoccupante. Le nostre previsioni, in assenza di un quadro di politica economica di riferimento, si fanno pessimiste: si apre una “stagione dell’incertezza” in cui il Sud, senza politiche adeguate, rischia una “grande frenata”. I fattori di incertezza sono legati agli eventi internazionali, ai rischi connessi a chiusure protezionistiche ed altri elementi di instabilità, ma anche a un quadro nazionale, segnato dalle possibili ricadute negative, anche dal punto di vista territoriale, di misure come la flat tax. Più autonomia e meno redistribuzione, è questa la prospettiva? In questo caso occorre sapere che se perde il Sud frena l’Italia. Si parla di dipendenza viziosa, ma gli elementi di interdipendenza sono fortissimi, e il Nord non può fare a meno del Sud. L’incomprensione di questo concetto fondamentale è alla base delle scelte europee che hanno portato alle politiche di austerità. A questa nefasta linea di politica economica si affianca ora, nell’ambito delle politiche migratorie e di sicurezza, l’impostazione incarnata dal volto feroce dell’Europa di Visegrad, che lascia la sua frontiera meridionale alla deriva in un Mediterraneo che sarebbe invece la nostra grande opportunità strategica. Potrebbe essere il nostro destino, mentre oggi è solo la nostra condanna.
Alcuni dei mutamenti che viviamo sono stati definiti con il termine “quarta rivoluzione industriale”, che sembra però riguardare il Sud in misura marginale, come mostrano anche i dati relativi all’accesso alle agevolazioni su superammortamento e iperammortamento previste dal MISE su iniziativa dell’ex ministro Calenda. Queste forme di incentivazione, che pure hanno sortito risultati per molti aspetti positivi, rischiano di accentuare i divari della nostra società?
Peppe Provenzano: Con il Piano “Industria 4.0” l’Italia ha provato a recuperare il tempo perduto, ma occorre prestare attenzione a non cadere vittime dell’entusiasmo dei neofiti. Questo piano da solo non basta. E rischia, se non accompagnato da politiche generali che mirino a infittire la matrice produttiva e a un miglioramento complessivo dei processi produttivi attraverso tecnologie e conoscenze, di allargare ulteriormente il “dualismo” interno al sistema delle imprese. Nell’ambito del nostro sistema produttivo esiste infatti da parte una quota – sempre più piccola – di medie imprese che fanno registrare importanti performance sui mercati e dall’altra la maggioranza delle aziende che sopravvive grazie a strategie “difensive”, di svalutazione del lavoro, di ricorso al evasione fiscale e al lavoro nero o ad altre forme di competizione al ribasso. Il caso del Mezzogiorno, da questo punto di vista, è emblematico. A causa dei deficit strutturali, da un lato, del sistema produttivo – ridotte dimensioni dell’impresa, settori tradizionali di specializzazione, basso contenuto di conoscenza, ecc. – e, del sistema della ricerca dall’altro – università pubbliche impoverite, poche e piccole realtà di eccellenza fortemente localizzate –, la SVIMEZ ha stimato che al Sud “Industria 4.0” avrebbe un impatto complessivo sulla produzione e sulla produttività minore rispetto al resto del Paese. Non per questo si tratta di una sfida che vada trascurata: il Sud non può e non deve essere tagliato fuori da questi processi; del resto, la singola impresa che beneficia degli strumenti del piano, sempre secondo lo studio citato, al Sud avrebbe un vantaggio maggiore in termini di investimenti incrementali. Il punto però è che la risoluzione dei problemi strutturali richiede ben altri strumenti: diversi sono in campo, dai Contratti di sviluppo alle Zone Economiche Speciali, ma manca una strategia specifica per la crescita dimensionale delle imprese, che produrrebbe miglioramenti sulla governance delle aziende e sulla capacità di accedere a strumenti di politica industriale nazionale. Manca soprattutto la capacità di colmare la grande lacuna della nostra politica industriale, ovvero la scarsa capacità di realizzare efficacemente e capillarmente processi di trasferimento tecnologico, necessari per affrontare davvero il problema di fondo della nostra economia: il declino della produttività, certo non dovuto al costo del lavoro, ma alla quantità e qualità della tecnologia e dell’innovazione delle nostre produzioni.
Pensi che alcuni dei fenomeni che abbiamo delineato potrebbero trovare soluzione grazie a un rinnovato protagonismo dello Stato? Pensi che la fase attuale della globalizzazione richieda qualcosa del genere? E se sì in che forme? Cosa significa oggi fare politica industriale, termine che, dopo un lungo periodo nel quale il termine era diventato pressoché impronunciabile, conosce oggi una nuova fortuna in seguito ad un rinnovato dibattito intellettuale?
Peppe Provenzano: Non ho dubbi che serva proprio questo, del resto, mentre veniva predicata l’ideologia della fine dello Stato in tutto il mondo emergevano e si affermavano Paesi che intorno allo Stato costruivano la loro forza produttiva. Forse uno dei problemi maggiori che riscontriamo è legato all’esigenza di statualità, ad ogni livello: da Bruxelles a Roma e fino ai livelli periferici dove oggi si registra, di fatto, uno smantellamento dello Stato. Io credo che proprio il Sud, dopo la stagione fredda e arida dell’austerità, sia il luogo dove provare a costruire uno Stato intelligente e strategico per creare sviluppo e orientare il mercato, indirizzando l’innovazione nel segno della sostenibilità sociale e ambientale. Servirebbe per questo un nuovo IRI della conoscenza e occorrerebbe, in generale, riaprire a mezzo milione di giovani qualificati le porte di quella che ad oggi è la Pubblica Amministrazione più ridimensionata, vecchia e povera di competenze d’Europa. Questo è il grande investimento di cui avrebbe bisogno l’Italia, non solo per rispondere alle esigenze di un rilancio produttivo, ma anche per ricostruire uno Stato sociale che possa assicurare ai cittadini i fondamenti essenziali del benessere. La battaglia contro l’austerità in Europa, dunque, dovrebbe essere finalizzata, in via assolutamente prioritaria, al perseguimento dell’obiettivo di un rilancio degli investimenti pubblici, che, specie al Sud, sono una leva necessaria e indispensabile di attivazione di quelli privati e, senza scomodare i moltiplicatori dei modelli econometrici, sono in grado di generare reddito e occupazione in misura notevole, ben superiore a quella conseguente ad esempio ad una generalizzata riduzione delle tasse. Non si tratta di scavare la buca e riempirla per dare lavoro, secondo la banale volgarizzazione che viene spesso proposta rispetto ad una tradizione economica che ha fatto grande il nostro Paese nella golden age. Si tratta di fare esattamente quello di cui l’Italia e il Mezzogiorno hanno bisogno: rendere il Sud non solo attraente – come già è – ma anche attrattivo, di risorse umane e capitali, in una nuova dimensione geopolitica, che guardi al Mediterraneo non limitandosi a subire i contraccolpi delle crisi, ma provando a coglierne i vantaggi.