Recensione a: Matteo Vegetti, L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria, Einaudi, Torino 2017, pp. 226, 22 euro (scheda libro)
Scritto da Paolo Missiroli
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Chi parla della globalizzazione, di cosa parla, davvero? Capita spesso di riflettere su di essa in termini puramente economici (trasversalità delle filiere produttive e del processo finanziario) o geopolitici (rapporti tra gli stati internazionalizzati), senza tenere in considerazione altri elementi fondamentali. Uno di questi è senza dubbio la dimensione del globo nel suo offrirsi allo sguardo degli attori politico-storici che si affacciano sul mondo oggi.
Cosa si intende quindi? Che questo globo, nella sua spazialità orizzontale, nel suo essere così facilmente percorribile, non è un dato naturale ed astorico. Siamo i primi umani, in effetti, a pensare al mondo, cioè all’insieme del nostro orizzonte di vita e di azione, come ad un globo, cioè come ad uno spazio del tutto unificato, percorribile in maniera relativamente semplice, sostanzialmente omogeneo nelle sue strutture di fondo. Siamo i primi, inoltre, a pensare di avere sotto lo sguardo (si pensi alla famosa fotografia della “Biglia Blu” che ritrae il nostro pianeta) tutto quello su cui possiamo agire, qui, sulla Terra.
Ma come è nato questo mondo unico? Quando è accaduto che abbiamo cominciato a pensare al globo? Che tipo di globo è il nostro, e che tipo di rapporti di potere si stabiliscono al suo interno? A queste domande il libro di Matteo Vegetti prova a dare risposta. Si tratta di un tema filosoficamente fondamentale.
Sul globo hanno riflettuto, negli ultimi tempi, Bruno Latour, Peter Sloterdijk e Dipesh Chakrabarty, nonché tutta una serie di storici che si sono occupati, anche, di farne una genealogia (uno su tutti Sebastian Vincent Grevshmuhl con il suo La terre vue d’en haut, a cui faremo ancora riferimento). Ognuno con prospettive diverse, tutti quanti hanno provato a chiedersi cosa significasse vivere in un globo, come questo fosse nato, ed anche come (e se fosse possibile) uscirne.
Il testo di Vegetti, pur tenendo a riferimento e discutendo con questi lavori, ha un grande merito teorico che ne marchia l’originalità ed anche l’utilità: è calato profondamente all’interno di un contesto di teorie politiche classiche (Schmitt, Hobbes, Marx per non citare che alcuni punti di riferimento tra i tanti), di storia delle teorie geopolitiche, di studi geografici ed in generale di storia contemporanea che, per così dire, politicizza un testo (nel senso che lo rende da un punto di vista politico filosoficamente importante). L’idea di fondo è la seguente: la globalizzazione è un effetto visivo/rappresentativo. Si tratta sempre di poter vedere un globo per poter agire al suo interno.
Il testo si divide in quattro capitoli, che procedono in qualche modo cronologicamente. Il primo sui rapporti tra terra, mare ed aria nella prima e seconda modernità, il secondo sull’unificazione del mondo durante la guerra fredda, il terzo sulla planetarizzazione del mondo, il quarto sugli ultimissimi processi globali, i flussi e la dimensione più strettamente economico-politica della globalizzazione.
Vengono affrontate le tre cosiddette “rivoluzioni spaziali”, momenti di transizione della concezione e dell’utilizzo dello spazio, che hanno caratterizzato la modernità: utilizzando gli strumenti che Carl Schmitt mette a disposizione sopratutto in Terra e mare ma anche in altri testi, Vegetti mostra come, se nella prima rivoluzione spaziale l’Inghilterra abbia acquisito potenza in forza del suo essere un Leviatano, un mostro marino che sfugge alla gabbia di Westfalia ed a tutti i suoi limiti, nel Novecento avviene una translatio imperii tra Regno Unito e USA, in forza anche di una rivoluzione tecnologica (quella che mette sul piano del mondo una terza dimensione, quella dello spazio, grazie allo sviluppo dell’aereonautica e della comunicazione radio), ma sopratutto della capacità degli USA di interpretare questo nuovo spazio dell’aria, ricalibrando la propria potenza su una scala differente, del tutto al di là della mera alternativa mare-terra.
Questa rivoluzione spaziale (che agisce sotto il segno di Ziz, il mostro alato della Bibbia, come il Leviatano era il segno della rivoluzione del mare, contro Behemot, il mostro della terra), segna uno spartiacque radicale nella storia della modernità. Essa è in primo luogo condizione e strumento del dominio imperiale degli Usa (ma di un impero nuovo, che non ha nulla a che vedere con i vecchi imperi del mare e della terra – Impero Inglese e il Terzo Reich tedesco); in secondo luogo questa rivoluzione spaziale si realizza nella produzione di un mondo unito, One World, che viene mostrato nella sua intrinseca politicità da Vegetti, secondo la lezione di Schmitt.
Infatti, come già il giurista tedesco ricordava, non c’è unificazione del mondo che non sia il portato di una specifica volontà politica. Da questo punto di vista, un mondo unito non è mai unito nel nome dell’umanità o della pace, quanto della volontà di comando di un particolare attore. La pace non è altro che il proseguimento della politica con altri mezzi.
Come avviene questa unificazione nell’era dell’aria? Oltre ai processi economici, e forse addirittura prima, innanzitutto nello sguardo che i moderni hanno sul mondo. Vegetti descrive minuziosamente le visioni geopolitiche caratteristiche degli anni Cinquanta (che si costituiscono su alternative tra terra e mare forti, ma nella consapevolezza di un mondo finalmente unito, un mondo in cui, ad esempio, il continente americano non è più concepibile come separato, come secondo emisfero) finanche mostrando la struttura dello sguardo imperiale degli USA attraverso i nuovi mappamondi, le nuove carte del mondo: mondi decentrati, non più posti nella piattezza di una carta piana, ma circolare, con al centro il polo ed intorno tutti i continenti, collegati dalla fine delle barriere fisiche rappresentate dal mare e dalla terra.
Una nuova logica dell’aria si instaura: dopo il globo di Mercatore (in cui il continente americano è radicalmente separato dal resto del mondo), fondatore della logica isolazionista che ancora oggi serpeggia nel cuore degli USA, il globo di Harrison. Non a caso Roosevelt, prendendo la parola dopo Pearl Harbor, disse prima di tutto ai cittadini americani: “Fornitevi di una cartina del mondo.” Egli avrebbe dovuto aggiungere: “Cambiate il modo in cui la guardare, ritagliatela e riposizionatela. E’ tempo di collocare gli Usa a fianco del resto del mondo.”
Su questa capacità di interpretare e di modificare il mondo con e grazie alla rivoluzione spaziale dell’aria, gli USA hanno acquisito potenza ed hanno potuto instaurare il loro impero.
Impero che è stato anche possibile grazie ad una vera e propria planetarizzazione di questo globo, visto come un tutto unificato dallo spazio secondo le regole omogenee di un pianeta. Sono i viaggi dello spazio che consentono per la prima volta di parlare di un’umanità del tutto unita in un pianeta “astronave madre”, di parlare di patrimoni dell’umanità. Eppure, la separazione dal mondo non è scevra da problemi e da paure: Vegetti mostra come esista una vera e propria discussione filosofica riguardo alla separazione dell’uomo dalla terra mediante sia la sua planetarizzazione (un globo unito e unificato) sia al distacco fisico dell’uomo dal mondo (con lo sbarco sulla Luna).
I punti di riferimento sono Heidegger da un lato e Levinas dall’altro. Se uno sostiene che siamo infine del tutto distaccati dal nostro mondo, che abbiamo dunque perso il mondo, quel mondo che Heidegger sin da Essere e tempo aveva posto al centro della sua opera, Levinas parla invece di una fuga dalle nostre identità ristrette verso un mondo unito, al di là del mondo stesso. Visioni e giudizi opposti, che però si fondano su un medesimo fatto: non siamo più (solo) sulla Terra. Anche Maurice Blanchot, nella sua valorizzazione dell’erranza dal mondo, parla in fondo della stessa cosa.
Impero che oggi è costretto a far fronte (non senza difficoltà) ad una terza rivoluzione spaziale, che si manifesta secondo Vegetti sostanzialmente come un approfondimento delle dinamiche di deterritorializzazione della seconda. Nella globalizzazione contemporanea, la rivoluzione tecnologica porta ad un annullamento delle distanze che ricalibra ancora una volta lo spazio (questa ricalibrazione è ancora in divenire, per Vegetti, e non è scevra da problematiche e crisi, come gli ultimi fenomeni come Trump e Brexit ci mostrano).
La nuova economia che si calibra sui flussi e su confini generalmente deboli diviene così padrona del globo, divorando e digerendo persino, quel Leviatano che le diventa schiavo e servo (come Dardot e Laval ci hanno insegnato), quel mostro assolutamente potente che avrebbe dovuto, o almeno questo era il sogno di alcuni moderni, essere sovrano sulla terra. Il grido di Hobbes suona così ridicolo alla lettura di Schmitt: “Non est potestas super terram quae comparetur ei”): proprio quella terra non vale più, non è più lì il potere effettivo, la realtà dello spazio. Una nuova economia politica dello spazio si impone, e l’economico domina sul politico proprio perché l’economico riesce a stare dentro questi flussi, l’economico è questi flussi. Il capitalismo ha sempre sognato il superamento di tutti i confini e la riduzione dello spazio ad un nulla: Marx è un importante punto di riferimento di Vegetti. Questo capitalismo si avvicina sempre di più alla sua verità, nella possibilità di essere non solo dappertutto, ma anche di potere andare ovunque in un tempo praticamente nullo.
Questa visione del capitalismo ed in generale dello statuto del confine e della dipendenza dalla materialità, per quanto contenga una buona parte di verità (sopratutto per quanto riguarda la tendenza del capitale al superamento dei confini), può essere problematizzata.
In primo luogo è abbastanza noto come in realtà il capitalismo abbia sempre avuto, ed ha anche oggi, una forte dipendenza da una dimensione profondamente materiale (si vedano le opere di Andreas Malm o il classico La grande divergenza di Kenneth Pomeranz), tanto è vero che anche oggi la crisi ecologica è crisi del capitalismo (su questo punto sono imprescindibili gli studi di J. Moore), che certamente entra in relazione con questo limite, tenta di superarlo ed in certi casi riesce anche a valorizzarsi a partire da questa crisi, ma il modello di relazioni qui è quello più del gioco tra due elementi in realtà non eterogenei (il capitalismo non è altro dalla natura, ma ne sta all’interno), che di un superamento dell’alterità. Questo, in tempi di crisi energetica ed ambientale, vale ancora oggi: il capitalismo può superare lo spazio solo relativamente.
Quando Vegetti dice che il capitale “si sottrae al tempo ed allo spazio” forse, all’interno di un contesto teorico estremamente fecondo, come ho provato a mostrare, crede troppo a quello che il capitalismo racconta di sé stesso (per dirla con Spinoza, di essere “un impero in un impero”, quello della natura, in cui in realtà è immerso già da sempre). Questo Marx lo aveva molto chiaro: non ci può essere un capitalismo che non stia nel mondo, che non lo sfrutti e che, questo lo abbiamo più chiaro noi, non lo metta sempre a rischio, ne distrugga la vita pulsante, ne configuri in modi nuovi le dinamiche, e ne sia dipendente, come si dipende da una materialità data come unico orizzonte. Anche i confini, in realtà, sono ancora ben presenti ed agenti. La loro porosità è semplicemente funzionale a tutta una serie di movimenti e processi economici (come spiegano bene Mezzadra e Neilson).
Collegandomi a questo ultimo punto e concludendo, una riflessione sulla questione del globo.
C’è un’altra cosa da dire sul globo, che è poi quello che emerge dalla lettura di Latour, di Sloterdijck e di chi se n’è occupato pensando al mondo, cioè tenendo presente la crisi ecologica. Come abbiamo mostrato parlando del testo imprescindibile di Farinelli caratteristica della modernità è il governo dello spazio, e condizione del governo dello spazio è la cartografia di questo spazio. Bisogna rendere il territorio una mappa per poterlo governare. Bisogna poterlo vedere. Diciamolo con Sloterdjick:
L’imperialismo è la planimetria applicata, l’arte di restituire le sfere su una superficie piana e i mondi in tabelle. Il signore definisce l’unità di misura. Sovrano è colui che decide dell’operazione di appiattimento. Si può conquistare solo ciò che si può ridurre con successo ad una dimensione.
Con la globalizzazione accade la stessa cosa. Può esserci sogno di governo del mondo, governo cibernetico, governo politico, solo se il mondo non è più un orizzonte infinito popolato da moltitudini di viventi, ma se diventa una enorme rete, sottomissibile ad uno sguardo. Sebastian Vincent Grevshmuhl l’ha mostrato molto bene: i sogni di dominio geo-ingegneristico del mondo nascono solo quando questo diventa, come direbbe Vegetti, pianeta. Un pianeta che è un globo visibile e percorribile.
Da questo punto di vista, bisogna dire che la globalizzazione per come si è svolta finora è il compimento di una delle tendenze più profonde della modernità: considerare lo spazio come un dato da governare, il mondo come una risorsa da sfruttare, la natura come la pattumiera dello Spirito. Da questo punto di vista, ci ricorda Vegetti, chiarendoci quindi che non è attraverso una feticizzazione del limite che si giungerà ad una nuova coscienza ecologica, giacché anche il globo di questi moderni è limitato, ed anzi è lo spazio del governo proprio perché è limitato, quello che importa è forse piuttosto in un certo senso infinitizzare la natura, o meglio, moltiplicarla, renderla non più una carta ma nemmeno una rete astratta, renderla un insieme di uomo nel mondo, di viventi e non viventi autocollocantesi in un’orizzonte (e non in una foto, non in una biglia blu), che è la sola condizione di vita e di azione. Contro il Globo, dice Latour, bisogna sempre parlare di Gaia.
Contro i signori della geo-ingegneria e dell’ecologia dei ricchi (quella dei grandi parchi e dello sfruttamento delle risorse del Terzo Mondo), bisogna sapere di vivere in un mondo che crolla proprio perché è Globo, perché è considerato “spazio di sfruttamento”. Sono le connessioni tra abitare e territorio, tra uomini e mondo (Spinoza ci ha insegnato che non c’è davvero differenza), che contano.
Questo libro è davvero importante perché è una riflessione filosofica (non se ne vedono molte) sulla globalizzazione e sulla sua origine, e perché parla di noi. Parla del modo in cui guardiamo al mondo, e quindi della globalizzazione; della crisi ecologica, perché vivere in un globo non è la stessa cosa che stare in un orizzonte. Possiamo, e questo era il senso delle nostre considerazioni finali, aggiungere solo una cosa ad un testo così decisivo: non bisogna credere troppo a quello che i moderni dicono di sé stessi, come ci ha insegnato Bruno Latour. Anche Heidegger e Levinas, apparentemente così lontani, fanno lo stesso errore: pensano che davvero l’uomo non abbia più bisogno della Terra e del mondo in cui vive.
Heidegger è forse il più noto tra questi grandi pensatori che è caduto nella trappola. Egli ha creduto davvero ai racconti di gloria dei moderni, che, prima, all’alba del loro tempo, nell’Ottocento, gridavano felici: “Stiamo andando al di là del mondo!” E poi, piangendo con lui, ma rimanendo sempre moderni (giacché essere moderni significa, nel senso in cui lo dico qui ora, credere di non essere nel mondo), “Ormai siamo così lontani dal mondo…”. In realtà noi, e possiamo dirlo con così tanta forza oggi, all’inizio dell’Antropocene, abbiamo potuto alterare il nostro ambiente, ma nel farlo ci rendiamo conto di quanto ne dipendiamo. Noi siamo nel mondo fino al collo, e non potremo staccarcene prima che questo, accettando il nostro agire geologico-politico, si trasformi togliendoci, per così dire, la terra da sotto i piedi.
Che fare, quindi, secondo Vegetti? Cominciamo col dire che non è scopo del libro rispondere a questa domanda. Unendo le sue riflessioni anche a partire da Marx e sul globo e la coscienza ecologica (di cui abbiamo discusso anche in questa sede), possiamo dire due cose: in primo luogo, lo sguardo al mondo come globo è lo sguardo di chi ha voluto sfruttare questo globo, causando la crisi ecologica; contro il globo, bisogna ricordarsi della Terra. Contro la semplificazione in un tutto che si coglie con uno sguardo dall’alto, il mondo come orizzonte.
In secondo luogo, bisogna ricordarsi che la globalizzazione è un processo politico non uniforme e nemmeno univoco; non necessariamente bisogna volerla distruggere per risolvere i molti problemi che essa pone. Più concretamente, ci ha insegnato Marx e ci ricorda Vegetti, bisogna portarsi al suo livello, provando a riarticolare i rapporti tra globale e locale, tra territorio e spazio, tra filiere produttive e Stati. Marx ha sempre posto come primo degli obbiettivi la necessità di trattare col capitale sullo stesso spazio, sempre più mondiale anche ai suoi tempi. Anche alla luce della crisi ecologica, il grido di battaglia del Manifesto del ’48 assume davvero un significato nuovo: “Workers of all lands, unite…”