Recensione a: Nadia Urbinati, Io, il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia, il Mulino, Bologna 2020, pp. 352, 12 euro (scheda libro)
Scritto da Alice Fill
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«Non è azzardato pensare che il populismo sia l’orizzonte della democrazia contemporanea» (p.9) scrive Nadia Urbinati nella Prefazione di una delle sue ultime opere, un testo imprescindibile per comprendere la politica odierna e già tradotto in numerose lingue. Io, il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia, uscito nell’edizione italiana per il Mulino, propone una disamina della rinascita populista nella democrazia costituzionale che si traduce in una necessaria analisi delle interpretazioni della democrazia stessa.
L’intenzione dell’autrice, Professoressa ordinaria di Teoria politica alla Columbia University di New York, è dismettere lo sterile atteggiamento polemico che aleggia nel dibattito sul populismo e chiedersi piuttosto che cosa faccia il populismo una volta conquistato il potere, come sfiguri la democrazia rappresentativa trasformandone le istituzioni e le procedure. Con diffidenza sia verso le promesse palingenetiche che verso le profezie apocalittiche sul populismo, Io, il popolo prende sul serio i proclami populisti, entrandone analiticamente nel merito. Studiando il populismo come forza di governo, Urbinati porta a compimento il lavoro iniziato con Democrazia sfigurata. Il popolo fra opinione e verità, che indaga invece le peculiarità del populismo come movimento popolare. L’ambizione del libro, senza cadere in una rischiosa hybris definitoria, è di considerare il populismo come un processo politico inteso a conquistare il governo, muovendo dal presupposto che si tratti di un fenomeno democratico, specchio della democrazia in cui agisce.
Questo testo si propone di dare linfa al dibattito delle scienze sociali, politiche ed economiche per mettere a fuoco – attraverso un’autocritica pungente e costruttiva – le debolezze della democrazia costituzionale rispetto alle quali la risposta liberale ha generato uno scetticismo diffuso e da cui il populismo trae la propria forza. Tale corto circuito ha a che fare con il declino della società Stato-centrica, con la crisi delle organizzazioni intermedie e soprattutto con la crescente ostilità verso il pluralismo e il sistema dei partiti, specie quelli socialdemocratici o di sinistra che hanno presidiato prevalentemente lo spazio delle istituzioni a discapito del confronto nella sfera pubblica. L’effetto, mostra Urbinati, è quello di una camera oscura, in cui tutti gli elementi appaiono invertiti: la società è resa individualista mentre la politica indulge al gossip e persegue l’approvazione spettacolare del pubblico, in una pleonexia della popolarità. Nelle crepe delle promesse non mantenute dalle democrazie costituzionali e nelle crescenti disuguaglianze socioeconomiche trova terreno fertile il populismo, che si appropria del mito della democrazia consensuale priva delle partigianerie partitiche e si scaglia contro l’ipocrisia della pratica politica e la doppiezza del politicamente corretto. Tuttavia, se il populismo è il sintomo di un disagio sociale giustificato, secondo Urbinati esso non può esserne la soluzione, sia per la sua natura instabile – a metà strada tra fascismo e democrazia, in bilico tra provocare un cambio di regime e tracimare in una maggioranza come tutte le altre – sia per gli effetti che produce quando è al governo, tendendo pericolosamente l’arco della democrazia costituzionale verso una visione faziosa e proprietaria di diritti e istituzioni.
Democrazia e populismo condividono un destino comune, vivono e muoiono insieme, sebbene il populismo segni «l’estremo limite della democrazia costituzionale, oltre il quale i regimi dittatoriali sono pronti a emergere» (p.35). Tra esso e il fascismo – per dirla con Wittgenstein – vi sono infatti delle “somiglianze di famiglia” che spingono la partitofobia populista verso un’aspirazione olistica del consenso, votata a neutralizzare il pluralismo partitico senza però sopprimerlo. Il fascismo – antidemocratico de jure – distrugge la democrazia, mentre il populismo la trasforma. E lo fa alterando i tre pilastri portanti della democrazia contemporanea, che Urbinati individua nella definizione di popolo, nel principio di maggioranza e nella rappresentanza.
I capitoli del libro si articolano lungo l’analisi di tali punti cardine attraverso uno studio teorico approfondito e ricco di contrappunti storici. Alla base, vi è la teoria diarchica della democrazia come sistema misto di decisione ed opinione, in cui la distanza tra sovranità e governo è regolata attraverso il consenso verso il sistema legale-giuridico e verso le diverse maggioranze che governano. È proprio questa distanza che rende insofferente il populismo e che esso, una volta al governo, cerca di colmare con l’argomento della battaglia dei molti contro i pochi, radicalizzando la polarizzazione sociale per inasprire l’intolleranza verso la mediazione politica, l’indipendenza delle istituzioni e la limitazione dei poteri. Urbinati mette innanzitutto in guardia sul fatto che la strategia del populismo al potere non è né benigna né neutrale, poiché le trasformazioni sostanziali e procedurali che impone alla democrazia tendono a sfuggire oltre il controllo dei cittadini.
Tra queste trasformazioni, la più evidente – che costituisce lo “spirito” stesso del populismo – è la logica anti-establishment, attraverso la quale viene ridefinito in senso fortemente esclusivo il concetto di popolo. Da un lato, dunque, la casta illegittimamente sovrana, dall’altro il popolo legittimo, esautorato del potere; da un lato, si schierano gli impuri nemici del popolo, dall’altro la brava gente, in un dualismo lacerante che si articola in un’ambiguità di fondo tra il tutto e le sue parti. Il populismo al potere rivendica infatti di governare come se la volontà della maggioranza fosse la volontà del popolo sovrano nel suo insieme: poiché la parte che vince è la parte giusta, il consenso si trasforma in un’istanza assolutistica contraria alla leadership plurale e frammentata propria della democrazia. Non vi è però nulla della volontà generale à la Rousseau, piuttosto una «merelatria» (p.68) – la glorificazione di una parte – che viola sistematicamente la sineddoche della democrazia rappresentativa a favore del relativismo radicale e militante della pars pro parte.
L’élite contro cui si scaglia il populismo non è quella economica – non si spiegherebbero altrimenti l’elezione di Donald Trump o di Silvio Berlusconi – ma quella politica, corrotta dal potere e colpevole di sfruttarne le opportunità. Il leader populista deve dunque essere un outsider della politica: anche se milionario, deve ostentare un approccio antintellettualistico, condividere le qualità morali autentiche della gente comune, cercare scappatoie per non pagare le tasse o dilettarsi in discorsi da spogliatoio. Da questo punto di vista, sostiene Urbinati, Trump è il role model perfetto. La critica all’establishment di cui il populismo si serve non è tuttavia un suo monopolio, è anzi endogena alla democrazia e ai meccanismi di controdemocrazia – come li ha definiti Pierre Rosanvallon – in quanto si esplica in pratiche di monitoraggio e contestazione fondamentali tanto quanto le istituzioni: il dualismo è tra opinione e deliberazione, non tra i molti e i pochi.
Dalla critica all’establishment, il populismo scivola verso la critica alla democrazia rappresentativa, attraverso la sostituzione di una politica dei partiti con una politica delle fazioni, «passando per la rampogna antipolitica» (p.85). Una volta al potere, il populismo deve impegnarsi in una campagna elettorale permanente perché non si sospetti che egli stesso è diventato establishment e, paradossalmente, quando si trova a fare i conti con il lato pragmatico del lavoro democratico – il versante del compromesso e della mediazione – non può che farlo sottobanco. Le elezioni divengono dei rituali plebiscitari: per non essere repressivo, il populismo ha bisogno di essere debordante, di occupare in modo ossessivo lo spazio pubblico fino a soffocare ogni altro discorso. Al contempo, cerca di accentuare il proprio potere decisionale attraverso riforme volte a “costituzionalizzare” la maggioranza populista per renderla permanente, portando al collasso la distinzione tra legislazione ordinaria e costituzionale. Grazie a questa analisi di Urbinati, si spiegano ad esempio le misure intraprese dal governo ungherese e che hanno portato il populismo a sbilanciarsi oltre i margini della democrazia con il rischio di cadere, come si è visto negli ultimi mesi, nell’autoritarismo.
Il popolo, di cui la maggioranza è diretta espressione, diventa l’incarnazione tangibile e definitiva della sovranità, smette di essere una fictio iuris e perde la polisemia inclusiva che caratterizza le democrazie costituzionali per diventare l’unico popolo giusto, quello vero. «Ciò segna lo strazio che i populisti fanno […] dell’imparzialità della legge e dell’inclusione di tutti i cittadini nella legge» (p.32): il vero popolo è il nostro popolo, lo stesso a cui si appellano leader come Matteo Salvini e Viktor Orbán quando, etnicizzandone e sostanzializzandone il significato, rendono i nostri diritti dei privilegi esclusivi. In una concezione organica del popolo, coloro che se ne trovano ai margini vengono programmaticamente ignorati, quando non divengono oggetto di repressione.
Nadia Urbinati propone un’illuminante storia concettuale della nozione di popolo, dal demos di Atene e dal populus di Roma, passando per l’Assemblea nazionale della Rivoluzione francese e giungendo al pubblico indistinto e disintermediato della democrazia dell’audience dei nostri giorni. L’audience – nella sua relazione diretta ed immediata con il leader – sfigura il secondo pilastro della democrazia, il principio di maggioranza, che viene interpretato dal populismo come il potere e la forza di chi è al governo. Gli effetti sia sullo stile dell’attività politica che sul processo di formazione dell’opinione sono costantemente davanti ai nostri occhi, in particolare sulla rete. Tuttavia, lo strumento essenziale attraverso cui il populismo trasforma la democrazia è quella che Urbinati definisce la «rappresentanza diretta», la “natura” stessa del populismo. Dalla logica anti-establishment non deriva infatti l’aspirazione ad una democrazia diretta – il populismo presuppone la rappresentanza per poter sostituire la classe politica sbagliata con quella giusta – quanto una definizione della rappresentanza come incarnazione del popolo nel leader, una sorta di fede religiosa verso un capo provvidenziale ed una identificazione irrazionale con esso che mettono a repentaglio la rappresentanza come mandato elettorale, rendendo impossibili i meccanismi di accountability. «Non sono io Chávez, tu sei Chávez, noi siamo Chávez», per citare l’ex Presidente venezuelano di cui Urbinati tratta in più passi del libro: se l’audience governa per l’audience, il leader diviene un «profeta ventriloquo», irresponsabile delle proprie scelte politiche in quanto mero strumento nelle mani del popolo.
In Io, il popolo, Urbinati propone un’acuta analisi di quello che definisce il congiuntarismo populista, scendendo nei meandri di una strategia di governo per cui «la tattica è tutto, il fine è nulla» (p.215). A questo scopo, spunti stimolanti giungono dalla fase della fondazione di Podemos e del Movimento 5 Stelle, entrambi nati all’insegna di un orizzontalismo spesso rizomatico e risolti in un iper-leaderismo innescato da dispositivi online di consultazione permanente. Inserendosi nel dibattito sulla “democrazia della rete”, Urbinati riconosce ad internet la capacità di facilitare le strategie dei movimenti post-partici che indirizzano il dibattito politico verso l’opinione piuttosto che la discussione, con mezzi adatti a conquistare piuttosto che a convincere. Non si tratta però di una peculiarità populista, ciò che resta centrale – anche quando i like diventano la norma di valutazione del consenso – è l’analisi del rapporto specifico che il leader populista instaura con l’audience e con le istituzioni democratiche. Ed il populismo – sia esso tradizionale o digitale, di destra o di sinistra – tende a tradursi una sorta di «emendamento monarchico alla democrazia rappresentativa» (p.300).
La via d’uscita dal populismo, sostiene Nadia Urbinati, non può che essere la ricostruzione dei partiti come baluardo del pluralismo, un processo che deve partire dalla capacità di dare un nome alle trasformazioni a cui la democrazia si trova a far fronte: una sfida a cui questo testo fornisce un rilevante contributo. L’insegnamento con cui si conclude il libro – e che sarà importante fare nostro nell’affrontare le sfide che si prospettano nella congiuntura storico-politica della ripresa dalla pandemia di Covid-19 – è un monito a ricordare che le democrazie sono costruzioni storiche e che i diritti non sono mai una conquista definitiva. Il populismo, nella democrazia contemporanea, è la prova che la regressione verso un’idea di società più chiusa non è mai scongiurata.
Rimandiamo inoltre a questa intervista a cura di Alice Fill in cui Nadia Urbinati affronta i temi trattati in Io, il popolo sullo sfondo della situazione creata dallo scoppio della pandemia del Coronavirus.