Scritto da Giacomo Centanaro
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L’intervista a Luciano Segreto tratta le difficoltà storiche e strutturali dell’economia italiana nell’affrontare i salti tecnologici e le sfide poste da un contesto internazionale che sembra essere più incline ad abbracciare le innovazioni. Dove risiedono le cause dell’inadeguatezza italiana?
Luciano Segreto è Professore ordinario di Storia economica, tiene numerosi corsi dedicati alla storia d’impresa e alla storia economica internazionale presso l’Università di Firenze, insegnando anche Sistemi di Corporate Governance e Storia dell’impresa italiana presso l’Università Bocconi, oltre a offrire corsi e seminari in diverse università europee e cinesi. Tra i temi analizzati nelle sue numerose ricerche vi sono lo studio del modello di sviluppo economico italiano (con analisi delle figure imprenditoriali, enti statali e specifici settori industriali) e le relazioni economiche internazionali. Nel 2018 ha pubblicato per il Mulino L’economia mondiale dopo la guerra fredda.
Iniziamo prendendo come spunto di riflessione quello che da alcuni è considerato un vero e proprio “peccato capitale” dell’economia italiana del secondo dopoguerra. Nel 1964, durante un’assemblea degli azionisti Fiat in cui si discuteva della natura della partecipazione nella gestione della Olivetti – che aveva vissuto gravi difficoltà finanziarie – il presidente Vittorio Valletta definì il tentativo di inserirsi nel settore elettronico come un “neo da estirpare”[1]. Quello elettronico era visto come un settore “per il quale occorrono investimenti che nessuna azienda italiana può affrontare”. Di fatto, attualmente in Italia si contano poche grandi imprese nei settori a elevata intensità tecnologica, che in tutti i paesi sviluppati sono motrici di avanzamento tecnologico. Moses Abramovitz, riflettendo sulla capacità di adottare e sfruttare le nuove tecnologie da parte dei paesi meno avanzati[2], sostiene come questa dipenda dalle “social capabilities”, essenzialmente condizioni strutturali della società e delle istituzioni di un paese. Tenendo a mente il precedente storico della rinuncia italiana alla corsa per l’elettronica (e le sue conseguenze) come esempio, secondo Lei l’Italia è attualmente dotata di un “sistema ricettivo” – privato e pubblico – adeguato ad accogliere e implementare innovazioni?
Luciano Segreto: Occorre giustamente partire da quella vicenda esemplare, ma per farlo è necessario sgombrare il campo da equivoci o da sottintesi che spesso sono accompagnati alla valutazione della storia del mancato take off elettronico italiano. Le parole di Valletta, che sembrano di una durezza che oggi quasi sgomenta – stroncare sul nascere ogni tentativo di imprenditoria nel campo dell’elettronica! –, possono portare ad additare presunti responsabili di un errore clamoroso per il nostro Paese. Penso che al di là della durezza della frase, soprattutto la seconda parte della citazione contenga una grandissima verità: per fare elettronica, negli anni Sessanta come oggi, e soprattutto per farla ai livelli di complessità richiesta occorrevano, e occorrono, risorse finanziarie e capabilities che vanno preparate nel tempo. È vero che la vicenda Olivetti è una delle tante occasioni perdute di questo Paese (e un saggio di Mario Pirani evidenzia bene questo fenomeno[3]), ma le “occasioni perdute” appartengono un po’ a una certa mitologia con cui si è a lungo guardato alla storia italiana.
“Potevamo esserci e non ci siamo stati, perché? Perché il sistema politico istituzionale non era pronto, la classe politica o economica non era adeguata”. Tutto questo è vero e allo stesso tempo non lo è. Il “non è vero” sta nel fatto che per essere pronti a certi livelli nel campo dell’elettronica occorreva avere accumulato una serie di capabilities, ossia capacità organizzative, scientifiche e finanziarie ottenibili solo con il tempo. Se noi guardiamo la storia dell’istruzione in Italia, vediamo che ogni qualvolta si è presentato un bivio, il Paese ha intrapreso sempre la via che si allontanava da un percorso scientifico, inteso con scelte che mettano al centro la formazione soprattutto scientifica e non letteraria. Questo si vede dall’importanza relativa che hanno avuto le scuole tecniche, i licei scientifici e poi i politecnici rispetto a quello che i nostri partner e concorrenti in Europa all’epoca – parlando dell’ultima parte dell’Ottocento – stavano svolgendo: in Germania con le Technische Hochschule, in Francia con gli istituti tecnici e politecnici e in Gran Bretagna la stessa cosa. Quindi, quando si pensa alle possibilità che l’Italia avrebbe potuto sfruttare, in realtà si fa un ragionamento che non è proporzionato alle capacità reali di sistema che il Paese poteva avere. Dove “sistema” vuol dire avere istituzioni tecnico-scientifiche, imprese e capitale umano di altissimo livello che collaborano tra loro. In Italia, invece, dal processo di industrializzazione in poi, si osservano solo alcune grandissime eccezioni di capitale umano. Se si ripercorre la storia dell’industrializzazione italiana a ritroso, si trova sempre qualche eccezione che era esattamente allo stesso livello degli altri paesi industriali. Questo vuol dire che ci sono sempre stati attori capaci di cogliere opportunità che in un determinato momento storico la tecnologia e l’informazione offrivano. Tutto questo, però, non ha “fatto sistema”, la capacità di “cogliere l’attimo” non è mai stata imitata dalle decine di altri potenziali “imitatori” economici, dei “followers” si potrebbe dire. È questo che fa la differenza. L’Italia si porta sulle spalle ancora oggi questa mancanza storica della capacità di “fare sistema”, che va costruita. Oggi come 150 anni fa l’Italia ha la capacità di cogliere le opportunità ma sembra che non lo sappia fare come sistema Paese.
Il problema di fondo è che le social capabilites si costruiscono in un processo storico: l’Italia si è giocata buona parte delle proprie possibilità nei decenni della Seconda rivoluzione industriale, quando si sono poste le basi per il XX secolo. In quel momento – compreso tra gli anni Sessanta dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale, in cui si formano le grandi università tecniche – il paese non ha saputo “accelerare”. C’è una frase famosa che l’intellettuale e archeologo tedesco Theodor Mommsen rivolse nel 1870 al Ministro del Tesoro Quintino Sella «Ma che cosa intendete fare a Roma? Questo ci inquieta tutti, a Roma non si sta senza avere dei propositi cosmopoliti», se si arriva a Roma bisogna avere un piano affinché questa conquista diventi una leva per raggiungere livelli ancora più elevati di consapevolezza. Come costruire il futuro tecnico e produttivo? Oppure accontentarsi di essere a Roma, e del suo splendore, antichità e cultura umanistica? Il dubbio di Mommsen è emblematico, uno storico che parla a un ingegnere – che però è un membro della classe dirigente, tra i più influenti in quel momento. Sella capisce che l’Italia è riuscita a cogliere l’opportunità, con sforzi immani, per unificarsi, ma la classe dirigente liberale dell’epoca è molto limitata nella visione su come doveva essere il Paese che stava nascendo. Un Paese povero che anche dal punto di vista della formazione sarà sempre fragile e che non saprà intraprendere sforzi di lungo periodo per costruire spazi dove poter sviluppare le capabilities, sia pubblici che privati, che devono essere pienamente integrati l’uno con l’altro. Anche in questo Germania e Gran Bretagna, nei decenni di fine Ottocento, superavano l’Italia.
Il sapere, si sa, è potere, ma affinché lo sia pienamente necessita di una efficace applicazione. A partire dagli anni Settanta si vede un disaccoppiamento della crescita tra le attività scientifiche e il rilascio di brevetti (che subisce un declino). Questo dato può essere letto come un segno della difficoltà nel trasferimento tecnologico dal sistema accademico e della ricerca alle imprese, soprattutto quelle medie, che spesso ritengono le attività di R&S come troppo costose e rischiose rispetto alle proprie capacità di spesa. Che tipo di provvedimenti potrebbero essere adottati per sopperire a queste evidenti difficoltà strutturali?
Luciano Segreto: Quella di Ricerca e Sviluppo (R&S) è una funzione di impresa che ha bisogno di dimensioni importanti: è la grande impresa a essere l’involucro naturale dentro a cui si fa R&S. La realtà imprenditoriale italiana non ha queste dimensioni, in ogni caso non le ha più e in molti settori non le ha mai avute. Questo vorrebbe dire che la R&S sia per l’Italia un qualcosa di quasi impossibile? Sì. Basti questo dato, che dice molto del problema italiano: nel 2018, Amazon ha investito in attività di R&S per circa 23 miliardi di euro, quasi come l’Italia. Come fare fronte a questa situazione? Per esempio, in Francia è presente una diversa cultura dell’intervento pubblico, più attiva, che non passa solamente attraverso la proprietà delle imprese – come è stato in Italia con la lunga tradizione IRI – ma anche attraverso un sostegno indiretto alle imprese, per esempio con reti regionali di istituti di ricerca che lavorano tra loro e che sono punto di riferimento per le imprese della regione per svolgere R&S. Queste ultime hanno a disposizione la leva pubblica da una parte e l’integrazione privata dall’altra, per scopi che servono al sistema nel suo insieme, ma di cui beneficiano le imprese private dell’area. Questo è un modello alternativo alla condizione in cui non ci sono sempre e distribuite omogeneamente in tutto il Paese, grandi imprese capaci di svolgere R&S. È una soluzione che dovrebbe essere messa in atto in paesi in cui le dimensioni delle imprese industriali sono medio-piccole come in Italia e che, quando sono grandi, sono in settori in cui fare R&D non ha una funzione sistemica – si veda la moda –, che difficilmente raggiunge altri settori, come invece accadrebbe per campi legati ad esempio all’ingegneria elettronica. Questo è un elemento che si deve considerare. Le università in Italia da almeno una decina di anni a questa parte hanno creato degli incubatori tecnologici dentro al sistema universitario, che possono svolgere – e in parte già stanno svolgendo – una funzione analoga a quella del sistema francese, ma il cui impatto è stato molto limitato, innanzitutto per via delle difficoltà finanziarie delle università, poi perché non sempre riescono a fare sistema con il mondo industriale cui queste attività dovrebbero rivolgersi. Non si riesce a creare effetti di innovazione a cascata su altri settori, ed è il punto debole dell’Italia. L’industria 4.0 sta andando in una buona direzione e si vede nel sostegno che in questi anni hanno ricevuto molte imprese in tanti modi per potersi modernizzare e introdurre molto più high-tech o ICT nelle strutture produttive. Si tratta, però, di novità pensate e create da altri. È qui – direi di nuovo – la radice del problema.
Un Paese capace di innovare le proprie infrastrutture (non solo fisiche) e tecnologie produttive è un paese che cresce. Come ha ricordato nel suo ultimo libro, L’economia mondiale dopo la guerra fredda (il Mulino 2018), gli Stati Uniti, scacciati i pensieri declinisti che li avevano tormentati negli anni Ottanta, riescono ad allargare nuovamente il distacco con i paesi dell’Europa occidentale – che progressivamente li incalzavano – grazie all’abbraccio della New Economy dell’era Clinton. L’obiettivo dell’information super-highway viene raggiunto con il 40% degli investimenti mondiali in ICT negli anni Novanta, anni in cui le imprese americane spendono in doppio di quelle europee in innovazione e in cui la rigenerazione occupazionale ottiene un saldo positivo di 14 milioni di posti di lavoro (contro i -5 dell’UE). Possiamo dire che se gli Stati Uniti hanno mantenuto l’Olimpo delle superpotenze per sé per altri due decenni è anche grazie all’innovazione portata avanti su larga scala. Dov’era l’Italia in tutto questo? Perché l’Italia non ha saputo sfruttare queste nuove possibilità?
Luciano Segreto: L’Italia era in coda ai paesi europei, in una fase in cui il divario con gli Stati Uniti riprendeva ad aumentare, mentre la capacità americana di cogliere le opportunità della ICT tra anni Ottanta e anni Novanta stavano scavando un nuovo divario con tutto il continente europeo. L’Italia, dentro a questo continente europeo, si porta dietro tutto il suo fardello di problemi, cui se ne aggiungono tanti altri negli anni Novanta, che sono di tipo politico-istituzionale prima ancora che economico, che ancora una volta distolgono forze, energie e attenzioni dai problemi. L’Italia aveva già da prima attraversato vicende politiche e istituzionali che hanno giocato un ruolo negativo in più nel contesto; pensiamo al terrorismo degli anni Settanta, che assorbe energie umane e politiche e l’attenzione delle istituzioni. Negli anni Novanta la frantumazione del sistema istituzionale della Prima repubblica mette nuovamente il Paese nelle condizioni di ripensarsi e riorganizzarsi, adottare un nuovo linguaggio politico e adeguare un sistema istituzionale nello stesso tempo in cui ci sarebbe stato bisogno di fare altro. “Mani Pulite”, le inchieste sulla corruzione, il passaggio a un sistema elettorale uninominale, a un sistema politico bipolare, insomma, tutti processi che si devono fare, ma in condizioni che nel nostro Paese non ci sono state. Non si può scegliere quando riformare il sistema politico, è evidente. In Italia è stato fatto in un momento complicato: la fine della Guerra fredda e della contrapposizione Est-Ovest, un fenomeno che ha provocato il tramonto dei partiti comunisti – anche quello italiano, seppur da sempre molto diverso dai partiti comunisti europei, con un elevato tasso di riformismo in alcune aree anche se al suo interno convivevano altri tipi di visioni.
Facciamo un paragone con la Francia: l’ultima grande crisi istituzionale francese si ha con il passaggio dalla Quarta alla Quinta repubblica, in una fase in cui il Paese sta vivendo la guerra in Algeria (che è il detonatore della crisi della Quarta repubblica), ma questo in un contesto economico di elevata crescita economica. Non si parla di miracolo economico francese, ma l’economia francese correva, come del resto tutte le altre economie occidentali. La Francia poteva quindi “permettersi” – diciamo così – una crisi politico-istituzionale in un contesto molto diverso, in cui non vi erano altre preoccupazioni all’orizzonte. L’Italia, oltre che per le ragioni strutturali di lungo periodo, non ha potuto cogliere quelle opportunità, perché era – insieme agli altri Stati europei – arretrata, avendo davanti tante frontiere tecnologiche che altrove erano state superate prima, e per di più si trovava a cercare di superarle in una fase di crisi politico-istituzionale. A questo si aggiungevano anche le difficoltà economiche tra fine anni Ottanta e inizi anni Novanta: crescita del debito pubblico, crescita del deficit, manovre contro la lira già in difficoltà, l’uscita dallo SME nel 1992 – tutti avvenimenti dalle conseguenze pesantissime. In questo scenario di incertezza arrivano le inchieste di “Mani Pulite” e lo sconvolgimento politico-istituzionale che ne seguì. In questo quadro c’era poco spazio “mentale” per fare altro: mancavano risorse politiche e culturali, non economiche. Il Paese non poteva che seguire da lontano i paesi europei, che a loro volta seguivano a distanza l’avanzata impetuosa delle trasformazioni in corso negli Stati Uniti e in Giappone, qui nonostante l’inizio di una lunga stagnazione.
Quasi contemporaneamente alle tendenze descritte nella domanda precedente, in Italia si liquidava, pezzo per pezzo l’IRI e con esso il modello dell’economia mista. Da allora, però, non sembra essersi formata una nuova chiara visione programmatica dell’economia italiana. La sostanziale stagnazione dell’economia italiana dal 1993 ai giorni nostri sembra confermarlo. Giuseppe Berta nel 2016 sosteneva che “il sistema delle imprese ha smarrito i suoi lineamenti storici, senza acquistarne di nuovi e soprattutto senza raggiungere un assetto inedito abbastanza saldo da far maturare una credibile prospettiva di sviluppo”. È dello stesso avviso? Le classi dirigenti politiche e imprenditoriali hanno forse affrontato il tema della propria politica industriale con interventi di breve respiro e senza una visione di lungo periodo?
Luciano Segreto: La domanda dovrebbe essere posta in maniera ancora più radicale: in Italia è esistita negli ultimi trent’anni una politica industriale? Parlare di politica industriale vuol dire fare delle scelte che convogliano risorse in una determinata serie di settori, con tutto l’apparato collaterale, che possono essere istituzioni scientifiche e culturali, università e sostegni diretti a chi produce determinati beni e servizi che possono diventare un volano per una crescita ulteriore per altri segmenti dell’apparato industriale. In questi trent’anni, fare politica industriale in Italia è stato spesso come entrare in Chiesa e bestemmiare. Qui si apre in un certo senso la pagina del rapporto tra l’Italia e l’Unione Europea. Questa, dalla seconda parte degli anni Ottanta ha progressivamente osteggiato gli aiuti statali alle imprese. Come già accaduto in molte altre occasioni, l’Italia aderì completamente a questa visione, seguendo acriticamente la posizione di Bruxelles e quindi rinunciando ad attuare proprie politiche industriali. Guardando agli altri paesi, però, Francia e Germania soprattutto, vediamo come le politiche industriali sono state implementate, anche negli ultimi trent’anni. E davanti a eventuali rimproveri provenienti da Bruxelles questi paesi hanno affermato la propria competenza nazionale sulla materia. Questa capacità di risposta alle istituzioni europee è sempre mancata all’Italia. Fare politica industriale vuol dire avere la capacità di dialogare con Bruxelles e nello stesso tempo di assumersi delle responsabilità rispetto a quanto può essere obiettato dalle istituzioni europee. Ne parlai qualche anno fa con Marco Fortis, in merito al saggio che stavo scrivendo sulla deindustrializzazione[4]. Fortis non concordava su tutto, sostenendo che invece misure come quella attuata dal governo Renzi nel settore farmaceutico e nel sistema bancario potevano essere considerate come politica industriale. Il campo di azione era però in quel caso limitato.
Tornando agli anni Novanta, anche per via di una classe dirigente, quella di centro-destra, sotto alcuni aspetti nuova ma che non ha certo mai brillato per visioni di lungo periodo sulle questioni strategiche, non c’è stata l’attenzione necessaria per politiche industriali in settori dove l’Italia doveva e poteva immaginarsi. Anche con gli anni dell’Ulivo non si è visto nulla di diverso rispetto ai governi di centro-destra. Vi è, insomma, un’incapacità profonda, strutturale della classe dirigente italiana in quegli anni di pensare al lungo periodo: ci si focalizzava solo sul breve periodo, sulle elezioni comunali e regionali a venire. Beppe Berta ha sicuramente ragione, anche se nel giudicare la “produzione intelligente” delle nuove fabbriche[5] ha una visione forse troppo positiva; certe opportunità è difficile che possano essere generalizzate nel sistema industriale italiano. Sono certamente d’accordo con lui quando ricorda che il sistema dimensionale non sia più oggi la questione principale: in certi segmenti del sistema industriale la grande dimensione di per sé non è la porta attraverso la quale bisogna per forza passare. Anche una dimensione più piccola può bastare e raggiungere risultati molto importanti, sebbene continui a pensare che certi livelli si possano raggiungere solo con la grande impresa. Le ottime medie imprese in Italia, quelle fotografate tutti gli anni da Mediobanca, sono quelle che ci fanno rimanere nel G7, degli eroi che tengono il Paese all’interno del consesso informale tra Stati dove si prendono importanti decisioni.
In Italia, è stato detto[6], ci sono pochi esempi di imprenditori “schumpeteriani”, coloro che riescono a scardinare la realtà economica esistente, divenendo agenti della cosiddetta “distruzione creativa”, e i pochi rintracciabili operano in settori non ad alta intensità tecnologica ma in settori tradizionali come quello alimentare o della moda. È d’accordo?
Luciano Segreto: Sono d’accordo. Di per sé non è negativo che il fenomeno si osservi nel settore della moda o dell’alimentare, bensì inevitabile, sarebbe drammatico se così non fosse. Se l’Italia non è attivamente presente in molti settori è ovvio che di conseguenza non vi siano imprenditori schumpeteriani; siamo in seconda o terza fila nei settori a più alta intensità tecnologica, ovviamente con alcune importanti eccezioni.
Reputa l’esperienza delle “multinazionali tascabili” come vincente e possibile nuovo modello di sviluppo?
Luciano Segreto: Parlare di nuovo modello di sviluppo forse è troppo. Sicuramente, però, le cosiddette “multinazionali tascabili” sono state un fenomeno nuovo molto importante di una parte del tessuto imprenditoriale italiano che ci dimostra come la questione dimensionale non sia più dirimente per avere successo e per la proiezione internazionale: un’impresa di medie dimensioni può avere la forma di una multinazionale, con proprie filiali in diversi paesi. E – preciso – non sto parlando di delocalizzazione produttiva e quindi di subforniture dall’estero ma di imprese che producono gli stessi beni ma in altri mercati. Non si può però stabilire un modello vincente da seguire: ogni impresa deve valutare le proprie dimensioni, strategie di mercato e scegliere la soluzione su cui si sente più solida e su cui i rischi sono minori e che, se ben calibrati, possono dare luogo a scatti importanti in avanti, a riprendere o a migliorare posizioni relative in un contesto internazionale. Ma dire che questo modello sia prescrittivo il passo è troppo forzato.
Guardando oltreoceano troviamo quello che potremmo definire come un esempio virtuoso di cooperazione pubblico/privato. Nel 1982 venne fondata negli Stati Uniti l’organizzazione BENS (Business Executives for National Security) che raccoglie ancora oggi centinaia di importanti dirigenti, analisti e manager di grandi realtà del tessuto economico americano e che consiglia i vertici dell’amministrazione su questioni inerenti alla sicurezza nazionale, non solo economica, ricevendo a sua volta ascolto dagli apparati di sicurezza statali per quanto riguardano anche questioni di intelligence economica. Pensa che in Italia il mondo imprenditoriale sia dotato della reattività necessaria per rendere possibile la costituzione di un ente simile?
Luciano Segreto: Se guardiamo alla storia di Confindustria la risposta è subito no. Confindustria ha fatto fatica a diventare un interlocutore, ad agire non solo per una difesa di interessi complessivi del settore industriale italiano ma anche a diventare un interlocutore istituzionale capace di dialogare tanto sul territorio quanto a livello nazionale. Ciò è stato possibile solo a partire dallo Statuto Pirelli del 1970, quando si radica diversamente nel territorio e comincia ad avere una capacità di parlare non solamente pro domo, per difendere gli interessi delle aziende nelle contrattazioni sindacali, ma per proporre una propria visione su quali siano le scelte migliori per un tessuto economico-sociale più delimitato geograficamente. Se osserviamo le qualità analitiche dei dirigenti di Confindustria – non sto parlando dei direttori generali, ma dei suoi presidenti degli ultimi 50 anni – è difficile trovare qualcuno che abbia avuto la capacità prospettica di immaginare un ruolo per l’apparato industriale italiano nel suo insieme. Si sono sempre solo limitati a difendere gli interessi della categoria degli imprenditori e dell’industria italiana nei confronti delle istituzioni da una parte e dei sindacati dall’altra. Il ruolo di Confindustria è un ruolo di organismo di rappresentanza di interessi, non è associazionismo economico, è una cosa diversa; il caso della BENS e ciò che sta alle spalle di questo, rivela un atteggiamento diverso proprio nei confronti del sistema economico nazionale. Ciò significa avere una classe dirigente in campo economico che guarda agli interessi complessivi del Paese. In Italia l’associazionismo economico ha avuto un suo ruolo importante fino agli anni Trenta del XX secolo, quando l’Associazione tra le società italiane per azioni contava molto di più di Confindustria. Dal secondo dopoguerra in poi è Confindustria che conterà di più, ma come rappresentante di interessi di parte, in un contesto democratico, in un confronto dialettico nel campo sindacale e delle relazioni industriali. Non voglio dire che questa dimensione sia completamente assente, forse tra le cose che Confindustria fa – e che noi non conosciamo – ci possono essere anche attività che vanno nella direzione della BENS, ma se questo fosse stato fatto da qualche decennio a questa parte si sarebbe sicuramente saputo.
Continuando a guardare ad alcune datate – ma ampiamente imitate – soluzioni estere: nel 1949 venne fondato in Giappone il MITI (Ministero dell’Industria e del Commercio Internazionale), che divenne il principale braccio dello Stato nell’economia domestica e nella proiezione commerciale giapponese all’estero. Suo compito era coordinare le azioni delle imprese giapponesi all’estero, sostenendole anche con un servizio di intelligence economica, e sostenere e diffondere l’innovazione tecnologica e il sostegno ai settori in crisi. Serve un una sorta di MITI per l’Italia che vuole invertire la rotta attuale? Servono, più in generale, nuovi fattori sostitutivi come quelli adottati dai paesi latecomer per affrontare la Seconda rivoluzione industriale?
Luciano Segreto: Non ci si può immaginare una struttura senza che vi sia la capacità di usarla. Il MITI all’italiana dovrebbe essere il Ministero dello Sviluppo Economico, che fa tante cose ma non certamente quelle elencate nella sua domanda. Il problema è che dagli anni Novanta in poi il Paese è andato di fatto (non di diritto) in direzione di uno spoiling system dei ministeri: a cambio di maggioranza e di ministro a volte cambiano anche i dirigenti. La forza del MITI non risiedeva nella sua essenza ministeriale e nei suoi compiti – che sono stati poi imitati da tutte le “tigri asiatiche”, a cominciare dalla Corea del Sud – ma nel fatto che nel MITI e nell’analogo Ministero dello Sviluppo Economico a Seoul c’era una tecnocrazia che restava al suo posto, indipendentemente da chi vi si trovava a ricoprire il ruolo di ministro. Questa tecnocrazia resisteva per decenni ed era formata da quelli che definirei studiosi prima che burocrati: personale formato nelle migliori università nazionali o degli Stati Uniti (soprattutto nel caso della Corea del Sud). Una classe dirigente che può pensare e agire indipendentemente dall’andamento delle successive elezioni e che è al servizio di chiunque occupi temporaneamente il ruolo politico, indipendentemente dalla maggioranza parlamentare. La forza di quella classe tecnocratica sta nella sua qualità e nella sua capacità di guardare al lungo periodo. Di fatto, in Italia la qualità dei dirigenti ministeriali di più alto livello è stata spesso resa in parte vana da quella sorta di spoiling system che ha preso corpo negli ultimi trent’anni. Andando indietro nel tempo, vediamo come la mancanza di una tecnocrazia ministeriale affondi le sue radici nel passaggio dall’età liberale al fascismo. Più tardi, con la ricostruzione postbellica e il passaggio al regime democratico, non siamo riusciti a tornare proficuamente al periodo liberale: l’inserimento all’interno dei gangli vitali dell’alta burocrazia ministeriale di persone di grandissima caratura che lì restavano per decenni. Si pensi a due esempi storici: Luigi Bodio, padre della statistica in Italia, e Bonaldo Stringher che diventerà governatore della Banca d’Italia nel 1900 e lo resterà fino alla sua morte, nel 1930. Quella era una tecnocrazia di altissima qualità, che dialogava a livello europeo, che andava ai congressi internazionali, che scriveva articoli e recensioni confrontandosi con i migliori economisti e statistici.
Parlando più strettamente di attualità: la Commissione europea in un’apposita Comunicazione del 26 marzo 2020 ha invitato gli Stati membri “ad avvalersi appieno, sin da ora, dei meccanismi di controllo degli Investimenti esteri diretti”, per fronteggiare il rischio di acquisizioni di imprese e attività strategiche con la conseguente “perdita di risorse e tecnologie critiche”. La sollecitazione era finalizzata principalmente a tutelare i settori in questa fase più sensibili come quello sanitario e della ricerca scientifica ma è innegabile che questi strumenti, che non costituiscono nulla di nuovo nella storia degli interventi statali nelle dinamiche di mercato, possano essere usati attraverso un’interpretazione più estensiva di natura politica contro semplici concorrenti, seppur non “ostili”. Nel quadro comunitario, quanto perde e quanto guadagna il sistema Paese italiano in un’Europa che si “arma” per difendere le proprie attività strategiche? Si potrebbe infatti avere qualche dubbio su una diffusa aggressività del sistema imprenditoriale italiano in settori sensibili per altri paesi.
Luciano Segreto: Non direi. La recente notizia della vittoria di Fincantieri nell’aggiudicarsi un’importante commessa per la costruzione di fregate per la Marina militare degli Stati Uniti è estremamente significativa, perché dà il senso delle importanti eccellenze in campo industriale italiane. Quando si ottengono risultati di questo genere ci si stupisce che l’Italia sia capace di schierare un’impresa collegata a decine e decine di altre aziende – dalla cantieristica all’elettronica – capace di unire altissime competenze tecnologiche a grandi capacità produttive.
La comunicazione della Commission europea va probabilmente messa in relazione anche alle discussioni che da tempo si stanno svolgendo sulla questione del 5G in Europa e nel resto del mondo, anche se il richiamo non è esplicito ma un’eco sicuramente c’è: comportamenti molto asimmetrici tra un paese e l’altro sulla vicenda nei confronti di Huawei. Sono questioni che in certi casi richiamano una capacità di esercitare un interesse nazionale che a volte sorprende. La critica che è stata mossa più spesso alla classe dirigente italiana è quella di non essere in grado di esprimere una strategia per difendere l’interesse nazionale. Sulla vicenda Huawei mi sembra che però si sia fatto: con il primo governo Conte, l’Italia in qualche modo è stata in grado di muoversi autonomamente e avviare trattative con la Cina sia per Huawei che per il ruolo italiano nella Belt and Road Initiative. Questo è comunque un modo di esprimere una posizione che difende degli interessi nazionali: se c’è un’opportunità, questa va colta. Il fatto che alcuni Stati europei abbiano espresso preoccupazione e che gli Stati Uniti abbiano criticato questa scelta ricorda molto la vicenda di Mattei che alla fine degli anni Cinquanta comprava il petrolio dall’Unione Sovietica, con l’alleato americano che lo accusava di stare indebolendo l’alleanza occidentale; lì Mattei rispondeva che avrebbe acquistato il petrolio laddove gli fosse stato offerto al prezzo più basso, poiché l’interesse nazionale italiano era di avere tanta energia in una fase in cui il Paese stava crescendo. Quindi, fatte le debite proporzioni e con tutti i limiti di un paragone storico, la questione tiene abbastanza: ci si assume la responsabilità di affermare cosa vada e cosa no nella direzione degli interessi del Paese. Sarà poi la storia a dire se la scelta sarà stata giusta o sbagliata. La comunicazione della Commissione europea, quindi, va contestualizzata. In qualche modo essa appare ridondante e ovvia: non c’era certo bisogno che fosse la Commissione europea a ricordare l’importanza di difendersi da acquisizioni straniere in settori strategici, soprattutto in Europa. Ogni Paese si è da tempo dotato di strumenti indirizzati in quel senso: la golden share esiste fin dalle privatizzazioni degli anni Novanta, cui si sono sommate altre normative più stringenti.
Concludendo, quale identità pensa sia possibile per l’Italia nell’economia globale nei prossimi decenni? Lo shock economico attuale sarà catalizzatore delle tendenze già in atto?
Luciano Segreto: Fare previsioni è difficile, anche ragionando in termini di mesi. Fior di economisti e sociologi stanno sostenendo che “tutto sarà diverso”. La mia prima risposta è: sarà davvero tutto diverso? Penso che alcuni aspetti, delimitati, saranno diversi, ma non tutto sarà diverso nel sistema di relazioni economiche internazionali, nella divisione internazionale del lavoro, nel processo di globalizzazione. La globalizzazione è come ogni altro fenomeno: ha processi di espansione e processi di contrazione. Non è una caratteristica costante, non ha forme standardizzate.
L’abbiamo visto sin dalla riapertura delle attività produttive ai primi di maggio: non si è parlato di cambiare qualcosa, ma di recuperare il più in fretta possibile gli ordini di tre mesi fa; molte imprese hanno già chiesto e ottenuto l’adesione dei sindacati a ridurre le ferie estive. Si va nella direzione di convivere con il virus (almeno sino a quando non sarà disponibile un vaccino), non di vivere in una maniera diversa. Alcune cose ovviamente cambieranno, ma sarebbe interessante osservare quanti di questi cambiamenti resisteranno dopo l’introduzione del vaccino. Non è con questa crisi che si riscopre la virtù del fare tutto “in casa”. Quanto ci costerebbe, ad esempio costruire un’automobile? L’economia sarebbe davvero più ugualitaria? Direi di no. Si andrebbe verso una maggiore disuguaglianza: far ritornare nelle economie avanzate produzioni manifatturiere da tempo delocalizzate farebbe aumentare i prezzi di molti prodotti e, se aumenti il prezzo, stabilisci nuove gerarchie tra chi ha accesso a certi beni e chi no. Il rischio, molto serio, è quello di introdurre così nuove disuguaglianze. Chi vede questi processi come assolutamente benefici sta alimentando una narrativa fallace, di cui si racconta esclusivamente il lato più attraente a certi occhi, ma che non riguarda la grande massa della popolazione e del sistema produttivo. Le autorità non hanno il progetto di rivoluzionare il Paese ma stanno lavorando ad aggiustamenti per rendere possibile la convivenza del sistema economico industriale, delle consuetudini economiche, sociali e culturali con un’emergenza che ci si aspetta di tenere sotto controllo e poi, alla fine, superare. Le risorse che arriveranno dal Recovery Fund saranno decisive e forse potranno contribuire a ridisegnare in parte il nostro sistema economico, rendendolo più snello e robusto insieme, e soprattutto meglio attrezzato per reagire alle sfide presenti e future. Ma ricordiamoci – come hanno affermato in molti in queste settimane – che parecchie riforme che potranno far viaggiare meglio e più in fretta l’economia italiana non hanno bisogno di enormi risorse finanziarie, ma di soprattutto idee, non tutte necessariamente nuove, e di comportamenti – soprattutto da parte della pubblica amministrazione – capaci di risolvere una parte almeno dei problemi che ci portiamo dietro da alcuni decenni.
[1] P. G. Perotto, Programma 101, Baldini & Castoldi, Milano 1993; cap. VI in Luciano Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Giulio Einaudi editore, Torino 2003.
[2] Moses Abramovitz, Catching Up, Forging Ahead and Falling Behind, «The Journal of Economic History» Vol. 46, No. 2, The Tasks of Economic History (Jun., 1986), pp. 385-406.
[3] Mario Pirani, Tre appuntamenti mancati dell’industria italiana, «il Mulino» Numero 6, novembre-dicembre 1991, pp. 1045-1051.
[4] Luciano Segreto, Un nuovo fiume carsico. La deindustrializzazione in Italia nel dibattito pubblico, «Passato e Presente», anno XXXIV, 2016, n. 99.
[5] Giuseppe Berta, Produzione intelligente. Un viaggio nelle nuove fabbriche, Einaudi, Torino 2014.
[6] Alessandro Nuvolari e Michelangelo Vasta, Un fantasma in soffitta? Il sistema innovativo italiano in prospettiva storica, in Ricchi per caso. La parabola dello sviluppo economico italiano, a cura di Paolo Di martino e Michelangelo Vasta, il Mulino, Bologna 2017.