Recensione a: Giacomo Delledonne, Giuseppe Martinico, Matteo Monti e Fabio Pacini (a cura di), Italian Populism and Constitutional Law. Strategies, Conflicts and Dilemmas, Palgrave Macmillan, Londra 2020, pp. 328, (scheda libro)
Scritto da Fabio Ferrari
10 minuti di lettura
Questo contributo è tratto dal numero cartaceo 3/2020, dedicato al tema delle “Piattaforme”. Questo contenuto è liberamente accessibile, altri sono leggibili solo agli abbonati nella sezione Pandora+. Per ricevere il numero cartaceo è possibile abbonarsi a Pandora Rivista con la formula sostenitore che comprende tutte le uscite del 2020 e del 2021. L’indice del numero è consultabile a questa pagina.
Before it is too late
Non è semplice recensire un volume collettaneo nel quale hanno partecipato quattordici autori, e per di più da una prospettiva di studio che sebbene risulti lato sensu comune – diritto pubblico e costituzionale – coinvolge interessi eterogenei, oltreché estremamente specifici: dal procedimento legislativo alle fake news, dal sistema penale al referendum, dal procedimento di revisione costituzionale alle procedure di bilancio, etc.
Le difficoltà aumentano innanzi all’oggetto specifico della trattazione, ossia il populismo, il quale è affrontato non solo da un già di per sé complesso punto di vista generale, ma anzitutto dal peculiare osservatorio costituzionale italiano. Nell’introdurre il volume, sono però i Curatori[1] ad offrire una puntuale ricognizione dei saggi contenuti, sintetizzando con efficacia gli aspetti fondamentali messi in luce dai vari Autori. Ciò consente di semplificare di molto l’obiettivo di questa breve recensione, nella quale più che dare conto dei singoli contributi[2], pare opportuno cercare di cogliere alcuni tratti, veri e propri fili rossi, che sembrano caratterizzare l’intera riflessione.
Populismo – lo si ripete giustamente a mo’ di leitmotiv nei diversi saggi – è termine essenzialmente equivoco: inevitabilmente, ancor più lo sono i presunti effetti giuridici da questo prodotti nell’ordinamento costituzionale. Vi sono però alcuni elementi per così dire caratteristici, che con una certa concordanza di analisi gli autori descrivono come tipici del fenomeno[3]: la semplificazione parossistica del messaggio politico; l’intolleranza nei confronti delle complesse procedure decisionali della democrazia costituzionale; un forte sentimento antielitario; una visione monolitica del popolo, dei suoi interessi e bisogni, così come dei relativi ‘nemici’. Emerge dunque una parola chiave: pluralismo.
Dopo le tragedie dei totalitarismi, l’Europa istituzionalizza finalmente il conflitto sociale, e le costituzioni del secondo dopo guerra certificano l’esistenza di una società ideologicamente ed economicamente disomogenea, ove la tutela giuridica delle ‘differenze’ diviene il presupposto stesso di pensabilità dell’ordinamento[4]. Ciò incide sui fili rossi cui si accennava: se il popolo non è più descrivibile come entità uniforme, nessuna forza politica può appropriarsi della volontà generale, pretendendo di apporvi la propria ipoteca; il confronto con l’alterità diviene dunque strutturale, irrigidendo le procedure decisionali, le quali per preservare il pluralismo si rivelano lunghe e complesse. Dal canto suo, la credibilità minima di qualunque messaggio politico implica una rappresentazione della realtà conscia di questo panorama, restia a semplificazioni eccessive che ne falsifichino i tratti; ancora, la garanzia giuridica di tenuta del sistema è ora affidata, in Italia come altrove, anche a soggetti ‘tecnici’, non strettamente elettivi e dunque potenzialmente elitari (giudici, corti etc.), i quali esercitano il mandato non in nome della volontà popolare, ma dei limiti oculatamente posti a quest’ultima a tutela del pluralismo politico.
Sembra dunque proprio il pluralismo il vero bersaglio, più o meno consapevole, del populismo[5]. La mediazione parlamentare è spesso considerata un impiccio[6], il divieto di mandato imperativo che l’anima addirittura illegittimo[7]; il referendum, e forme affini di una non ben precisata democrazia diretta, diviene uno degli strumenti con cui sottoporre a scacco l’immobilismo delle istituzioni e dei partiti che le reggono («apriremo il parlamento come una scatola di tonno»[8]), facendo valere la mitologica volontà popolare: come se quest’ultima fosse un’entità compatta, in grado di esprimersi con un mero ‘sì’ o ‘no’ su ogni argomento dello scibile[9]. Una realtà sempre più complessa, e sempre meno comprensibile anche agli esperti[10], nella rappresentazione populista magicamente si sfibra, scarnificandosi fino ad un osso dai tratti manichei, anche grazie all’uso sapiente dei social media, che eliminano ogni intermediazione tecnica-giornalisitica e amplificano la potenza dello slogan[11].
Contestare il pluralismo, o quantomeno ciò che esso comporta a livello di procedure costituzionali, significa però svelare la propria natura antisistema[12], aprendo il sipario su un tema centrale ed estremamente complesso.
L’Italia ha una lunga tradizione di partiti antisistema, a partire addirittura da uno dei ‘padri costituenti’, il PCI. Sono ben note le conseguenze politiche esercitate da una tale presenza sui primi quattro decenni della storia politica repubblicana[13]; ma nonostante un’identità strutturalmente eversiva (dalla collocazione internazionale nello scenario della guerra fredda al rapporto con i mezzi di produzione), il PCI non ha mai apertamente rinnegato i valori fondanti della democrazia italiana, il cosiddetto ‘patto costituzionale’ del quale peraltro esso stesso fu uno dei cofirmatari.
Ciò che colpisce dei movimenti politici italiani populisti richiamati nel volume (i protagonisti del primo governo interamente populista nella storia europea, Conte I[14]) è invece esattamente questo: la dichiarata allergia ad alcuni pilastri costituzionali del sistema, di cui il parlamento e le sue procedure rappresentano l’esempio più eloquente.
Tutti gli Stati devono affrontare il venir meno della generazione che ha scritto la costituzione[15], e così il rischio di uno smarrimento della lettura condivisa dei principi che regolano la convivenza politica, i quali proprio nella carta fondamentale trovano la loro massima espressione: simbolica (symbállein, ‘tenere assieme’), oltreché giuridica. È dunque indispensabile che una grammatica comune delle istituzioni si tramandi di generazione in generazione, certo evolvendosi innanzi all’incedere della diacronia, ma preservando perfettamente intatti i presupposti minimi.
Lo scenario politico italiano – e a dire il vero non solo – frustra però una parte significativa di queste aspettative. Difatti, pur all’interno di un contesto elettorale estremamente liquido e mutevole, il significativo consenso ai partiti antisistema sembra segnalare un oblio su ampia scala di alcuni tratti irrinunciabili della democrazia costituzionale. Peraltro, la velocità con cui questo processo avviene incute il dubbio che anche durante la cosiddetta prima Repubblica i ‘valori’ costituzionali non fossero così saldi nella popolazione, e che la tenuta del sistema sia per gran parte dipesa da una robusta adesione ai partiti di massa: erano questi, non a caso gli autori della Costituzione, ad indurre i propri tesserati a coltivare lo spirito democratico-repubblicano; venuto meno il prestigio e l’esistenza stessa di tali corpi intermedi, è cessata buona parte di questa necessaria credenza, poiché probabilmente priva di un forte ancoraggio autonomo-popolare.
Tale vulnus di cultura costituzionale del populismo, che pare accompagnarsi all’assenza di una solida costruzione teoretica a sostegno dei messaggi politici propugnati, è senz’altro preoccupante. È stata però proprio l’esperienza di governo Conte I (e in parte Conte II, data la persistenza presenza del M5S) a mettere duramente alla prova alcuni dei postulati ‘populisti’: la vigenza del divieto di mandato imperativo ha consentito la nascita del primo governo Conte, senza cui né la Lega, né il M5S avrebbero potuto formare quell’Esecutivo, alleandosi[16]; la fermezza del Presidente della Repubblica Mattarella – pur con qualche dubbio di parte della dottrina – ha opposto il muro costituzionale delle istituzioni alla pretesa di imposizione unilaterale del Ministro dell’Economia (a fronte di un Presidente del Consiglio solo incaricato, e quindi privo del potere di esprimere l’indirizzo politico di un Consiglio dei Ministri non ancora esistente)[17]; la gestione ‘muscolare’ dell’immigrazione è sfociata in un rinvio a giudizio dell’ex Ministro dell’interno e in un possibile coinvolgimento giudiziale di altri membri dell’Esecutivo, lasciando intendere – quale che sia l’esito processuale – che un conto è il rigoroso (e doveroso) controllo dei flussi migratori, altro è una gestione dei confini potenzialmente irrispettosa delle norme interne ed internazionali liberamente sottoscritte dal Paese[18]; da ultimo, la gestione del dramma pandemico Covid-19 ha reso quasi impronunciabili il negazionismo scientifico e le rivendicazioni no-vax così care almeno ad un segmento del ‘pensiero’ populista[19].
Certo, è ancora presto per giudicare nel complesso se l’attribuzione di responsabilità di governo a forze populiste, le quali tendono a coltivare il proprio consenso anzitutto dal palcoscenico dell’opposizione[20], attenui parte del loro peso specifico o, tutto al contrario, contagi le istituzioni, producendo le conseguenze temute nelle riflessioni in tema[21]. Ma pare possibile constatare come l’esistenza di organi di garanzia consolidati – Presidente della Repubblica, Corte costituzionale, magistratura ordinaria[22] – abbia sino a qui contribuito a proteggere il sistema dalle istanze costituzionalmente più spigolose di quei movimenti.
Vi è un ultimo profilo sottolineare, e si tratta probabilmente del più importante. La stragrande maggioranza degli obiettivi politici del populismo radicalizza problemi che raramente sorgono ex nihilo, rappresentando invece questioni da tempo latenti e cronicamente irrisolte del panorama politico-costituzionale[23].
La perdita di una dimensione sociale dell’economia nazionale, stretta nella morsa di dottrine politiche dominanti restie ad un intervento anche moderato e ragionevole dello Stato; l’indisponibilità della politica di bilancio, pattuita ormai in àmbito prettamente sovranazionale, e spesso con la ricerca del ‘necessario’ avvallo di organi tecnocratici di dubbia legittimazione democratica; la scomparsa di partiti in grado di rappresentare anzitutto sul territorio le esigenze dei cittadini, in particolar modo di quegli strati più bisognosi e socialmente indifesi; la crescente ‘giurisdizionalizzazione’ dei diritti ad opera delle corti, spesso loro malgrado chiamate a sostituirsi de facto ad un Parlamento inerte; una burocratizzazione delle procedure decisionali che, al netto della fisiologica complessità, lambisce ormai l’ipertrofia, di pari passo con istituzioni in difficoltà nel governare le politiche pubbliche, oltreché nel riformare quei segmenti della Costituzione che da anni richiedono – a giudizio quasi unanime – un minimo di manutenzione.
L’Italia affronta questi problemi da ben prima della nascita del populismo, spesso senza riuscire a risolverli; e a pagarne i costi, inevitabilmente, sono le classi sociali deboli, che prima e più delle altre avrebbero bisogno di politiche efficienti e ragionevolmente redistributive[24], in un Paese in cui i livelli di disuguaglianza appaiono ormai fuori controllo. Con la caduta del muro di Berlino (che di poco precede, non a caso, il Trattato di Maastricht e le sue precise dottrine economiche), gli Stati europei si sono finalmente liberati dall’incubo del totalitarismo e dalla minaccia di una guerra nucleare, ma alcuni di essi sembrano anche aver archiviato buona parte della loro tradizionale capacità di attuare, e forse ancor prima concepire, autentiche politiche sociali.
In questo vuoto si sono inserite le forze populiste, aizzando i già palpabili venti di protesta popolare contro le istituzioni nel loro complesso, divenuti veri e propri uragani dopo dieci anni di lacerante crisi economica[25]. Il vuoto è così divenuto voragine, a maggior ragione in un Paese che a seguito dello scandalo di Tangentopoli si è scoperto privo dei riferimenti politici tradizionali, e sempre più incline a confidare in soggetti poco sensibili all’etica istituzionale[26], in un certo senso precursori dell’attuale deriva populista.
Se tutto ciò e vero, gli aspetti del populismo che preoccupano – dal punto di vista che qui interessa, quello della tenuta costituzionale del sistema[27] – vanno per quanto possibile affrontati anzitutto a monte, non a valle: cioè, guardando ai nodi irrisolti che lo alimentano, prima ancora che ai soggetti politici che lo personificano[28].
È compito della politica combattere il risentimento sociale e le disuguaglianze che spesso ne stanno alla base; ma soprattutto è dovere della politica dimostrare che è possibile avere cura di questi interessi senza per forza scuotere le fondamenta del sistema[29], perlopiù con spesso inconsapevoli (e dunque ancor più colpevoli) venature autoritarie o vagamente eversive: anzi, proprio una politica costituzionalmente orientata dovrebbe avere tutti gli strumenti necessari per rispondere a questo tipo di bisogni (art. 3.2 Cost.).
Non si può dunque che essere grati ai Curatori e agli Autori del libro in esame, trattandosi di una guida approfondita, preziosa e sicura per comprendere l’insieme di questi profili problematici; e di molti altri qui non trattati.
* Le citazioni del volume recensito contengono il nome dell’A. del saggio richiamato e la relativa pagina.
[1] G. Delledonne, G. Martinico, M. Monti, F. Pacini, p. 1 ss.
[2] Per questo fine, cfr. l’analisi di F. La Placa, Su un recente libro sul rapporto tra populismo italiano e costituzionalismo, «forumcostituzionale», 2, 2020, p. 11 ss.
[3] Tra i molti, sotto diversi aspetti, per esempio P. Blokker, p. 11, G. Boggero, pp. 153-156, M. Tomasi, p. 223.
[4] P. Faraguna, p. 100.
[5] Come correttamente sottolinea, tra gli altri, A. Sterpa, p. 282.
[6] G. Martinico, p. 78.
[7] Sul punto, C. Fasone, p. 48 ss. e M. Bassini, p. 209 ss.
[8] Com’è noto, espressione pronunciata (in tono semiserio) dal co-fondatore del M5S Beppe Grillo a Porto Marghera, il 6 febbraio 2013 (reperibile, per esempio, su www.youtube.com).
[9] G. Martinico, p. 78 ss.
[10] Lo ripeteva spesso Giovanni Sartori (cfr., per esempio, www.giovannisartori.it).
[11] Sul punto, C. Fasone, p. 55 ss., per quanto concerne la spettacolarizzazione mediatica di quella parte dei lavori delle Camere tradizionalmente sottratti a pubblicità. Quanto al sapiente uso di Internet come strumento di relazione diretta con i propri elettori, M. Bassini, p. 207. Più in generale, il rapporto tra internet, fake news e ascesa di partiti e movimenti populisti è analiticamente indagato dall’intero saggio di M. Monti, p. 177 ss.
[12] Sulla disciplina costituzionale di questo profilo, M. Bassini, pp. 202-203.
[13] Come perfettamente ricorda C. Fasone, p. 42.
[14] Su cui cfr. l’approfondita analisi di G. Delledonne, p. 139 ss.
[15] Su questo, G. Zagrebelsky, Storia e costituzione, in Id. – P. P. Portinaro – J. Luther (a cura di), Il futuro della costituzione, Einaudi, Torino 1996, p. 35 ss.
[16] In particolare modo dalla prospettiva del M5S, M. Bassini, p. 206.
[17] Sul ‘caso’ Savona, e sulla nascita dell’Esecutivo Conte I, G. Delledonne, p. 143 ss.
[18] Le vicende da cui sorgono i noti casi riportati sono descritti e analizzati in S. Penasa, p. 264 ss., il quale non manca di segnalare però profili di continuità con alcune politiche migratorie non populiste del recente passato. Sull’uso ‘retorico’ della dichiarata, ma non sempre effettiva, afflittività della norma penale quale unica soluzione al problema migratorio, si veda anche N. Selvaggi, p. 301 ss. Una tale gestione dell’immigrazione ha peraltro rischiato di assorbire anche la riflessione politica su laicità e minoranze religiose: P. Annicchino, p. 248 ss.
[19] Su questo, il saggio di M. Tomasi, in particolare p. 224 ss. Peraltro, è la stessa A. a ricordare – condivisibilmente – che rispettare il dato scientifico non significa postulare un piatto asservimento della politica alla scienza, dovendo sempre la prima tentare di governare la seconda, bilanciando le istanze di quest’ultima con le molte altre (economiche, sociali, morali) che il governo della cosa pubblica richiede. Tuttavia, va da sé che la messa in discussione dei risultati scientifici deve basarsi su qualcosa di più solido di una lunga catena di like da social network, come spesso invece sembra accadere nelle rivendicazioni populiste. Sullo sfondo di questo tema, il rapporto tra democrazia ed ‘età della tecnica’, ed in particolare la difficoltà di assumere decisioni politiche sufficientemente consapevoli in un tale contesto: U. Galimberti, Psiche e techne: l’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, per esempio cap. 30.
[20] Il fatto che l’esperienza di governo abbia stemperato alcune velleità propagandistiche del populismo è sottolineato da P. Annicchino, p. 250 ss.
[21] Importanti dati statistici in termini di processi decisionali del Parlamento e dell’Esecutivo sono forniti da F. Pacini, p. 125 ss.: da essi, pare potersi riscontrare una certa continuità con il passato ‘pre-populista’, ma soprattutto per gli aspetti tradizionalmente più problematici e costituzionalmente discutibili della produzione legislativa italiana.
[22] È quasi fisiologico, come sottolinea A. Sterpa, p. 282, che il populismo entri prima o poi in conflitto con questi organi, i quali sono costituzionalmente deputati a far valere – seppur da diverse angolazioni – i limiti giuridici alla sovranità popolare
[23] Sul punto, per esempio, C. Fasone, p. 42 ss., P. Faraguna, p. 111, F. Pacini, p. 123, G. Delledonne, pp. 138-139.
[24] Da questa prospettiva, molto importante è l’analisi di G. Boggero, p. 156 ss.: sia per la ricognizione delle diverse tesi circa il significato dell’art. 81 Cost. (in origine e nelle successive interpretazioni-novelle costituzionali), sia per l’attuale visione ‘populista’ dei medesimi vincoli di bilancio (soprattutto in chiave sovranazionale).
[25] L’aspetto macro-economico condiziona altresì la politica penale, favorendo inevitabilmente misure penali a (presunto) basso costo, o costo zero: N. Selvaggi, p. 293.
[26] Cfr. P. Blokker, p. 28 e C. Fasone, p. 43.
[27] Sulla crisi di alcune tradizionali categorie del costituzionalismo, su cui il populismo tenta di fare leva per incrementare il proprio spazio politico, A. Sterpa, p. 286 ss.
[28] A partire da quello che appare un preoccupante venire meno delle basi razionali necessarie per qualunque discorso sulla cosa pubblica, e che comporta una possibile, scorretta percezione della reale portata dei problemi: in tema di migrazioni, S. Penasa, p. 258 ss.; quanto alle ricadute sul sistema di repressione penale, N. Selvaggi, p. 292 ss., e in particolare p. 296 ss. Da un punto di vista più generale, sulla necessità di disciplinare segmenti importanti della comunicazione via internet, al fine di prevenire quanto più possibile le numerose fake news che inquinano il dibattito, M. Monti, in particolare p. 187 ss.
[29] In un tale contesto, appare quasi inevitabile che le forze populiste mirino a modificare in tutto o in parte anche i principi supremi dell’ordinamento (P. Faraguna, pp. 104-106), con il rischio di esercitare in questo modo un vero e proprio potere costituente (P. Blokker, p. 12 ss.).