Scritto da Tommaso Cerutti
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Une partie des rayons plaqués contre les murs de son cabinet, orange et bleu, était exclusivement couverte par des ouvrages latins, par ceux que les intelligences qu’ont domestiquées les déplorables leçons ressassées dans les Sorbonnes désignant sous ce nom générique: «la décadence» (J. K. Huysmans, A Rebours).
Tenutosi nell’inverno del 1870 a Basilea, il ciclo di lezioni Sullo studio della Storia di Jacob Burckhardt (1818-1897), sarebbe stato pubblicato, in base ai suoi appunti, dal nipote Jacob Oeri nel 1905 con il titolo Considerazioni sulla storia universale (Weltgeschichtliche Betrachtungen), insieme a due conferenze tenute al di fuori dell’università, inserite in appendice, in merito a L’individuo e l’universale e Fortuna e sfortuna nella storia universale. Nel 1929 sarebbero state invece pubblicate le Lezioni sulla storia d’Europa (Historische Fragmente) a cura di Emil Dürr, che lavorò sul materiale utilizzato da Burckhardt nel corso degli anni (1844-1893) per preparare le sue lezioni universitarie. Successivamente sarebbero state realizzate due ulteriori edizioni, con prefazione di Werner Kaegi, nel 1942 e nel 1957. Entrambi gli scritti furono inseriti all’interno delle opere complete stampate in Germania tra il 1929 e il 1934.
Secondo quanto osservato da Felix Gilbert, Burckhardt rappresenta, almeno per il mondo germanofono, il prototipo di una nuova figura di intellettuale prodotta dai rivolgimenti sociali e politici innescati dalla Rivoluzione francese. Quegli eventi avrebbero infatti messo in discussione la tradizionale visione della storia, che da quel momento in poi si sarebbe resa sempre più autonoma rispetto alla filosofia, non venendo più vista come qualcosa di preordinato. Oltre a ciò, si sarebbe assistito a una professionalizzazione della disciplina, che avrebbe prodotto un sempre maggiore interesse per le fonti primarie tra gli storici, ora intenti non più meramente a registrare i fatti, ma piuttosto a indagarne le cause profonde. Tale processo si sarebbe accompagnato poi ad un allargamento dei campi di indagine, dinamica ben incarnata, per Gilbert, dal precoce interesse dimostrato da Burckhardt nei confronti della storia della cultura, che l’autore americano di origini tedesche contrappone nella sua opera alla predilezione per la storia politica di Leopold von Ranke[1].
Tale dicotomia risulta fondamentale in quanto, come sottolineato da Joachim Fest nella postfazione dell’edizione italiana delle Considerazioni[2], lo studio della Kulturgeschichte si coniugò in Burckhardt con la fuga dal politico che caratterizzò la sua biografia, divenendo sempre più cosciente con il passare degli anni. Ciò ebbe un impatto importante nel determinare quello che, secondo lui, avrebbe dovuto essere il ruolo dell’intellettuale in un’età di forte transizione come quella che stava vivendo, ovvero, secondo le parole di Karl Löwith, «conservare, nel mezzo della crisi distruttiva e del cambiamento, il punto di vista dello spirito libero; conservare la continuità dell’essere storico, per poter, libero da illusioni, fare leva su se stesso, negli inganni di un’epoca bisognosa di illusioni»[3].
Tale visione poneva le sue basi nella particolare concezione della storia sviluppata nelle Considerazioni, basata sull’interazione tra «tre potenze»: lo Stato, la religione e la cultura. Era quest’ultima, per Burckhardt, a porsi in continuo e perenne mutamento nei confronti delle altre due forze “statiche”, propense a favorire la conservazione dell’esistente. Come chiarisce il capitolo su La Grandezza nella storia, sotto il termine “cultura” erano comprese sia le discipline artistiche e la filosofia, nella sua accezione di “organizzazione del sapere”, sia le scienze naturali e matematiche, dalle quali dipende il progresso tecnico. La grandezza degli uomini che si erano cimentati in tali discipline, cogliendo l’essenza del loro tempo e tramandandola ai posteri, era anteposta a quella degli uomini politici[4]. Tra di essi la vera grandezza era stata raggiunta solamente da chi era riuscito a interpretare il cambiamento, realizzando qualcosa di stabile e duraturo, come ci restituisce il differente giudizio dato nelle Lezioni nei confronti delle effimere conquiste di Tamerlano e del periodo di prosperità raggiunto dall’Impero Romano sotto gli imperatori da Nerva a Marco Aurelio. Sempre in questo luogo Burckhardt imputò inoltre l’insuccesso di Robespierre alla sua incapacità di portare avanti un «programma positivo», rilevando, a proposito del Terrore giacobino, come la scarsa preoccupazione manifestata nei confronti del declino della cultura, del commercio e del benessere dovesse sfociare per quel partito in una rapida caduta[5].
In questo senso nell’opera di Burckhardt si avverte uno scarto secco rispetto a quanto teorizzato da Hegel. Non solo il professore di Basilea nega ogni finalità nello svolgimento delle vicende storiche, dichiarando esplicitamente l’impossibilità di addivenire a una filosofia della storia, ma, mettendo al centro della sua trattazione la vita culturale delle diverse civiltà, nega anche che questo fine possa essere lo Stato, affermando, piuttosto, il primato della società, unico luogo in cui può essere determinata la sfera morale[6]. Parimenti evidente è la differenza rispetto all’opera di Marx, in cui, oltre a permanere un certo determinismo nell’interpretazione della storia del mondo, l’elemento culturale è visto come una “sovrastruttura” rispetto al fondamentale momento “strutturale” della definizione dei rapporti economici[7]. Il risultato è il netto rifiuto di ogni storicismo ‒ nel senso “forte” del termine ‒ che si ritrova nell’invettiva contro von Hartmann contenuta nelle Lezioni, rivolta tanto verso la tendenza a guardare al presente come il punto di arrivo di un processo obbligato, quanto verso ogni tentativo di applicazione alla storia della teoria evoluzionistica, che, se avesse realmente avuto un fondo di verità, avrebbe significato la trasformazione degli esseri umani in demoni[8].
Burckhardt condannò in questo senso ogni tentativo di «processo al passato» che guardasse ad esso in termini di «desiderabilità» applicando giudizi etici nei confronti di epoche trascorse. Ciò non significava peraltro negare l’esistenza di una continuità storica, in quanto il presente rimaneva il risultato delle azioni compiute nel passato. Come affermato da Löwith, in questo consisteva la principale differenza con il nichilismo nietzschiano, poiché per il professore svizzero la disciplina storica conservava un fondamentale valore di utilità nel rendere possibile la «liberazione dalla temporalità» degli eventi, permettendo all’uomo di godere di una prospettiva che si estendesse al di là dei limiti della propria esperienza e della propria epoca, fatto negato nel pensiero del filosofo tedesco, che guardò ad essa come a un fardello insopportabile per l’uomo contemporaneo, approdando a una visione circolare del tempo[9].
Eppure, la storia rimaneva per Burckhardt la meno scientifica di tutte le scienze, non solo perché «le nette definizioni concettuali appartengono alla logica, non alla storia, ove tutto esiste in modo fluttuante e vive in continui trapassi e combinazioni»[10], ma anche perché «è quella che meno di tutte possiede e può possedere un metodo sicuro e riconosciuto di scelta, ossia l’indagine critica ha un metodo preciso, mentre l’esposizione ne è priva». Da qui la deduzione finale che «l’esposizione è ogni volta resoconto di ciò che un’epoca considera notevole in altre epoche»[11]. Una conclusione simile a quella di Benedetto Croce, secondo cui «ogni vera storia è storia contemporanea», poiché «solo un interesse della vita presente ci può muovere a indagare un fatto passato»[12]. Come notato da Löwith[13], però, la differenza tra i due autori è abissale. Se il filosofo italiano guarda al divenire storico come a un compimento progressivo della libertà, derubricando a incidenti di percorso i periodi di crisi, nell’opera dello storico svizzero sono proprio questi ultimi ad acquisire centralità ‒ in questo senso Droysen ha parlato di una predilezione per i «periodi di putrefazione»[14] ‒, nella convinzione che in quelle occasioni l’umanità abbia modo di raggiungere le proprie vette espressive. Infatti, «in mezzo all’incertezza generale entrano in scena grandi energie spirituali prima latenti, che disorientano i puri e semplici sfruttatori della crisi, giacché i meri chiacchieroni, in epoche terribili, sono impotenti»[15].
Il protagonista della grandiosa “narrazione” storica di Burckhardt rimane sotto questo punto di vista l’individuo, anche se, come affermato da Gilbert, guardando ai suoi principali lavori, ovvero L’età di Costantino il Grande (1852), La civiltà del Rinascimento in Italia (1860) e l’opera postuma Storia della civiltà greca (1898), si può notare una costante evoluzione che lo porta non più a interpretare un intero periodo attraverso il filtro di una singola grande personalità, ma piuttosto a restituire al lettore la cultura del tempo nella sua interezza tramite una pluralità di voci[16]. Secondo tale prospettiva lo stato di crisi percepito dal professore di Basilea rispetto al presente che lo circondava consiste innanzitutto in una crisi di individualità. Individualità che aveva raggiunto la propria massima espressione proprio durante il Rinascimento, grazie alla figura del “genio universale”, incarnata per Burckhardt da Leon Battista Alberti. E un certo rimpianto di quel modello intellettuale si avverte all’inizio delle Considerazioni, dove l’autore lamenta l’eccessiva specializzazione dei vari rami del sapere propria del XIX secolo, auspicando che lo studioso coltivi come «dilettante» materie diverse dalla propria[17]. Secondo quanto descritto da Löwith[18], per lo storico svizzero l’approdo alla modernità è scandito dalla definitiva presa di coscienza da parte dell’uomo di essere faber fortunae suae, smarcatosi dal condizionamento di forze superiori come il Fato dell’antichità classica o la Provvidenza medievale. Il libero arbitrio è però innanzitutto, in questa concezione, responsabilità morale e non assoluta libertà d’azione – fatto che permette di comprendere la centralità della Riforma protestante, basata sulla dottrina della predestinazione, nella svolta del XVI secolo. Proprio riguardo a quest’ultima Burckhardt sottolinea nelle Lezioni come il carattere liberale del protestantesimo fosse in realtà il prodotto del suo progressivo assoggettamento allo Stato, che vide in esso principalmente un mezzo per combattere l’influenza della Chiesa cattolica e sottomettere la religione alla potestà statuale[19].
Contemporaneamente, l’avvento della modernità era infatti coinciso per il professore di Basilea con l’inizio di un processo di espansione dello Stato, descritto, sempre nelle Lezioni, tanto dal punto di vista interno quanto da quello esterno, dal momento che a partire dalla fine del XV secolo l’attenzione degli europei si spostò dall’Oriente delle Crociate all’Occidente americano e da lì al resto del globo[20]. La massima identità tra Stato moderno e potere coercitivo sarebbe stata raggiunta con la monarchia di Luigi XIV in Francia, per Burckhardt più mongolica che europea[21]. I reiterati tentativi di ridurre il continente ad unità sotto il profilo politico, religioso e sociale, livellando il suo carattere peculiare dato dalla pluralità culturale, sarebbero stati invece sventati dall’Olanda e dall’Inghilterra, tenaci avversari della Spagna imperiale e in seguito della Francia[22].
Venne poi pubblicato il Contrat social, un avvenimento considerato dallo storico svizzero più importante della Guerra dei Sette anni, che fece cadere lo Stato sotto il dominio della riflessione e dell’astrazione filosofica, introducendo l’idea della sovranità popolare[23]. A rendere inconciliabile il pensiero di Burckhardt con la riflessione di Rousseau è soprattutto l’impossibilità di addivenire a un’antropologia positiva, derivata dal fatto che egli considerava gli uomini uguali a sé stessi sia in pace che in guerra, sempre soggetti alla loro miseria[24]. Dall’altra parte, il professore di Basilea riteneva che, anche in totale assenza dello Stato, il diritto potesse tuttavia esistere come costume, come accadeva presso le tribù degli antichi Germani; egli non considerava quindi il primo come unico presupposto del secondo[25].
Sotto questo punto di vista, Burckhardt guardava alla Rivoluzione francese ‒ «La révolution dévore ses enfants»[26] ‒ come alla continuazione del processo innescato dallo Stato assoluto. In proposito Hajo Holborn, nella postfazione all’edizione americana de La civiltà del Rinascimento in Italia, ha avuto modo di affermare come nessun altro pensatore del XIX secolo avesse avuto la stessa capacità predittiva in merito alla correlazione fra totalitarismi novecenteschi e sviluppo della moderna società di massa, allora ancora in potenza[27]. Per Burckhardt infatti la Rivoluzione, le cui realizzazioni non poterono essere negate dalla Restaurazione dopo il 1815, aveva determinato una crisi nella concezione dello Stato, ora messo costantemente in discussione dal basso e dalla pretesa di un continuo mutamento della sua forma in base alle formulazioni dei pensatori politici. Di contro, però, questi ultimi chiedevano un sempre più ampio potere coercitivo, in modo da dare realizzazione ai propri programmi, realizzando così la più totale sottomissione del singolo all’universale[28].
Il professore di Basilea faceva dipendere ciò dalla graduale assuefazione alla completa tutela dell’individuo da parte dello Stato, che finiva per annientare ogni iniziativa. In questo modo si chiedeva ad esso di risolvere tutti i problemi, con il risultato che, al primo spostamento dei rapporti di forza, da esso si sarebbe preteso tutto[29]. Il rischio intrinseco alla «cosiddetta democrazia» era quindi rappresentato per Burckhardt dal fatto che l’autorità dello Stato sul singolo non fosse per essa mai abbastanza, cancellando tutti i limiti tra lo Stato e la società ed esigendo allo stesso momento dal primo quanto la seconda non avrebbe mai fatto. Al contempo, come detto, si manteneva il tutto in una costante situazione di discussione e di mobilità, rivendicando solamente per singole caste uno speciale diritto al lavoro e alla sussistenza[30].
Queste considerazioni portavano lo storico svizzero alla conclusione che nel futuro gli uomini di Stato non avrebbero più cercato di combattere la “democrazia”, bensì di tenerne conto e di darle attuazione nel modo più inoffensivo possibile. Essa avrebbe finito così per diventare uno strumento attraverso il quale difendere la forza e l’estensione dello Stato, risultando indiviso il senso democratico da quello del potere – fatto che, egli riteneva, soltanto l’astrazione dei sistemi socialisti poteva continuare a negare[31].
Come sottolineato da Löwith, per Burckhardt l’avvento della politica di massa avrebbe determinato la fine dello Stato di diritto, che si sarebbe trovato stretto tra le due morse di una tenaglia: «il quarto stato dal basso e il militarismo dall’alto»[32]. Secondo quanto espresso nelle Lezioni, infatti, l’adozione del concetto di eguaglianza aveva una pesante contropartita, in quanto essa avrebbe portato alla totale abdicazione dell’individuo, data la difficoltà di trovare singoli disposti a difendere un bene quanto più esso è diffuso. Così, vigendo un’unica autorità statale, sarebbe stato impossibile realizzare qualsiasi decentramento, poiché popoli e governi avrebbero continuato a desiderare un potere illimitato all’interno, al di là di ogni discorso sulla libertà[33]. Parallelamente, la Rivoluzione aveva poi portato in dote un nuovo dispotismo, diverso da quello dinastico, incarnatosi storicamente nel cesarismo napoleonico. I popoli che avevano sperato di poter fondare un mondo nuovo, concentrando tutto il potere statale nelle loro mani, stanchi di lottare, avrebbero smesso di credere ai principi sottomettendosi volontariamente ad un salvatore[34].
Nell’ottica di quanto detto, infine, Burckhardt, stimava che le spese occorrenti a soddisfare le esigenze dell’opinione pubblica e del militarismo prodotto dalla nuova idea di nazione avrebbero costretto sempre più lo Stato a finanziarsi con il debito pubblico, facendolo diventare in questo senso l’«impostore principe». Esso avrebbe infatti anticipato a tal fine le prestazioni del futuro e lasciato ai posteri il compito di onorare perpetuamente il debito, facendosi forte del fatto che la nazione non lo avrebbe mai potuto lasciar fallire[35].
In conclusione, possiamo affermare che le lezioni sulla Storia di Burckhardt risultano quanto mai attuali. Non solo in esse si può trovare la definizione di una professione ‒ oltre che del significato e del senso di una disciplina ‒ allora ancora in pieno sviluppo, che ha superato la prova del tempo e le terribili catastrofi del secolo scorso in maniera migliore di molte formulazioni coeve, grazie soprattutto alla centralità data dallo storico svizzero all’essere umano e alle sue creazioni all’interno della propria produzione. La riflessione offerta da Burkhardt sul processo di massificazione della società nel contesto della Rivoluzione industriale ottocentesca e della democratizzazione delle istituzioni risulta infatti un importante momento di confronto in un’epoca in cui le strutture politiche formatesi essenzialmente in quel periodo sono sfidate nuovamente dal rapido progresso tecnologico. I rischi palesati da Burckhardt, connessi all’avvento della contemporaneità politica e sociale, e che si sarebbero manifestati in tutta la loro drammaticità nel corso della stagione totalitaria, rimangono un severo monito sulla fragilità del costituzionalismo liberale e dello “Stato di diritto” – nuovamente insidiati, dopo un’epoca di trionfi, dall’avanzata dei sistemi autoritari.
[1] Felix Gilbert, History: politics or culture? Reflection on Ranke and Burckhardt, Princeton University Press, Princeton 1990.
[2] Joachim Fest, Jacob Burckhardt. La tragica e meravigliosa commedia della storia, in Jacob Burckhardt, Considerazioni sulla Storia universale, SE, Milano 2002.
[3] Karl Löwith, Jacob Burckhardt, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 303-304.
[4] Jacob Burckhardt, Considerazioni sulla Storia universale, cit., pp. 202-206.
[5] Id., Lezioni sulla storia d’Europa, SE, Milano 2009, pp. 43, 263, 261. Su Tamerlano vedi Id., Considerazioni sulla Storia universale, cit., p. 123.
[6] Ibidem, cit., p. 14.
[7] Sul punto si veda anche K. Löwith, Jacob Burckhardt, cit., pp. 332-334.
[8] Jacob Burckhardt, Lezioni sulla storia d’Europa, cit., p. 241.
[9] Karl Löwith, Jacob Burckhardt, cit., p. 177.
[10] Jacob Burckhardt, Considerazioni sulla Storia universale, cit., p. 87.
[11] Id., Lezioni sulla storia d’Europa, cit., p. 174.
[12] Benedetto Croce, Teoria e storia della storiografia, Adelphi, Milano 2011, p. 14.
[13] Karl Löwith, Jacob Burckhardt, cit., pp. 334-335.
[14] Joachim Fest, Jacob Burckhardt, cit., p. 258.
[15] Jacob Burckhardt, Considerazioni sulla Storia universale, pp. 180-181.
[16] Felix Gilbert, History: politics or culture?, cit., pp. 51 e segg.
[17] Jacob Burckhardt, Considerazioni sulla Storia universale, pp. 29-30.
[18] Karl Löwith, Jacob Burckhardt, cit., p. 316.
[19] Jacob Burckhardt, Lezioni sulla storia d’Europa, cit., p. 114.
[20] Ibidem, p. 89.
[21] Id., Considerazioni sulla Storia universale, cit., p. 96.
[22] Id., Lezioni sulla storia d’Europa, cit., pp. 172-173.
[23] Id., Considerazioni sulla Storia universale, cit., p. 130.
[24] Ibidem, p. 160.
[25] Ibidem, p. 89.
[26] Ibidem, p. 173.
[27] Hajo Holborn, Afterword, in Jacob Burckhardt, The Civilization of the Renaissance in Italy, Modern Library, New York, 2002, p. 390.
[28] Jacob Burckhardt, Considerazioni sulla Storia universale, cit., p. 132.
[29] Ibidem, p. 98.
[30] Ibidem, p. 187.
[31] Ibidem, p. 192.
[32] Karl Löwith, Jacob Burckhardt, cit., p. 226.
[33] Jacob Burckhardt, Lezioni sulla storia d’Europa, cit., pp. 226-227.
[34] Ibidem, p. 228.
[35] Ibidem, p. 182.