Jean Monnet e l’arte della politica europea
- 12 Maggio 2017

Jean Monnet e l’arte della politica europea

Scritto da Emanuele Monaco

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Quando si scrive un profilo di Jean Monnet, di solito, si comincia con l’elencare la lunga serie di successi e obiettivi raggiunti da questo brillante francese, tracciando anche un racconto quasi mitico della sua vita ed esperienza politica. Qui invece l’obiettivo è un altro. Questo testo vuole essere un breve viaggio alla conoscenza dell’uomo Monnet e delle sue idee, un’analisi dell’integrazione europea con al centro il suo forse più grande ispiratore, un uomo che, prendendo in prestito il lessico di Dimitrios Christoupulos[1], io definisco un “imprenditore politico”, cioè che davanti a sfide eccezionali spicca tra i suoi pari per il suo innato pensiero strategico e l’abilità di manipolare e dare forma ai processi storici.

 

Monnet il grande tessitore

In realtà nessuno, nella lunga serie di biografie e saggi pubblicati sulla sua vita, è riuscito a definire in modo netto l’occupazione di Jean Monnet, un titolo con cui descrivere il suo posto nel mondo, il che è un limite ma anche un’opportunità. Ci permette, cioè, di apprezzare maggiormente il modo in cui egli sia riuscito ad essere l’eminenza grigia dietro il processo di integrazione europea, senza però aver mai firmato un documento istituzionale o un trattato. Monnet non ricoprì mai un incarico politico, né fece mai parte di un partito, ma la sua capacità di dare forma agli eventi dell’Europa post-bellica non ne ha mai risentito. Ciò che gli dava potere era un’incredibile abilità di creare connessioni con figure chiave nelle amministrazioni dello spazio atlantico. Egli era al centro di un network sovranazionale nato soprattutto grazie alla sua incredibile abilità di ottenere l’attenzione dei leader occidentali, convincendoli dell’utilità delle sue idee e spesso persuadendoli ad adottarle in toto. Già, perché Monnet era principalmente un uomo di idee, oltre che di integrità, intelligenza e grande magnetismo. Lasciando parlare un altro grande architetto dell’integrazione europea, Robert Marjolin, «sapeva come combinare, quando necessario, il potere delle idee con il suo personale charme, la sua gentilezza e tatto che disarmavano le persone con cui si approcciava»[2]. Grazie al suo carisma e anche al fatto che tutti sapevano che non ambiva a cariche pubbliche o riconoscimenti ufficiali (quindi, in pratica, non costituiva una minaccia per nessun uomo politico), riusciva ad attrarre e a far lavorare insieme i più abili politici europei e americani della sua epoca. Da studioso che non ha mai conosciuto, come spesso accade, il suo soggetto di ricerca, anche chi scrive rimane sempre più affascinato dal potere che Monnet riusciva ad ottenere grazie alla presa che egli aveva sulla persone che lo circondavano, persino i suoi nemici. Naturalmente un esercizio intellettuale molto ovvio e inevitabile è un confronto con un altro francese che costituisce una colonna portante del XX secolo: Charles de Gaulle. Le differenze di metodi, idee e fini aiutano anche a spiegare i diversi destini dell’Europa contemporanea e offrono anche una chiave di lettura al dibattito, soprattutto francese, attuale sull’Europa. Le divergenze più ampie tra i due erano nelle radici del loro potere. De Gaulle era un brillante militare e un leader naturale, un oratore di talento, un uomo che dello Stato-nazione aveva fatto, come di norma per i politici francesi, un culto. Egli aveva un intuito quasi geniale nel gestire le crisi e la contingenza, cosa che lo rendeva vincente in un Francia da ricostruire dopo il disastro bellico. Al contrario Monnet faceva derivare la sua influenza e potere da quello straordinario tessuto di relazioni con ufficiali, politici, giornalisti del mondo occidentale, nato dal suo passato imprenditoriale. Il suo pragmatismo non era basato sul culto dello Stato, ma sulla convinzione che l’economia, una forza di natura innovativa e riformatrice, era la più capace in quel momento storico di ottenere il cambiamento politico necessario all’Europa unita. Se De Gaulle, quindi, era più impegnato a capire cosa la Francia poteva ottenere dall’integrazione europea, Monnet era concentrato nel costruire un’ideale che costituiva allo stesso tempo la morte e la naturale evoluzione dello Stato-nazione. Egli vedeva in ciò l’unico modo per rispondere in modo lucido e razionale ad un mondo sempre più connesso, complesso e globalizzato. Aveva capito che senza l’edificazione di una struttura sovranazionale superiore allo Stato, la storia europea avrebbe di nuovo incontrato il caos e il disorientamento portato dal nazionalismo. Se volessimo far rientrare entrambi nella storia del pensiero politico francese (come ha cercato di fare lo storico Jean-Claude Casanova), De Gaulle rientrerebbe maggiormente nella tradizione filosofica di Rousseau, mentre Monnet somiglierebbe molto a Montesquieu, con la sua attenzione all’apertura, al dibattito politico e allo scambio.

Determinante, per Monnet, fu quello che Charles de Gaulle non riuscì mai ad ottenere, cioè un rapporto personale, professionale e profondo con membri dell’establishment americano. Il rapporto con gli Stati Uniti influenzò tutta la sua vita, comprese le sue idee, e aiutò come non mai la causa dell’integrazione europea. Avendo conosciuto l’America prima come venditore di cognac negli anni Dieci, cominciò da subito a costruire relazioni con personalità in ascesa dell’ambiente diplomatico e del Dipartimento di Stato. Questo gli permise, durante la seconda guerra mondiale, di avere accesso, come consigliere dell’amministrazione Roosevelt inviato dal British Supply Council (Monnet fu uno degli artefici del piano industriale bellico che consentì agli alleati di riprendere l’offensiva già nel 1942), all’influente mondo dei circoli politici e legali di New York e Washington. Egli sapeva che la sua missione era di far comprendere alle élite americane che la prospettiva di un’unione di stati europei era funzionale come argine all’espansionismo sovietico e alla prospettiva di una nuova guerra, e avendo relazioni pregresse che andavano oltre l’ufficialità della politica transatlantica, il compito non gli risultò molto difficile. Monnet, un po’ lobbista, un po’ stratega politico, riuscì a diventare il centro di una rete di connessioni tra le due coste dell’Atlantico grazie alle sue abilità relazionali, facendo da “traduttore” delle istanze europee in America e viceversa. Tanto che, come Monnet stesso usò i suoi contatti nell’amministrazioni Roosevelt e Truman per nutrire e coltivare il supporto americano per la causa europea, così il Dipartimento di Stato a Washington si servì di lui per raggiungere i propri obiettivi diplomatici post-bellici. Si può ben dire, come negli anni Ottanta dichiarò Alfred Grosser, che, dagli anni Quaranta fino a quando Charles de Gaulle non prese il potere nel 1958, agli occhi degli americani esisteva solo l’Europa di Jean Monnet.

 

L’architetto dell’Europa unita

Ma qual era esattamente questa Europa? In sintesi, un continente, almeno ad ovest dell’Elba, integrato ed unito, governato da istituzioni sovranazionali, prospero e stretto alleato degli Stati Uniti. Argomentando ulteriormente, se volessimo, con un esempio, descrivere il tipo di Europa che negli anni Monnet aveva immaginato, niente sarebbe più efficace della sua più riuscita creazione: la CECA (la Comunità europea del carbone e dell’acciaio). Egli sapeva qual era la più grande debolezza delle esperienze precedenti nella costruzione di istituzioni internazionali, cioè la loro incapacità di queste di andare oltre alle buone intenzioni e i nobili scopi quando questi non erano sufficienti. In sostanza, l’impossibilità di influenzare e implementare un efficace strategia politica. Ciò aveva provocato il fallimento della Società delle Nazioni, per cui Monnet lavorò tra le due guerre. La Ceca, quindi, doveva essere la dimostrazione che era possibile costruire qualcosa di superiore allo Stato, ma in cui gli stati potessero comunque giocare un ruolo. Era la prima volta che un’istituzione sovranazionale non imperiale o egemonica aveva il potere di prendere precise decisioni politiche applicabili in un’area geografica definita. Il passo decisivo fu convincere gli stati europei a cedere parte della propria sovranità in certi precisi ambiti (in questo caso le politiche sulla produzione di carbone e acciaio) ad una struttura sovranazionale, incorporando però i tre principi che poi furono la base e l’anima della costruzione della futura Unione Europea: l’uguaglianza degli stati membri, l’indipendenza delle istituzioni comunitarie dagli stati nazionali e la collaborazione di queste in una struttura orizzontale, non in una fatta di rapporti di subordinazione (è il cosiddetto “metodo comunitario”). Ciò rappresentò una rivoluzione nella storia delle relazioni internazionali europee, introdusse e riabilitò il concetto di sovranazionale nei rapporti intercontinentali, facendo interagire i rappresentanti delle sei nazioni della Ceca in un sistema completamente nuovo. Cambiando così il contesto dove avvenivano le decisioni riguardanti produzioni industriali strategiche, la comunità europea dimostrava che il compromesso era possibile in un ambiente di continuo dialogo. E, infine, ciò servì come dimostrazione ultima che la cooperazione in singoli ambiti dell’economia e della politica industriale, oltre a provvedere a soluzioni unitarie a problemi comuni, garantiva da una parte un argine al nazionalismo, e dall’altra la possibilità agli stati di rimanere indipendenti anche in un contesto di cessione di sovranità nazionale. La costruzione della Ceca prima e della CEE dopo rappresentavano la realizzazione di un’idea che caratterizzò l’intera attività politica di Monnet, cioè che la pace in Europa non poteva essere raggiunta con gli strumenti tradizionali dei trattati tra nazioni ma, piuttosto, con la creazione di condizioni che, non pretendendo affatto di cambiare la natura dell’uomo, «conducano gli Stati ad attitudini pacifiche e dialoganti nei confronti degli altri»[3]; portando, in sintesi, le nazioni a confrontarsi in un contesto di regole e azioni comuni, egli credeva che un nuovo spirito di cooperazione e unione avrebbe portato ad uno sforzo comune di pace.

 

Monnet e la teoria politica

Negli anni, molti hanno voluto attribuire a Monnet la paternità delle proprie teorie sull’integrazione europea, dai neofunzionalisti ai federalisti[4] ma io ritengo che inserire il Francese in delle categorie di pensiero etichettate sia molto riduttivo.  Forse il più grande tentativo in tal senso lo fece il politologo Ernst B. Haas, il grande teorizzatore del cosiddetto “neofunzionalismo”. Egli usava i concetti già teorizzati in precedenza da studiosi funzionalisti come Mitrany per analizzare il processo di integrazione europea. In breve, attraverso una iniziale integrazione di un preciso settore economico, la sua teoria spiega che si genererebbe una dinamica espansiva (come con un sasso in uno stagno) che porterebbe all’interdipendenza di sempre più settori e, quindi, a livelli d’integrazione sempre maggiori che travalichino l’ambito economico, fino a entrare in quello politico (concetto chiamato anche spill-over), generando contrappesi tali all’azione degli stati da rendere l’integrazione tra essi possibile[5].

È facile leggere in queste righe la strategia ultima del progetto della CECA, una specie di grimaldello capace di infiltrare forzatamente l’integrazione nell’agenda politica continentale. Il motivo è semplice e sta nel fatto che la CECA, come la CEE dopo di essa, aveva lo scopo di trascendere lo Stato-nazione, ma non nei modi e strutture teorizzate dai federalisti. Esse erano intrinsecamente frammentarie, come scriveva Stanley Hoffmann[6] recensendo il lavoro di Haas negli anni Settanta, e istituzionalmente tecnocratiche, più che democratiche. E infatti il termine “funzionalista” ancora viene usato oggi per descrivere Jean Monnet. Tuttavia chi lo conosceva bene, come il suo biografo François Duchene, spese molte parole per descrivere come egli disprezzasse la teoria politica accademica e l’ideologia fine a se stessa. Questo, secondo lui, per non trovarsi legato a limitanti definizioni formali risultato di analisi a posteriori. Effettivamente leggendo le sue memorie si comprende quanto Monnet in realtà non si trovasse a suo agio con il termine “funzionalista” affibbiatogli dalla ricerca sociologica e storica, come unica spiegazione del suo agire e pensare. E lo stesso si può ben dire dell’aggettivo “federalista” a volte usato per descriverlo. Sebbene una qualche forma di federazione europea fosse il fine ultimo di ogni persona che lavorò al progetto di integrazione dopo la guerra, egli si dimostrò più volte sospettoso e cauto riguardo il termine (lo stesso si può dire di “sovranazionale”). Secondo il suo biografo infatti egli disprezzava tutto ciò che poteva interferire con il raggiungimento di un compromesso capace di risolvere un conflitto, ideologie comprese, in quanto avevano il potere di «tarpargli le ali prematuramente e non permettergli di esplorare l’ignoto con l’inventiva richiesta»[7]. Al caro Duchene si potrebbe replicare (ed è stato fatto) che fu proprio Monnet ad usare tutti questi concetti più volte in discorsi e scritti. Fu proprio lui per esempio a inserire il concetto di federalismo nella Dichiarazione Schuman, senza che questo fosse di alcuna utilità allora.

Quindi ci troviamo davanti ad un cinico animale politico capace di usare le ideologie come pezzi di una enorme e intricata scacchiera? Qualcuno, come Dismond Dinan, potrebbe metterla in tali termini ma a me piace pensare che il motivo di così scarsa chiarezza ideologica nell’agire di Jean Monnet sia un altro. E si riconduce a quello che ho scritto sopra. Monnet era una persona cresciuta nel culto del pragmatismo, un imprenditore anche in politica, e la chiave della sua azione quindi è sempre stata il dinamismo, una flessibilità capace di scardinare la staticità e la fermezza delle posizioni più ideologizzate, usando ogni mezzo politico a disposizione. E questo significava anche non sposare nessun metodo o termine a priori. Questa forse potrebbe sembrare un’apologia quasi post-ideologica del Francese, un manifesto della superiorità della cosiddetta “politica concreta” sulla teoria, ma non è così. Egli rispondeva alle necessità di un tempo storico particolare in cui fu chiamato a risolvere questioni molto spinose in modo creativo, in cui le sue capacità di sintesi delle posizioni più lontane aiutarono il dialogo tra paesi distrutti dalla guerra e gli Stati Uniti, pronti a finanziare la loro ricostruzione solo con le dovute garanzie. E sono queste capacità che gli consentirono di evolvere nel suo pensiero e strategia, sorprendentemente senza per questo sconfessarsi o perdere di autorità (come ad esempio per il mercato unico, prima avversato e poi, davanti ai risultati economici della comunità europea dopo il 1958, sposato appieno). E questa era una categoria applicata anche alle istituzioni immaginate dall’imprenditore del Cognac, dinamiche, in costante evoluzione, flessibili davanti a cambiamenti epocali. Ma quello che Monnet forse non aveva compreso, e che oggi ancora non è pienamente recepito dalle élite europee, è che non bastava il pragmatismo “tecnocratico” a costruire il progetto europeo, anche se ne era stato il motore propulsore. Sebbene ritengo che non ci fosse altra strada per l’integrazione europea che non quella di essere usata come soluzione per risolvere il problema franco-tedesco (e qui il merito è di Monnet per averlo capito), fu necessario, per far continuare un progetto così ambizioso, “teorizzare” a posteriori le azioni e gli eventi di quegli anni. È dopotutto compito di chi possiede una cultura politica costruire l’impianto ideologico, e a volte anche utopico, che possa poi giustificare, recepire ed accogliere l’agire del “pragmatico”.

Tuttavia, anche se di Monnet non si può che avesse una forte cultura politica, anche lui aveva sviluppato la sua versione di “sogno europeo”. Diversamente dai più incalliti funzionalisti, egli credeva che fossero le istituzioni politiche la forza vitale capace di cementare relazioni e di creare i contrappesi democratici ad ogni abuso di potere. Il suo sogno era di fare della comunità internazionale una “società politica”, una rete di nazioni governate da istituzioni comuni sotto la legge. Riprendendo le sue stesse parole, la nuova Europa non poteva che essere costruita nello stesso modo in cui accadde per le nostre comunità nazionali, «creando tra le nazioni le stesse relazioni che esistono tra le diverse anime, identità e gruppi di uno Stato democratico: uguaglianza, libertà e fraternità garantite da istituzioni comuni»[8]. Solo alla fine di questo lungo articolo forse mi rendo conto quindi della portata quasi mitica dell’esperienza di Jean Monnet, un uomo capace di plasmare gli eventi di un’Europa risvegliatasi dal suo peggiore incubo, padre fondatore di un progetto ambizioso argine di ogni futuro catastrofico nazionalismo. Egli è la dimostrazione che la politica come arte può davvero essere usata per rendere il mondo un posto migliore.


[1] Christoupulos D. (2006), Relational Attributes of Political Entrepeneurs, a Network Perspective, Journal of European Public Policy, vol. 13 no 5, pp. 757-778.

[2] Marjolin R. (1989), Architect of European Unity: Memoirs 1911-1986, London, Weidenfeld and Nicolson, p. 173.

[3] Monnet, J. (1978), Memoirs, New York, Doubleday, p. 432.

[4] Per chi fosse interessato, il dibattito è ancora aperto sulla questione che il Metodo Comunitario sui cui si basano le istituzioni europee sia attribuibile a Monnet stesso, o che sia un classico caso di un processo storico teorizzato a posteriori (Desmond Dinan ritiene anzi che la CECA sia stata soltanto una partita di potere raccontata con la retorica dell’Europa unita). Ognuno è arrivato ad una conclusione diversa basandosi sulla propria teoria riguardo la natura del pensiero politico di Monnet, che sia federalista, funzionalista o un ibrido dei due. Per approfondire le posizioni: Burgess, M. (1989), Federalism and European Union, London, Routledge; Holland, M. (1996), Jean Monnet and the Federal Functionalist Approach to European Union, in P. Murray e P. Rich (eds), Visions of European Unity, Boulder, CO: Westview.

[5] Non serve specificare che una tale teoria si sia dimostrata fallace alla prova dei fatti (come con la cosiddetta “crisi della sedia vuota” del 1965, durante la quale la Francia di de Gaulle bloccò con il boicottaggio l’attività della Commissione delle Comunità Europee pur di non far approvare il progetto di bilancio comune), con il fermarsi del processo di integrazione davanti alle rivendicazioni “sovraniste” degli stati nazionali.

[6] Hoffmann S. (1977), Review of the Uniting of Europe: Political, Social and Economic Forces, 1950-57, by Ernst Haas, Foreign Affairs 76 n.5;

[7] Duchene, F., intervista di Sherrill Brown Wells, 20 Settembre 1994.

[8] Monnet, Memoirs, p. 433.

Scritto da
Emanuele Monaco

Classe 1990. Dottorando in storia contemporanea presso l’Università di Bologna. Dopo aver studiato presso l’Università Federico II di Napoli, l’Università di Bologna e la Paris I Sorbonne di Parigi, ha lavorato a Londra. Si occupa di storia europea, relazioni transatlantiche e storia di genere

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