La jihad, la violenza e noi “Generazione Isis” di Olivier Roy
- 03 Luglio 2017

La jihad, la violenza e noi “Generazione Isis” di Olivier Roy

Recensione a: Olivier Roy, Generazione Isis: Chi sono i giovani che scelgono il Califfato e perché combattono l’Occidente, Feltrinelli, Milano 2017, pp. 128, 14 euro (scheda libro)

Scritto da Matteo Rossi

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Secondo Max Weber il compito delle scienze sociali consiste nella comprensione del senso che gli attori attribuiscono alle proprie azioni. La violenza terrorista che colpisce l’Europa ci spaventa soprattutto perché non sappiamo decifrarne la logica, perché ci appare assurda, perché lascia in noi una sensazione di straniamento, apparendo insieme estremamente arcaica ed estremamente moderna, insieme simile e altra rispetto al nostro universo simbolico. Il saggio di Olivier Roy, Le djihad et la mort, pubblicato nel 2016 (e recentemente tradotto presso Feltrinelli con il titolo Generazione Isis), cerca proprio di studiare il senso che i giovani jihadisti europei attribuiscono alla propria azione di violenza, le loro caratteristiche sociologiche ricorrenti, il loro immaginario e il rapporto che li lega alle organizzazioni jihadiste mediorientali.

 

Profilo sociologico dei terroristi

Secondo Roy tutti gli attentatori che hanno agito in Europa dalla metà degli anni Novanta condividono alcuni tratti ricorrenti. In primo luogo i terroristi sono prevalentemente stranieri di seconda generazione (60%) e convertiti all’Islam (25%) (p.31): si tratta quindi per la maggior parte di giovani individui nati e cresciuti in Europa, provenienti da famiglie sostanzialmente integrate, ma spesso con alle spalle episodi di criminalità comune e un periodo trascorso in carcere.

La loro è una rivolta giovanile: una radicale contestazione di carattere generazionale, compiuta dai figli contro l’autorità dei genitori e la loro interpretazione dell’Islam, considerata tiepida e sottomessa (pp.35-36). È l’immaginario stesso degli jihadisti ad essere giovanilista, impregnato di un’estetica della violenza assolutamente contemporanea e supportata dalle tecnologie comunicative più avanzate: un’estetica in cui la rappresentazione della morte e la messa in scena narcisistica di se stessi in azione risultano decisive e collegate a dinamiche generali della comunicazione contemporanea (p.59). Lungi dall’essere arcaici e primitivisti, insomma, i terroristi appaiono pienamente figli del proprio tempo e delle società in cui sono cresciuti: «il jihadismo, almeno in Occidente (ma anche in Maghreb e Turchia), è un movimento di giovani che (…) risulta inscindibile dalla “cultura giovanile” delle nostre società» (p.10).

Sul piano religioso, sia i convertiti sia coloro che provengono da famiglie musulmane sono però dei born again (p.32), che riscoprono la fede dopo una vita profana o comunque lontana dai precetti islamici: non si tratta, quindi, di individui educati alla religione o praticanti. Il percorso di conversione o riconversione è tendenzialmente rapido e precede di poco il passaggio all’azione, ma non necessariamente comporta uno stravolgimento dello stile di vita (i fratelli Abdeslam, ad esempio, gestivano un locale a Molenbeek in cui servivano alcolici e frequentavano discoteche fino a dieci giorni prima dell’attentato al Bataclan). Il passaggio alla religione è compiuto in sostanziale isolamento rispetto alla comunità circostante, individualmente tramite internet o in gruppi ristretti di amici o fratelli.

Roy sottolinea il carattere autarchico dei gruppi radicalizzati, il loro sfasamento rispetto alla comunità, dalla quale non sono quasi mai compresi o sostenuti: i jihadisti non rappresentano l’avanguardia di un fenomeno comunitario, non hanno alle spalle alcun movimento sociale di sostegno e sono spesso allontanati dalle moschee dei loro quartieri (pp.41-42). L’isolamento dei radicalizzati rispetto al proprio ambiente circostante testimonia l’infondatezza delle tesi per cui i terroristi sarebbero prodotto esclusivo delle banlieue, tesi che sopravvalutano l’influenza delle origini spaziali nella loro formazione. Anche le rivolte delle banlieue parigine non sono mai state “islamizzate”, essendo piuttosto paragonabili ai riot di altre città europee e americane. In questo senso, per Roy, non esiste un profilo socio-economico tipico del terrorista. Non sarebbe la posizione di classe a influire sul passaggio all’azione violenta: in molti casi i convertiti provengono dalla provincia, dalle piccole città o dalla campagna, spesso da famiglie integrate e in alcuni casi hanno conseguito un titolo di studio. La banlieue povera resterebbe un luogo privilegiato di reclutamento ma solo a causa della concentrazione in essa delle seconde generazioni (pp.44-48).

 

Jihadismo e nichilismo: la violenza come fine

Il jihadismo contemporaneo rappresenta un’innovazione dottrinale e una distorsione dell’idea tradizionale di jihad, che, da prescrizione collettiva e facoltativa propria di tempi di crisi, diventa un obbligo individuale e permanente, legato al sacrificio di sé dell’attentatore (pp.22-23). Jihad, in origine, non significa terrorismo e terrorismo non significa necessariamente azione suicida: come tutte le religioni monoteiste, infatti, anche l’Islam condanna il suicidio come una violazione del dono divino della vita (p.12).

Per Roy l’elemento più rilevante e innovativo del jihadismo e del terrorismo contemporanei è proprio la scelta sistematica e deliberata della morte in azione, anche laddove questa non sia necessaria per il successo dell’attacco: la morte in azione rappresenta il cuore e il significato principale dell’attentato (pp.9-10).

Questa dimensione funebre e suicida trasforma la violenza contro gli altri e contro se stessi in un fine in sé. L’unico obiettivo dei terroristi contemporanei sembra così essere la propria morte: la violenza jihadista rifiuta la politica (p.12).

«Il Califfato è un miraggio: è il mito di un’entità ideologica in continua espansione territoriale. La sua impossibilità strategica spiega perché coloro che con esso si identificano, anziché orientarsi verso gli interessi delle comunità musulmane locali, si identifichino in un patto di morte. Non esiste alcuna prospettiva politica, alcun avvenire radioso» (p.12).

È proprio questo che ci rende difficile comprendere il senso dell’azione terrorista: le sue caratteristiche mettono in crisi tutte le categorie teoriche con cui siamo abituati a studiare e pensare la violenza. Siamo abituati a interpretare la violenza politica come uno strumento di lotta politica messo in atto da un gruppo organizzato contro un avversario chiaramente identificato, come un mezzo per raggiungere obiettivi politici in termini di potere. Ciò che conta, in questa prospettiva, sono gli scopi politici dell’azione, mentre la violenza e la sua minaccia sono i modi per ottenerli, anche tramite processi di contrattazione.

La violenza jihadista, al contrario, non è violenza collettiva e organizzata: in molti casi gli attentatori agiscono autonomamente dalle organizzazioni a cui si ispirano idealmente, agiscono individualmente o in piccoli gruppi tra loro scollegati, in assenza di una strategia politicamente definita. La violenza jihadista non ha obiettivi politici definiti in termini di potere, né da parte degli attentatori né da parte di Isis e al-Qaeda, in quanto mancano richieste o minacce puntuali in seguito agli attentati. Le rivendicazioni sono sempre generalizzate e assolute, rendendo impossibile qualsiasi negoziato, anche laddove la controparte fosse disponibile a intavolarlo. Anche il nemico non è identificato, o meglio, è generalizzato al punto da essere astratto e indefinibile: tutti i governi e tutti i popoli occidentali.

Risulta in questo senso difficilmente condivisibile il parallelo che Roy istituisce tra jihadisti e militanti dell’estrema sinistra rivoluzionaria degli anni Settanta. In primo luogo perché quei militanti erano utopisti molto più che nichilisti e nessuna organizzazione praticante la lotta armata di sinistra ha mai professato l’autolesionismo o il martirio, ma soprattutto perché in quei casi (Roy cita, tra gli altri, Che Guevara e le Brigate Rosse) erano presenti precisi obiettivi politici e le azioni violente erano finalizzate a ottenere risultati concreti e puntuali. Da questo punto di vista appare molto più rilevante accostare gli jihadisti con i giovani stragisti delle scuole americane. Si tratta in entrambi i casi di un bisogno profondo di violenza e autodistruzione, che nel caso del jihadismo trova un rivestimento ideale per collegarsi a un movimento internazionale, ma che nasce dalla stessa disperazione.

Secondo Roy, i giovani terroristi non troverebbero nel jihadismo quella che Renzo Guolo definisce “l’ultima utopia” dopo la fine delle utopie novecentesche, ma una narrazione nichilista che dà una risposta al loro bisogno senso. Anche coloro che partono per combattere nelle terre del Califfato in Siria e Iraq, «arrivano non per vivere ma per morire. Qui sta il paradosso: questi giovani radicali non sono utopisti, sono nichilisti in quanto millenaristi. Il domani non sarà mai all’altezza del crepuscolo. Si tratta della generazione no future. (…) La fascinazione per la morte è legata alla prospettiva dell’apocalisse in quanto non si crede all’avvenire radioso e la sola prospettiva è costituita dalla guerra, dalla morte e dal giudizio finale, prima per se stessi, poi per l’umanità» (pp.64-65). Il loro suicidio diventa quindi messianico, anticipa ciò che avverrà con l’apocalisse al resto dell’umanità, e rende collettiva la loro traiettoria nichilista (p.67).

Così, la violenza jihadista non è né razionale rispetto allo scopo, né razionale rispetto al valore. Per restare nello schema weberiano può al limite essere interpretata come azione affettiva. Gli jihadisti non uccidono in nome di ciò in cui credono, ma credono a causa dell’impulso a uccidere.

 

Olivier Roy e l’islamizzazione della radicalità

La tesi fondamentale di Roy sul rapporto tra fondamentalismo religioso e radicalizzazione politica consiste nel considerare la fascinazione per morte e violenza come prioritaria rispetto alla dimensione religiosa. I terroristi si radicalizzerebbero politicamente prima della conversione religiosa: hanno una disponibilità alla violenza e un bisogno di morte che precede la fede. Sono le società contemporanee a produrre giovani alienati, disperati e violenti che non vedono altra prospettiva al di là della propria e altrui morte: lo jihadismo fornisce loro l’immaginario e la narrazione in cui inserire e con cui dare senso alla propria determinazione nichilista. Roy ribalta così i termini del dibattito pubblico contemporaneo: il problema sta nella società occidentale contemporanea molto più e molto prima che nell’Islam. Sintetizzando la tesi in una formula: “il terrorismo deriva non dalla radicalizzazione dell’Islam, ma dall’islamizzazione della radicalità” (p.14). Il fondamentalismo religioso non basterebbe di per sé a produrre violenza. I giovani jihadisti non sono religiosi praticanti che diventano violenti perché male interpretano i precetti dottrinali, ma sono individui violenti che trovano una razionalizzazione della propria disperazione in una forma distorta di religione. La radicalizzazione di individui e gruppi, infatti, precede cronologicamente la loro conversione religiosa e il loro reclutamento jihadista (p.50): sviluppano il proprio nichilismo violento prima di convertirsi alla fede.

«Non si radicalizzano perché hanno letto male i testi o sono stati manipolati: sono radicali perché vogliono esserlo, perché è solo la radicalità ad attrarli» (p.52).

La radicalizzazione sarebbe quindi sostanzialmente slegata da cause oggettive, come testimonierebbe, nelle rivendicazioni dei terroristi, l’assenza di un riferimento a conflitti concreti (scarsissimi i riferimenti alla causa palestinese, ad esempio), la sostanziale ignoranza della realtà mediorientale e l’invocazione delle sofferenze di una comunità musulmana globale sostanzialmente immaginaria (p.51-59).

Se la tesi sull’islamizzazione della radicalità e sulla priorità del fattore violento su quello religioso risulta convincente, occorre sottolineare l’assenza di una riflessione sulle cause del fenomeno. Roy rifiuta esplicitamente di affrontare il problema e si limita a sottolineare, come abbiamo visto, l’assenza di un legame tra periferie segregate e jihadismo. Tuttavia, descrivere il profilo dei jihadisti e analizzare la struttura di senso che attribuiscono alla propria azione senza riflettere sul perché le società europee li producano è molto limitante. Per quanto Roy rifiuti di individuare una genealogia coloniale del jihadismo, è difficile pensare che guerre occidentali e dominio coloniale in Medio Oriente non abbiano un ruolo in questi processi.

Un problema ulteriore è poi rappresentato dall’associazione tra radicalità (o radicalizzazione) e disponibilità alla violenza. L’equivalenza tra i due termini, molto diffusa a livello accademico, risulta a nostro avviso fuorviante: esistono radicali non violenti e violenti politicamente non radicali. Porre radicalità e violenza sullo stesso piano appare come un tentativo (politicamente in mala fede) di denotare con un’unica etichetta tutte le forme di contestazione. Ciò che conta nel profilo dei jihadisti è proprio la mancanza di legame tra il loro bisogno di violenza e qualsiasi consapevolezza politica: la loro violenza nasce nel silenzio, nell’impotenza, nell’incapacità di organizzare discorsivamente una radicalità politica.

 

Conflitti in Medio Oriente e terrorismo in Europa

Se lo jihadismo contemporaneo nasce dall’islamizzazione della violenza dei giovani europei di seconda generazione o convertiti, se cioè l’appello alla fede islamica rappresenta la narrazione con cui dare senso a una disponibilità alla violenza già presente e formata in modo autonomo dalla religione, risulta allora necessario politicamente e teoricamente separare due questioni tra loro non collegate. I conflitti in Medio Oriente che oppongo stati musulmani, coalizioni internazionali e Isis sono per Roy un problema slegato dal terrorismo europeo di matrice jihadista: si tratta di fenomeni distinti che hanno origini reciprocamente indipendenti e che vanno affrontati in modo differente.

Isis e al-Qaeda non hanno dovuto creare la violenza dei giovani europei, ma hanno potuto attingere a una riserva di militanti formati in autonomia, sfruttandola per i propri scopi (p.11-12).

«I conflitti del Medio Oriente hanno un carattere profondamente regionale che ha poco a che vedere con una fantomatica guerra planetaria tra le civiltà e di civilizzazione. La jihad globale è del tutto sconnessa dai conflitti mediorientali, e ciò rende assai difficile decifrare la strategia dell’Isis.» (p.103).

Di conseguenza, è necessario prendere atto del fatto che la distruzione delle organizzazioni in Medio Oriente non metterà fine al terrorismo in Europa (p.50): non sarà la sconfitta dell’Isis o di al-Qaeda a porre fine alla violenza nichilista dei giovani europei di seconda generazione, perché non sono stati Isis e al-Qaeda a crearla, ma la società in cui questi giovani sono nati e cresciuti.

Il jihadismo è un fenomeno estremamente contemporaneo che trae le proprie caratteristiche dalla nostra contemporaneità: è un fenomeno giovanile e generazionale in una società giovanilista, un fenomeno individuale e anti-comunitario in una società individualista, un fenomeno che si nutre di immagini e auto-rappresentazioni in una società fondata sull’immagine, è un fenomeno violento che si nutre della violenza e del militarismo della realtà contemporanea.

Dobbiamo quindi iniziare a capire, e il saggio di Roy ci aiuta a farlo, che ben prima di essere terrorismo islamista, quello che colpisce Parigi, Londra, Bruxelles e Berlino, è un terrorismo europeo, fatto da europei contro altri europei. Così, per comprendere il terrorismo contemporaneo, molto prima che alle contraddizioni dell’Islam, dovremmo guardare alle contraddizioni delle nostre società occidentali e capitaliste.

Scritto da
Matteo Rossi

Nato a Genova nel 1993, si è laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Pavia, con una tesi sul rapporto tra esclusione e violenza politica, e si è diplomato in Scienze Sociali presso l’Istituto di Studi Superiori (IUSS) di Pavia. Attualmente frequenta il corso di laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso l’Università di Bologna.

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