“L’alba del Novecento. Alle radici della nostra cultura” di Fabio Fabbri
- 26 Agosto 2022

“L’alba del Novecento. Alle radici della nostra cultura” di Fabio Fabbri

Recensione a: Fabio Fabbri, L’alba del Novecento. Alle radici della nostra cultura, Laterza, Roma-Bari 2022, pp. 320, 24 euro (scheda libro)

Scritto da Luca Picotti

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Non è facile definire il volume L’alba del Novecento. Alle radici della nostra cultura, edito da Laterza, dello storico Fabio Fabbri. Già il solo titolo, connotato da una certa genericità, lascia ampi margini di interpretazione. Non si tratta di una mera ricerca storica sul periodo che va dalla fine dell’Ottocento alla Prima guerra mondiale, quanto piuttosto di un viaggio culturale nelle radici più profonde di quegli anni. Certo, la storia non manca, come testimoniano le numerose pagine dedicate ai Balcani, la “polveriera d’Europa”, o alla competizione sul fronte navale tra Germania e Regno Unito; tuttavia essa rappresenta un tassello di un itinerario più ampio, che sfugge ai limiti della competenza settoriale fine a se stessa, ove le diverse branche del sapere finiscono per essere sorde tra loro, e va ad abbracciare la filosofia, il cinema, l’arte, la letteratura, la fisica, il progresso scientifico. Una disamina delle infinite scoperte che cambiarono la società di allora, delle tensioni che covavano nel sottosuolo culturale, della tecnica che si sposava con la follia. Un libro in grado di appassionare, specie coloro che mostrano una certa sensibilità continentale; perché, dopotutto, è del Vecchio continente che si parla, dei suoi ultimi anni di grandezza, prima di sprofondare nell’orrore.

È impossibile in questa sede ripercorrere l’immenso numero di autori, opere e vicende storiche citate da Fabbri. Il volume stesso si presenta come un tentativo senz’altro ambizioso di recuperare tutto ciò che più, secondo l’autore, ha influenzato la nostra cultura. Lo schema del libro suggerisce, di primo acchito, un percorso temporale scandito da diverse date esemplificative. Il primo capitolo, ad esempio, è titolato “1907. Un anno di grazia” e si apre con l’arte, in particolare di Pablo Picasso e Gustav Klimt, per poi andare a seguire le discussioni progressiste del Circolo di Bloomsbury di Virginia Woolf, insofferente verso un certo provincialismo britannico dell’epoca. Seguono poi capitoli che, seppure contraddistinti da riferimenti temporali, ruotano perlopiù attorno a nuclei tematici (“Dal cinema al nuovo secolo”; “Nuovi linguaggi nella scienza e nell’arte; “Una rivoluzione nella tecnica e nei valori”), in un continuo intreccio di idee, volti e vicende. Dopodiché riappare nuovamente l’illusione di uno schema cronologico, che però sembra tornare indietro rispetto al primo capitolo: “1905. Un anno rivoluzionario”; comincia con Albert Einstein e la teoria della relatività per arrivare poi alla Rivoluzione russa. Seguono due altri capitoli tematici, “L’immaginario artistico e collettivo” e “Il timore della fine”, e si giunge infine, come avvolti in un climax – inquietantemente – discendente, al capitolo “1914. Il crollo della civiltà”. Solo allora si acquisisce una vera e propria consapevolezza del viaggio meta-temporale proposto da Fabbri, ove non è importante tanto l’organizzazione cronologica degli eventi, quanto la rappresentazione del clima culturale di un’intera epoca. Il tempo è sopravvalutato – dopotutto l’autore cita anche Bergson come volto della stagione narrata –, lo schema del libro stesso non può permettersi di seguire pedissequamente un copione ordinato. Non sarebbe fedele alla vivacità dell’epoca. Devono esserci al contempo ordine e disordine, sistematizzazione razionale e flusso di immagini, metodo storico e suggestioni letterarie.

In questo viaggio, tra gli scrittori cui viene dedicata maggiore attenzione vi sono, ad esempio, Hermann Hesse, Thomas Mann, Robert Musil. Senza dimenticare Stefan Zweig, cantore di un mondo che si stava dissolvendo: «Insieme al vecchio secolo finiva anche qualcosa nelle concezioni artistiche, mentre stava iniziando una rivoluzione o almeno una trasposizione dei valori […] S’imparò d’un tratto a vedere in un modo nuovo e contemporaneamente a sentire nuovi ritmi, nuovi colori musicali con Musorgskij, Debussy, Strauss e Schönberg, nella letteratura irruppe il realismo di Zola, Strindberg e Hauptmann, il demonismo slavo con Dostoevskij, una sublimazione e una raffinatezza ancora sconosciuti della forma lirica con Verlaine, Rimbaud, Mallarmé. Nietzsche rivoluzionò la filosofia […] D’un tratto l’antico e comodo ordine fu turbato, le sue norme di bellezza estetica venivano messe in discussione […] Avevamo la sensazione che iniziasse un’epoca nostra, il nostro tempo»[1]. L’importanza della Mitteleuropa, tra inquietudini germaniche e finis Austriae, emerge piuttosto nitidamente. L’eredità di Friedrich Nietzsche contagia ogni espressione artistica, così come più avanti la psicanalisi di Sigmund Freud. L’Ottocento positivista crolla in un mare di incertezze, tra la dissoluzione dell’Io e quella dell’episteme. Non si ferma invece la corsa del progresso tecnologico: lo smarrimento derivante dal crollo degli assoluti, dalla morte di Dio per dirla con Nietzsche, accompagna lo sviluppo tecnico, non lo compromette. È in questa cornice culturale, difatti, che i fratelli Lumière, il 28 dicembre 1895, proiettano all’improvviso delle ombre sullo schermo, piccolo ma essenziale passo verso l’invenzione del cinema; o, ancora, nel 1903 i fratelli Wright fanno volare un primo prototipo di aeromobile; vi sono poi l’illuminazione pubblica delle strade, le macchine, la rete ferroviaria e molto altro. Una serie incessante di scoperte tecniche in grado di rivoluzionare gli stili di vita. Un sostrato materiale che andrà ad intrecciarsi, spesso influenzandolo, con quello spirituale.

La bravura di Fabbri risiede nella capacità di muoversi tra contraddizioni, paradossi, punti apparentemente disuniti. In una fase, quella attuale, dominata dal feticcio della competenza settoriale, il taglio trasversale di questo volume rappresenta una boccata d’ossigeno. Dopotutto, la vocazione intellettuale altro non è, a parere di chi scrive, che l’esigenza di unire – o, più umilmente, provare a unire – i tasselli del mosaico, avvalendosi delle diverse competenze specialistiche – sapendo chi leggere e come leggerlo – per poi collegarle e offrire una visione di insieme. È lo stesso autore che, nelle ultime pagine, prova a spiegare in termini affini le peculiarità di questo volume, sicuramente originale nel panorama editoriale: se volessimo rintracciarne il filo conduttore, scrive Fabbri, «forse lo troveremmo nel tentativo di spiegare come la generazione degli anni Ottanta traghettasse culturalmente verso il Novecento; seguendo cioè la testimonianza e la produzione intellettuale di una serie di personalità illustri in ogni settore, umanistico e scientifico, che, giovani precoci alla vigilia del XX secolo, si ritrovarono, tutt’assieme, adulti consapevoli in quel contrastato ventennio che si apre con la Belle époque e la fantastica invenzione del cinematografo e si chiude con l’assassinio di Sarajevo e il rimbombo dei cannoni della prima guerra mondiale. È un panorama variegato di personaggi, esponenti di primo piano della letteratura, della pittura, della musica, della scienza e della tecnica, del cinema e del teatro». Di fronte a questo vasto insieme di volti e biografie, Fabbri utilizza una efficace metafora per indicare i due diversi approcci che avrebbe potuto scegliere: da un lato, avrebbe potuto esporre la sequenza cronologica del divenire di ciascuno di questi personaggi, presi singolarmente, come gli alberi di una foresta; dall’altro, «leggerne la crescita rapportandola contemporaneamente allo sviluppo dell’ambiente in cui vissero, all’incremento delle scienze affini, concatenandole l’una all’altra, in maniera sincronica. Come il boscaiolo che esamina l’evolversi della foresta non dalle radici alle foglie, ma con l’attenta analisi dei cerchi concentrici sulla sezione orizzontale del fusto. Senza esitare, ho scelto questa seconda strada, stimolato anche da un suggestivo suggerimento di Fernand Braudel, il grande storico francese, che ricordò come la storia “lo voglia o no, deve assimilare tutte le scoperte che le varie scienze sociali hanno appena compiuto nel campo inesauribile della vita degli uomini”» (p. 272).

In questo modo, Fabbri ha dipinto un ritratto se non vero quantomeno verosimile di un’intera epoca, talvolta attraverso le note di Richard Wagner, altre volte con la prosa di Robert Musil, o ancora con le immagini di Edvard Munch. Una prospettiva (consapevolmente) continentale, che riesce però a dare l’idea del fervore che si respirava in quegli anni. Come ha scritto lo studioso americano Stephen Kern, «nel periodo che va dal 1880 allo scoppio della Prima guerra mondiale, una serie di radicali cambiamenti nella tecnologia e nella cultura creò nuovi, caratteristici modi di pensare e di esperire lo spazio e il tempo. Innovazioni tecnologiche che comprendono il telefono, la radiotelegrafia, i raggi X, il cinema, la bicicletta, l’automobile e l’aeroplano posero il fondamento materiale per il nuovo orientamento: sviluppi culturali indipendenti quali il romanzo del “flusso di coscienza”, la psicoanalisi, il cubismo e la teoria della relatività plasmarono direttamente la coscienza. Il risultato fu una trasformazione delle dimensioni della vita e del pensiero»[2]. Quello che tiene ad aggiungere e rimarcare Fabio Fabbri come postilla finale, quasi a svelare la più intima convinzione che l’ha portato a scrivere questo affascinante volume, è che «proprio in quell’epoca, scoperte scientifiche, riflessioni filosofiche, innovazioni tecniche, opere letterarie, musica, quadri, sculture, architetture furono tutte di una tale originalità e importanza innovativa da costituire, ancor oggi, le basi della civiltà odierna. L’alba del Novecento, una rivoluzione culturale. Le nostre radici, il nostro futuro» (p. 275).


[1] Stefan Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, Mondadori, Milano 2017, pp. 44-45 e 168 (citazione riportata a pagina 95).

[2] Stephen Kern, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, il Mulino, Bologna 1988 (nuova edizione 2007), p. 7 (citazione riportata a pagina 275).

Scritto da
Luca Picotti

Avvocato e dottorando di ricerca presso l’Università di Udine nel campo del Diritto dei trasporti e commerciale. Autore di “La legge del più forte. Il diritto come strumento di competizione tra Stati” (Luiss University Press 2023). Su «Pandora Rivista» si occupa soprattutto di temi giuridico-economici, scenari politici e internazionali.

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