Scritto da Nicola Dimitri
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Con il “miracolo economico” l’Italia è diventata una potenza industriale di primo piano e gli italiani hanno raggiunto livelli di consumi e di benessere impensabili solo pochi anni prima, ma questo sviluppo ha avuto anche costi ambientali elevati. In L’altra faccia del benessere. Una storia ambientale nell’Italia contemporanea (1950-1979) – edito nel 2024 da Carocci – Salvatore Romeo affronta il modo in cui la società italiana scoprì l’altro volto del benessere raggiunto attraverso l’industrializzazione del Paese, in un quadro in cui la questione ambientale appare come un catalizzatore delle tensioni che scuotevano l’Italia del tempo. Temi da cui prende avvio questa intervista.
Salvatore Romeo è ricercatore in Storia contemporanea all’Università di Roma Tor Vergata, si occupa in particolare di storia ambientale e storia delle aree urbane e industriali ed è autore di L’acciaio in fumo. L’Ilva di Taranto dal 1945 ad oggi (Donzelli 2019).
Nel libro L’altra faccia del benessere, si analizza il periodo che va dal Dopoguerra alla fine degli anni Settanta, mettendo in luce aspetti spesso trascurati della crescita economica e industriale. Perché ha scelto proprio questo arco temporale? In che modo esso rappresenta non solo una chiave storica, ma anche ermeneutica, per comprendere e interpretare ciò che si cela oltre la narrazione consolidata di un’epoca considerata – spesso acriticamente – solo l’equivalente di un grande fermento economico e sociale?
Salvatore Romeo: Il periodo che ho approfondito e posto al centro della mia analisi, ossia i decenni compresi tra il secondo Dopoguerra e la fine degli anni Settanta, è stato indubbiamente un momento di straordinario progresso economico e sociale. Tuttavia, esso ha coinciso anche con una stagione segnata da profonde contraddizioni; fra queste spicca l’impatto ambientale dello sviluppo economico e industriale. Proprio su questo aspetto ho voluto incentrare la mia ricerca, concentrandomi in particolare su come la politica e la società affrontarono quelle problematiche.
La letteratura sull’argomento offriva già spunti interessanti, ma avvertivo l’esigenza di una sistematizzazione e di un approfondimento ulteriore, utilizzando anche fonti finora poco frequentate, come gli studi scientifici e le relazioni tecniche. Il mio studio si estende fino agli anni Settanta per varie ragioni. Da una parte, con quel decennio si esaurisce la fase di sviluppo iniziata nel secondo Dopoguerra, ed entra in crisi la società fordista; dall’altra, in quegli anni emerge una coscienza ambientale diffusa, da cui prende forma un movimento, quello ambientalista, sotto molti aspetti nuovo, che mette in discussione alcune pietre angolari del modello sociale ed economico prevalso fino ad allora. Si iniziano a nominare i “limiti dello sviluppo”, a rigettare il paradigma grande-industriale, a ripensare i rapporti fra Stato centrale e territori, a sperimentare forme di organizzazione della soggettività politica più “orizzontali”. Tutto questo avrà degli sviluppi importanti nella fase successiva, quando l’ambientalismo diventerà anche una forza politica in senso proprio.
Negli anni del boom economico italiano si assiste a una crescita straordinaria che trasforma il Paese, portando benessere diffuso e nuovi orizzonti di mobilità sociale. Tuttavia, sotto la superficie di questa narrazione, potremmo dire, trionfale, emergono già le prime contraddizioni. Problematiche ambientali, squilibri nel mondo del lavoro e tensioni produttive iniziano ad apparire come legati a doppio filo con questo modello di sviluppo, gettando le basi per conflitti che diventeranno centrali nei decenni successivi. Si assiste a un confronto sempre più acceso tra interessi pubblici e privati, tra diritti collettivi e ambizioni individuali. Il libro mette in luce proprio il lato meno celebrato del miracolo economico italiano. Quali sono le contraddizioni e le conseguenze nascoste dello sviluppo industriale?
Salvatore Romeo: Proprio in quegli anni, mentre il benessere economico si diffonde e il Paese si modernizza, emergono le prime tensioni legate all’impatto ambientale e sociale dello sviluppo. Le aspettative di crescita e di miglioramento delle condizioni di vita si scontrano con i primi segnali di degrado ambientale, tanto che, a poco a poco, inizia a svilupparsi una nuova sensibilità. Com’è già stato evidenziato, questa consapevolezza si fa strada man mano che il soddisfacimento dei bisogni primari lascia spazio a nuovi bisogni, che sono stati definiti “post-materiali”, come la fruizione del tempo libero e la ricerca di una migliore qualità della vita. Questo processo riguarda anche una quota crescente di lavoratori.
Detto questo, mi sembra che il caso italiano ci mostri altre due dinamiche particolarmente interessanti. In primo luogo, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, si registra un crescente rifiuto di grandi progetti industriali, soprattutto in settori ad alto impatto ambientale, come quello della produzione di energia. Nel libro individuo numerosi episodi di conflitti locali legati alla costruzione di centrali termoelettriche o di raffinerie; la contestazione si sviluppa non solo in grandi città, come Milano, ma anche in aree periferiche. Questo fenomeno è significativo perché mette in luce l’emergere di nuovi assetti economici: alcune di quelle proteste sono sostenute attivamente da operatori di settori tradizionali, come il turismo e l’agroalimentare, che hanno beneficiato dell’aumento del reddito medio e della nuova centralità del tempo libero. Questi iniziano a opporsi a un certo tipo di sviluppo industriale, avvertendo il rischio che i nuovi insediamenti produttivi possano monopolizzare le risorse del territorio e compromettere le attività preesistenti. Dunque, i primi passi della coscienza ambientale non avvengono solo sulla spinta dei nuovi bisogni post-materiali, ma anche per effetto della mobilitazione di interessi concreti che vanno assumendo un profilo sempre più marcato e una accentuata coscienza di sé. Sarebbe interessante indagare il rapporto fra queste istanze emergenti e l’affermazione del mito della “Terza Italia”, in sostanza un modello di sviluppo basato su un tessuto diffuso di piccole e medie imprese fortemente radicate nelle specificità locali.
Strettamente intrecciato a questo tema è il nodo politico-istituzionale che la “contestazione ecologica” solleva. Molte delle proteste che scoppiano a cavallo fra anni Sessanta e Settanta assumono una connotazione marcatamente autonomista; uno dei principali punti di attacco è l’assetto centralista che allora caratterizzava lo Stato italiano. Si rivendica in particolare il protagonismo delle comunità locali nelle decisioni riguardanti lo sviluppo dei rispettivi territori, opponendosi alla logica degli investimenti calati dall’alto. Questa richiesta di autonomia si lega strettamente al processo di legittimazione delle Regioni, che proprio in quegli anni iniziano a strutturarsi come enti dotati di specifici poteri. Le comunità locali vedono in queste nuove amministrazioni un’occasione non solo di decentramento dei processi deliberativi, ma più in generale di democratizzazione degli assetti politico-istituzionali. Si prospetta quindi il definitivo superamento dell’impostazione centralista ereditata dal fascismo, ma risalente già all’epoca liberale. In questo quadro, la questione ambientale diventa uno dei terreni su cui si articolano – e si scontrano – prospettive politiche più vaste. Anche i grandi partiti nazionali sono quindi costretti a confrontarsi con quella nuova emergenza: ad esempio, nella sua costante battaglia autonomista, il Partito Comunista Italiano cerca di assumere anche il tema della difesa dell’ambiente e di un nuovo tipo di sviluppo economico e sociale.
Negli anni del boom economico, l’espansione industriale ha trasformato profondamente il rapporto tra insediamenti umani e ambiente naturale, ridefinendo gli equilibri territoriali e alterando i cicli ecologici. Il rapido sviluppo produttivo ha avuto un impatto significativo non solo sul paesaggio, ma anche sulla salute dei lavoratori e delle comunità circostanti. In questo contesto, inizia a emergere una nuova consapevolezza riguardo al legame tra lavoro, salute e ambiente. Come si sviluppa questa presa di coscienza? In che modo il tema della nocività nei luoghi di lavoro viene recepito nelle fabbriche, e quali dinamiche si innescano tra il movimento operaio e le istanze ambientaliste?
Salvatore Romeo: Già a partire dai primi anni Sessanta, il movimento operaio comincia a maturare una crescente attenzione per la nocività degli ambienti di lavoro. Questa sensibilità si amplifica a seguito dell’autunno caldo del 1969, quando viene messa definitivamente da parte la logica della monetizzazione del rischio, fino ad allora accettata come inevitabile. Il rifiuto di tale impostazione segna un passaggio cruciale: il diritto alla salute diventa una priorità; vengono così poste le basi per un nuovo modo di intendere il rapporto tra produzione e benessere dei lavoratori. Lotte significative si sviluppano all’interno delle fabbriche, grazie anche alla collaborazione con una nuova generazione di medici del lavoro che, rafforzando i rapporti con i sindacati, si impegnano a fornire supporto scientifico e tecnico alle battaglie operaie. Questa alleanza porta alla creazione di istituzioni e strumenti di prevenzione che tentano di imporre alle aziende forme di controllo operaio sull’organizzazione del lavoro, al fine di limitare il più possibile l’esposizione delle maestranze a varie forme di nocività.
Si è parlato a questo proposito di un “ambientalismo operaio”, che avrebbe influenzato in misura significativa la formazione della coscienza ambientale nel nostro Paese. Ma se è vero che le mobilitazioni contro la nocività dei luoghi di lavoro contribuirono a radicare in tanti lavoratori la coscienza dei danni ambientali generati dai processi produttivi, non si può tacere quello che a mio modo di vedere fu il limite oggettivo di quell’impostazione. Essa dovette scontrarsi con rigidità tecniche ed economiche che spesso impedirono l’adozione di interventi realmente risolutivi. Le tecnologie di risanamento ambientale erano infatti ancora in una fase embrionale, mentre la nuova congiuntura inaugurata dai tre shock (salariale, monetario ed energetico) verificatisi a cavallo fra anni Sessanta e Settanta impose vincoli più stringenti alle imprese. L’idea di contribuire al risanamento complessivo dell’ambiente attraverso la trasformazione della fabbrica – quello che può essere ritenuto il nucleo centrale dell’ambientalismo operaio – divenne pertanto sempre meno praticabile a causa della crisi.
Queste circostanze furono alla base di una discrasia dagli esiti dirompenti, poiché quei limiti divennero sempre più evidenti man mano che la coscienza ambientale andava diffondendosi presso strati via via più vasti di popolazione. Ciò alimentò divergenze importanti fra i settori della classe operaia più esposti al “ricatto occupazionale” e l’emergente movimento ambientalista. Emblematico da questo punto di vista lo scontro fra gli operai del siderurgico di Bagnoli e la sezione napoletana di Italia Nostra, ma anche la dialettica che si sviluppò in occasione di alcuni gravi incidenti fra diverse componenti delle comunità locali interessate (in particolare a Manfredonia e nell’area di Seveso). Questa contrapposizione tra operai ed ecologisti diventerà ancora più intensa negli anni successivi, quando si stabilirà una convergenza oggettiva fra richieste di risanamento ambientale e processi di deindustrializzazione. La coscienza ecologista maturata fuori dai cancelli delle fabbriche chiederà in diverse occasioni soluzioni radicali, spesso incompatibili con la difesa dei posti di lavoro.
Gli anni Sessanta segnano una svolta importante nella nascita di una sensibilità ambientale più diffusa e nell’emergere di un attivismo ecologista. In questo periodo, per certi versi inedito, si assiste a un’integrazione più ampia tra saperi fino ad allora separati: epidemiologia, diritto, amministrazione pubblica, igiene, tutela del patrimonio culturale e protezione della natura iniziano a interagire, anche se in modo non sempre sistematico ed efficace. Questo processo porta a una serie di battaglie, normative che contribuiscono alla crescita del movimento ambientalista?
Salvatore Romeo: Un aspetto fondamentale di questo periodo è certamente l’ibridazione dei saperi. Già negli anni Cinquanta alcuni settori della comunità tecnico-scientifica avevano iniziato a inquadrare i problemi ambientali in una prospettiva più ampia, ma è tra anni Sessanta e Settanta che il confronto diventa più serrato, anche grazie a nuove iniziative politiche. È in questo periodo che vengono discusse e approvate alcune delle prime leggi ambientali italiane, come la legge antismog del 1966 e la legge Merli del 1976 sulla tutela delle acque – ma è importante richiamare anche l’ampio dibattito sulla difesa del suolo e la prevenzione del dissesto idrogeologico, che non portò all’adozione di provvedimenti di ampio respiro. In queste vicende emergono figure di tecnici e scienziati che iniziano a ricoprire ruoli rilevanti nei processi deliberativi.
Tuttavia, per quanto si tratti di una novità positiva, il loro coinvolgimento è ancora episodico, spesso limitato a consulenze occasionali, e non si traduce in una presenza stabile nelle istituzioni. Questo è un punto critico: mentre in alcuni settori, come la medicina del lavoro, si arriverà già negli anni Ottanta a una vera e propria integrazione dei saperi esperti nelle strutture dello Stato, principalmente attraverso il Servizio Sanitario Nazionale, nel campo della salvaguardia dell’ambiente bisognerà attendere gli anni Novanta-Duemila – cioè la costituzione e l’entrata in funzione delle Agenzie Regionali per la Protezione dell’Ambiente (ARPA) – per assistere a un fenomeno analogo.
Questo ritardo riflette un problema strutturale dello Stato italiano: la difficoltà di inglobare stabilmente competenze scientifiche nei processi decisionali e nelle strutture esecutive. Limite, questo, che riguarda non solo il contrasto agli inquinamenti, ma anche la gestione delle emergenze idrogeologiche. Ad esempio, il rapporto tra il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici e gli apparati burocratici ministeriali è spesso conflittuale: da un lato, vengono emanate direttive ispirate a criteri scientifici per la gestione del dissesto idrogeologico; dall’altro, l’apparato amministrativo fatica a tradurle in azioni concrete. Un esempio emblematico è il fallimento del piano di sistemazione dei principali bacini idrici adottato tra l’alluvione del Polesine (1951) e quella di Firenze (1966): nonostante quindici anni di studi e proposte, le misure adottate risultarono inefficaci, dimostrando la difficoltà della politica e dell’amministrazione ad accogliere le sollecitazioni provenienti dalla comunità tecnico-scientifica. Questa refrattarietà dello Stato a lasciarsi permeare in modo più profondo da competenze specialistiche rappresenta uno dei nodi cruciali nella storia della politica ambientale italiana. Mentre altrove il dibattito ecologista inizia a influenzare stabilmente le scelte governative, in Italia si procede con maggiore lentezza, alternando momenti di apertura a lunghi periodi di inerzia.
Quali sono i meriti di Italia Nostra e come si è evoluto nel tempo il suo ruolo? Infine, quali sono stati i fattori che hanno portato alla crescita del movimento ecologista negli anni Settanta?
Salvatore Romeo: Italia Nostra ha avuto un ruolo fondamentale nella formazione del movimento ambientalista italiano, anche se questo contributo non sempre le è stato riconosciuto adeguatamente. Ispirata essenzialmente alla tutela dei beni culturali e paesaggistici, l’origine dell’associazione è legata all’opposizione ai nuovi progetti di sventramento del centro storico di Roma e alla lottizzazione delle aree rurali lungo la Via Appia. In questa prima fase, la sua visione della natura è prevalentemente estetica, e la sua azione punta alla protezione del patrimonio artistico e naturalistico della Nazione dagli assalti della speculazione edilizia.
Ma già all’inizio degli anni Sessanta Italia Nostra comincia a interessarsi alla tutela delle aree verdi e dei parchi naturali, sviluppando una sensibilità sempre più attenta all’impatto antropico sugli ecosistemi. Questo passaggio è particolarmente interessante perché avviene all’interno di un’associazione il cui gruppo dirigente è composto principalmente da intellettuali di formazione umanistica, tra cui Giorgio Bassani, l’autore de Il giardino dei Finzi-Contini, che ne diventerà presidente nel 1965, e le figlie di Benedetto Croce. Queste figure mostrano da subito una grande apertura nei confronti del contributo offerto dall’urbanistica e, successivamente, dalle scienze naturali. In questo modo Italia Nostra sviluppa una consapevolezza crescente nei confronti degli sconvolgimenti provocati dallo sviluppo.
Questo percorso di maturazione porta l’associazione a diventare parte attiva in diversi conflitti ambientali, costruendo rapporti con il mondo scientifico e con alcuni settori della politica. Figure come Giorgio Nebbia, fra i primi studiosi a introdurre l’approccio ecologico in Italia, svolgono un ruolo cruciale come mediatori tra la comunità scientifica e il nascente movimento ambientalista. La sezione milanese di Italia Nostra, in particolare, si distingue per la sua capacità di anticipare alcuni temi chiave delle future battaglie ecologiste: ad esempio, è tra le prime realtà a porre il problema del traffico veicolare e delle sue conseguenze ambientali, arrivando a chiamare in causa direttamente l’industria in un “processo all’automobile”, cioè un dibattito pubblico che vede “sul banco degli imputati” rappresentanti di grandi aziende, come FIAT e Alfa Romeo. Sempre a Milano, Italia Nostra tenta di costruire legami con le forme emergenti di partecipazione popolare, come i consigli di zona, nel tentativo di democratizzare il dibattito sull’ambiente e dare voce alle istanze della cittadinanza. Anche se non sempre riesce nei suoi intenti, Italia Nostra in quel periodo si dimostra un contenitore fertile, capace di dare impulso a dinamiche che nei decenni successivi porteranno alla nascita di un movimento più ampio e strutturato.
Leggendo il libro, mi è venuto spontaneo pensare al brano Vincenzina e la fabbrica di Enzo Jannacci, una canzone che descrive in modo struggente il rapporto totalizzante con l’industria negli anni del boom economico. Nel testo, dentro la fabbrica c’è Vincenzina. Vincenzina osserva la fabbrica come se non esistesse nient’altro e percepisce persino un odor di pulito. Fuori dalla fabbrica c’è il padrone, figura sfuggente e inaccessibile, esente da qualsiasi problema: non ha difficoltà economiche, non ha vincoli sociali e, soprattutto, non si preoccupa delle conseguenze ambientali della produzione industriale. Ebbene, a partire da questo brano evocativo e denso di riflessione critica, ritengo che si possano fare dei collegamenti con il suo libro. Lei affronta, infatti, in alcune sezioni del libro, da un lato il tema della dilapidazione del territorio, dall’altro il tema della cosiddetta “ecologia dei padroni”. Formula che sintetizza il modo in cui le grandi imprese hanno risposto alle prime contestazioni ecologiste. Se guardiamo a quel periodo con lo sguardo di oggi, la questione della responsabilità dei grandi gruppi economici e del legislatore nei confronti dell’ambiente è ancora centrale. Ma cosa è realmente cambiato nel rapporto tra industria, lavoratori e impatto ambientale?
Salvatore Romeo: Il riferimento alla canzone Vincenzina e la fabbrica di Enzo Jannacci è particolarmente azzeccato. Quegli anni segnano infatti il culmine di quella che è stata definita la “centralità della fabbrica”, ma rappresentano anche l’avvio di un’insofferenza crescente nei suoi confronti. I lavoratori, pur legati a quel mondo, cominciano a percepirne il peso alienante e a cercare spazi di autodeterminazione fuori dai luoghi di lavoro. È un processo sotterraneo, ma significativo: la ricerca di una dimensione più autentica, che possa restituire senso alla propria esistenza oltre la fabbrica, prelude al clima di disimpegno e ridefinizione delle identità sociali che caratterizzerà gli anni Ottanta.
Parallelamente, emerge la questione ambientale, che scuote le grandi imprese in modi diversi. La cosiddetta “ecologia dei padroni” descrive il modo in cui l’industria ha inizialmente reagito alla contestazione ecologica: un vero e proprio shock, in quanto alcune proteste misero in discussione l’autorevolezza delle imprese e la legittimità dei loro investimenti. Un caso emblematico è quello dell’ENEL, che negli anni Settanta incontrò forti resistenze alla costruzione di nuove centrali – termoelettriche prima, nucleari poi –, trovandosi di fronte a mobilitazioni popolari senza precedenti.
Le risposte delle grandi aziende si articolarono su più livelli. Alcune scelsero di adottare strategie che oggi chiameremmo di “green washing”, costruendo un discorso pubblico che enfatizzava il loro impegno ambientale e cercando di appropriarsi del tema ecologico attraverso il riferimento alla loro capacità di affrontare le sfide del disinquinamento in virtù della potenza tecnologica di cui disponevano. Altre presero parte più intensamente al dibattito politico, provando a giocare un ruolo attivo nella definizione della politica ambientale italiana. L’ENI è l’esempio più eloquente a tal proposito. Il gruppo fondato da Enrico Mattei promosse una primissima analisi costi-benefici sul risanamento dell’aria e delle acque, ma soprattutto attraverso una nuova azienda operativa, Tecneco, provò a proporsi come soggetto cardine nella gestione delle tematiche ambientali a livello nazionale. Il progetto, quanto mai ambizioso, partorì soltanto il Rapporto sulla situazione ambientale del Paese, pubblicato nel 1973, che comunque raccolse e sistematizzò gli studi sulle alterazioni ambientali condotti fino a quel momento. Le opposizioni che suscitò in campo politico e da parte degli altri grandi gruppi industriali, e l’impatto dello shock petrolifero, spinsero l’ENI ad abbandonare i suoi propositi.
In ogni caso, quella stagione ha lasciato un’eredità importante: da allora le aziende non hanno più potuto ignorare la questione ecologica, ma hanno dovuto ridefinire continuamente il proprio ruolo per mantenere il consenso. La transizione ecologica di oggi, con tutte le sue contraddizioni, è figlia anche di quel confronto iniziale tra contestazioni ambientaliste e strategie di risposta industriale.