“L’America per noi” di Mario De Pizzo
- 14 Giugno 2021

“L’America per noi” di Mario De Pizzo

Recensione a: Mario De Pizzo, L’America per noi. Le relazioni tra Italia e Stati Uniti da Sigonella a oggi, Prefazione di Paolo Messa, Luiss University Press, Roma 2021, pp. 150, 16 euro (scheda libro)

Scritto da Alberto Prina Cerai

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All’indomani della chiusura dell’atteso summit in Cornovaglia tra i leader del G7, si ripropone con rinnovata forza il tema della coesione dell’Occidente di fronte alle grandi sfide globali del XXI secolo – cambiamento climatico, trasformazioni energetiche e tecnologiche, pandemia, sviluppo sostenibile – oltre alla gestione delle tumultuose relazioni con Cina e Russia. Il comunicato finale, Our Shared Agenda for Global Action to Build Back Batter (B3B) è una dichiarazione d’intenti per rilanciare un ordine liberale di cui gli Stati Uniti vogliono tornare ad essere il centro gravitazionale, perlomeno nella forma e nei discorsi.

Il primo viaggio ufficiale del Presidente Joe Biden in Europa – al contrario del suo predecessore, che scelse l’Arabia Saudita – rappresenta un momento simbolico per il rilancio del multilateralismo di matrice atlantica (appunto il G7) ed è stato seguito da un altrettanto importante summit della NATO nei quartier generali di Bruxelles e a cui si aggiungerà un atteso incontro con Vladimir Putin. In questo fermento della politica internazionale, il nostro Paese ha visto in Mario Draghi il nuovo – e per certi versi, mai sopito – garante del collocamento dell’Italia nel solco del dopoguerra. Un ritorno al futuro, stante le dichiarazioni del Presidente del Consiglio, il quale ha ribadito che «europeismo e atlantismo» rimangono i due pilastri imprescindibili della politica estera italiana e si è detto pronto a rivedere i termini dell’adesione del governo gialloverde, nel 2019, al progetto cinese della Via della Seta.

All’epoca si trattò di un fulmine a ciel sereno, dal momento che l’Italia era stato l’unico Paese occidentale ad aderirvi seppur con un memorandum non vincolante. E non tardò a manifestarsi la reazione del nostro partener d’oltreoceano in un contesto di rapida escalation commerciale e diplomatica con la Repubblica Popolare Cinese. Ma cosa è cambiato da Sigonella al governo Conte I? Quali sono stati i retroscena che hanno scandito la storia delle relazioni tra Roma e Washington? I libri di storia ci hanno ormai ben delineato come i rapporti post-bellici, la comune adesione ai valori democratici, la bilancia commerciale, l’industria della difesa, le relazioni culturali e la più ampia configurazione dell’ordine internazionale siano stati fattori determinanti nell’ancoraggio dell’Italia all’Atlantico. Ma, aspetto che spesso si tende a sottovalutare, le relazioni internazionali e istituzionali sono fatte di compromessi, rapporti interpersonali, fuori onda e non-detti che molte volte non solo sono la cornice formale di gerarchie d’interessi, ma diventano i contenuti fondamentali per affrontare le crisi e gli strattoni della storia.

L’America per noi del giornalista del TG1 Mario De Pizzo, uscito a cavallo del 160° anniversario delle relazioni diplomatiche (1861-2021), è una collezione di aneddoti e testimonianze rivelatorie che portano a rivivere, in conversazione con i protagonisti della politica italiana degli ultimi quarant’anni, alti e bassi delle relazioni tra Italia e Stati Uniti. Cinque presidenti del Consiglio, tre ministri degli Esteri, un ex ambasciatore negli USA e numerosi altri protagonisti raccontano all’autore i momenti salienti, le aspettative e le scelte di un rapporto mai veramente messo in discussione nei suoi capisaldi, ma certamente oggetto di controversie e crisi legate ai repentini cambiamenti dello scenario europeo e internazionale.

Perché la relazione bilaterale è necessaria, ma non sufficiente, nel soppesare il grado di fiducia e il peso specifico che l’Italia può godere nella sua relazione particolare con gli Stati Uniti. E a ricordarlo con grande lucidità, nella sua premessa al volume, è Paolo Messa: «Un’Italia più debole in Europa o lontana dal cuore delle decisioni prese in sede comunitaria è un’Italia meno rilevante per Washington DC» (p. 10). Perché l’atlantismo e l’europeismo sono storicamente una diade: con il primo che ha rappresentato l’ombrello securitario che ha permesso al secondo di prosperare, in termini di consapevolezza politica (oggi, forse, al suo turning point?) e di benessere economico, mentre l’emergere del secondo ha concesso al primo di consolidare una partnership sempre più matura e, dunque, dagli interessi e valori a volte contrastanti. E l’Italia è stata, in tutto questo, un perno strategico e proprio per questo imprevedibile anche per un’identità tridimensionale (mediterranea, europea e atlantica). L’immagine più evocativa, in questo senso, è la scena nella base aerea di Sigonella, dove si sfiorò uno scontro a fuoco tra forze militari di due Paesi impegnati a rispettare l’Art. 5 della NATO. Quando l’interesse nazionale italiano – declinato dall’allora inquilino di Palazzo Chigi Bettino Craxi e dalla Farnesina di Giulio Andreotti – divenne lo stato d’eccezione dell’atlantismo. Salvo poi scoprire il tranello di Arafat e che uno dei mediatori palestinesi fosse in realtà uno dei responsabili del dirottamento dell’Achille Lauro. Di fronte al Parlamento per riferire dei fatti, Craxi vacilla: «per la prima volta, un governo va in crisi a causa della politica estera» (p.25). Il supporto di Cossiga e un saldo rapporto con Ronald Reagan disincagliarono il vascello italico per fare nuovamente rotta verso l’Atlantico.

Dopo quell’episodio, il baricentro della politica italiana dovette però confrontarsi con due grandi turbolenze: la fine della Guerra fredda e della Prima Repubblica e l’ascesa dell’Europa di Maastricht. Due eventi che sancirono una nuova configurazione delle relazioni italo-statunitensi. Da un punto di vista securitario, perché mentre cessava di esistere la minaccia militare sovietica – una possibilità che come dimostra l’esistenza delle operazioni segrete di Gladio, organizzazione degli Atlantici d’Italia, poi riconvertitasi da struttura anti-invasione a struttura d’informativa d’intelligence negli anni Ottanta, era fortemente temuta – le questioni di sicurezza internazionale si spostavano sulle periferie con gli interventi umanitari (Somalia), e da un punto di vista monetario perché la gestione della drammatica svalutazione della Lira e gli accordi sul Trattato dell’Unione Europea furono, come ricorda Giuliano Amato, essenzialmente «una vicenda europea» senza «né la percezione né l’esplicitazione di un intervento americano» (p. 39).

E poi l’era Clinton e il governo D’Alema. Democratici di sinistra legati da stima reciproca, chiamati a gestire la polveriera balcanica e le guerre umanitarie, quando venne ampiamente riconosciuta la leadership italiana e il forte senso di responsabilità nei confronti di un conflitto alle porte della Penisola. L’11 Settembre 2001 e l’ascesa al potere di Vladimir Putin sono i due momenti che scolpiscono l’approccio di Silvio Berlusconi nella politica internazionale. Come raccontano Giovanni Castellaneta e Franco Frattini, è la grande spinta solidale di Berlusconi in politica estera, tanto verso gli Stati Uniti feriti nell’orgoglio dopo l’ubriacatura dell’unipolarismo quanto verso la convinzione di poter conciliare i vecchi nemici, Mosca e Washington. Con il punto più alto del triangolo diplomatico, gli accordi di Pratica di Mare e la creazione del Consiglio Nato-Russia, oscurato soltanto dal punto di massima distanza tra le due sponde dell’Atlantico con l’invasione dell’Iraq. Un conflitto nel quale si consumò un altro oscuro episodio con la morte di Nicola Calipari, il cui ricordo di strenuo servitore dello Stato e difensore della democrazia è vivido nelle parole di Rosa Calipari, mai arresasi nella ricerca della verità. Dopo la breve parentesi del governo Prodi, è nuovamente Silvio Berlusconi ad accendere le tensioni con il Dipartimento di Stato americano. La strenua convinzione di poter “occidentalizzare” Vladimir Putin e l’amicizia controversa con Gheddafi arrivano ad un punto di non ritorno nel 2011, quando «le cose cambiano irrimediabilmente: la Libia torna ad essere un dossier “caldo” nello scenario atlantico» (p. 83). Pertanto, con gli interessi strategici degli USA in gioco, lo spazio di manovra italiano si restringe: l’approccio personalistico di Berlusconi, che con Obama aveva instaurato un rapporto piuttosto “inusuale” e inizialmente schieratosi a sfavore dei bombardamenti, cede il passo alla triplice pressione di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. L’ambiguità dissimulata del Cavaliere finirà per ritorcerglisi contro: con la crisi dello spread, il “vincolo esterno” – nella sua matrice europea – divenne la sua condanna politica.

Per evitare la Troika e l’infausto destino greco, è Mario Monti a prendere le redini di un Paese che rischia la deriva. Dall’Europa, ma non dall’Atlantico. È l’inizio della tecnocrazia, seppur l’Italia ne avesse già sperimentato brevi parentesi negli anni Novanta con Ciampi e Dini, ma in un contesto di discontinuità strutturale e non di continuità della crisi. Una crisi della politica italiana che ebbe i suoi echi anche a Washington, come ricorda Monti ripercorrendo il suo cordiale e intenso rapporto con Barack Obama. Il cui interesse verso il funzionamento istituzionale dell’Europa – e in particolare, del Consiglio Europeo – divenne uno dei motivi per cui «il capo del governo italiano [era considerato] la chiave per capire e influenzare l’Europa; almeno sullo scenario economico» (p. 95). Ed ecco che ad un apparente ridimensionamento dell’Italia in UE si è fatta strada la window of opportunity per rientrare nella stanza dei bottoni grazie proprio al rapporto con gli Stati Uniti.

Un rapporto il cui peso politico e strategico si è fin da subito sentito con il crescente ruolo della Cina nelle dinamiche geoeconomiche mondiali, nelle quali l’Italia sin dal lancio della Belt and Road Initiative (BRI) e del piano d’investimenti Go Global è stata un obiettivo di grande interesse per la leadership cinese, soprattutto per alcuni “gioielli di famiglia” come Cassa Depositi e Prestiti (CDP). Ma che al contempo ha visto un relativo disimpiego dell’amministrazione Obama dal teatro euro-mediterraneo per un maggiore focus sull’Indo-Pacifico, come ricorda Emma Bonino, alla Farnesina sotto il governo Letta. In ogni caso, il monitoraggio americano delle attività del Dragone sulla Penisola – rilancia Matteo Renzi – non è mai venuto meno, soprattutto da parte delle agenzie d’intelligence. «Siamo un partner strategico, abbiamo tra i migliori rapporti export e import. La nostra tecnologia viene valorizzata ovunque nel mondo. Non stupiva questa attenzione della Cina, ma la mancanza di attenzione da parte di alcuni operatori italiani» (p. 110). Insomma, opportunità commerciali che non potevano essere negate per la «posizione privilegiata» di Roma con Washington, ma senza nemmeno «far finta di nulla». Una chiosa che, dopo la breve ma rilevante parentesi governativa di Paolo Gentiloni alle prese con i primi segnali di deriva del Titanic occidentale (dalla Brexit all’elezione di Donald Trump) e consapevole dei punti cardine dell’orientamento in politica estera dell’Italia – l’attuale Commissario europeo all’economia rivendica all’Italia intelligenza di dialogo e capacità di mediazione e avverte di «non mettere in discussione i nostri fondamentali: europeisti, mediterranei, atlantici, aperti e curiosi» (p. 120) – la dice lunga sulle esperienze di governo successive.

Perché è dalla crisi della democrazia e della rappresentanza che emerge il primo scacco all’indiscutibile europeismo e atlantismo dell’Italia sullo scacchiere internazionale. A seminare e raccogliere il vento populista e sovranista sono le due forze partitiche che metteranno rispettivamente in discussione i due capisaldi: la Lega e il Movimento 5 Stelle. A capitalizzare quel consenso – grazie anche ad una campagna di disinformazione, di cyberattacchi e di “guerra informativa” mossa da Russia e Cina per delegittimare le istituzioni democratiche con le tecniche dello sharp power – è il governo gialloverde, noto come Conte I. Giuseppe Conte è il frontespizio di una coalizione inedita, volto rassicurante per gli alleati sulla traiettoria dell’esecutivo in politica estera, mentre i rispettivi leader della maggioranza, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, tessono rapporti più o meno chiari con la Russia di Vladimir Putin e coltivano interessi commerciali con la Cina di Xi Jinping lungo le Vie della Seta. “Con chi sta l’Italia?” Dalla crisi libica sui migranti al dibattito sugli F-35, passando dai rapporti burrascosi con Bruxelles e al Russiagate all’italiana, a ricostruire il triennio è Enzo Moavero Milanesi, titolare della Farnesina e impegnato a salvaguardare il tripode diplomatico italiano – ONU, Europa, NATO –. E mentre il contrasto tra USA e Cina si approfondiva sempre di più e si esauriva la spinta propulsiva del populismo-sovranismo con le elezioni europee nel 2019, la politica estera tornava ad influenzare prepotentemente i già fragili equilibri interni. Con la crisi di governo che si apre nell’estate, grazie alla «mossa del cavallo di Matteo Renzi», nasce il Conte II e così «Bruxelles e Washington tornano […] ad essere i riferimenti della politica estera italiana in maniera più conclamata o quanto meno con minori ambiguità» (p. 134).

E, infine, gli eventi che hanno scandito l’ultimo anno e mezzo. La guerra tecnologica tra USA e Cina su Huawei e il 5G, destinata a rimanere una partita geopolitica con un fronte caldo anche in Italia, e lo scoppio della pandemia di Covid-19. Eventi che accelerano riassestamenti globali, in cui l’Italia è chiamata a scegliere. Nel momento probabilmente più critico della democrazia statunitense – con il surriscaldamento della transizione politica dallo sconfitto Donald Trump al vincente Joe Biden – si apre l’opportunità per una nuova fase nelle relazioni transatlantiche, giunte ai minimi storici con la burrascosa amministrazione repubblicana su più dossier (commercio, difesa, Big Tech e cambiamento climatico). Una finestra che anche l’Italia non poteva non cogliere: nel febbraio 2021, per evitare l’ennesima crisi politica e di legittimità internazionale, il Quirinale si dimostra ancora una volta il pivot centrale della democrazia italiana, come scrive nelle pagine precedenti De Pizzo. Sergio Mattarella ha sciolto le riserve e individuato in Mario Draghi la figura rispettata e capace per affrontare il post-pandemia, con la ricostruzione dell’Italia con le risorse del Next Generation EU. Fondi che vengono spesso equiparati al Piano Marshall, in un periodo in cui De Gasperi sorvolava l’Atlantico in cerca di certezze, politiche ed economiche. Mario Draghi non è andato a Bruxelles a negoziare i fondi, “non è tornato cambiato” ma piuttosto è tornato anche per non cambiare perlomeno una storica alleanza e riproporre «l’importanza dei nostri comuni valori occidentali: su tutti, democrazia e libertà».

Il libro di Mario De Pizzo è una lettura che ci dimostra essenzialmente l’importanza del fattore umano nelle relazioni internazionali: quanto più è autorevole la classe politica italiana tanto più forte è la nostra capacità di interagire con gli Stati Uniti, massimizzandone i benefici e riducendo il peso percepito del “vincolo atlantico” sulle spalle della Repubblica. Un alleato a volte ingombrante, ma imprescindibile. In attesa di capire se la relazione possa nuovamente godere di un Occidente capace di superare le divergenze in un’epoca di frammentazione dei centri di potere – economico e tecnologico – per ricostruire le basi a partire da una visione della democrazia più inclusiva e all’altezza di intercettare le opportunità e vincere le sfide che ci attendono.


Crediti immagine: Vertice G7 di Carbis Bay, Presidenza del Consiglio dei Ministri [Licenza CC-BY-NC-SA 3.0 IT], attraverso www.governo.it

Scritto da
Alberto Prina Cerai

Dopo le lauree all’Università di Torino e all’Università di Bologna, ha svolto un periodo di ricerca presso il King’s College di Londra. Ha completato in seguito un Corso Executive in Affari Strategici presso la LUISS School of Government, una PhD Summer School con Politecnico di Milano-EIT Raw Materials su materiali critici ed economia circolare e un Master con la Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI). Attualmente collabora con Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM) e LUISS University Press, oltre a svolgere attività di consulenza e analisi.

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