Recensione a: Carlo Greppi, L’antifascismo non serve più a niente, Laterza, Roma-Bari 2020, pp. 160, 14 euro (scheda libro)
Scritto da Andrea Germani
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Il 25 aprile 1994 a Milano si svolse un’imponente manifestazione per commemorare il quarantanovesimo anniversario dell’insurrezione indetta dal CLNAI. La data divenne nel 1946 festa nazionale della Liberazione e così è ancora oggi, settantacinque anni dopo. Nel 1994 le circostanze erano mutate, poteva dirsi terminata la cosiddetta Prima Repubblica, travolta dagli scandali e dalle inchieste del biennio ’92-’93 che condussero a una rapida dissoluzione dei partiti dell’arco costituzionale. Tutti i partiti politici che contribuirono alla lotta antifascista, seppur in differente misura, si sciolsero nel giro di pochi anni. Un mese prima di quel 25 aprile aveva vinto le elezioni politiche la coalizione di centro-destra guidata da Silvio Berlusconi, un gruppo composto da Forza Italia, Lega Nord e il partito formatosi dalle ceneri del Movimento Sociale Italiano, Alleanza Nazionale (AN); per la prima volta nella storia repubblicana un partito di estrema destra che difficilmente poteva definirsi antifascista entrava nel governo.
Gianfranco Fini, leader di AN, per anni dirigente del Fronte della Gioventù e delfino di Giorgio Almirante, organizzò una messa “pacificatrice” alla Basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma. Con quel gesto intendeva inviare un messaggio di riconciliazione alle varie anime nazionali che presero parte alla guerra civile che insanguinò il Nord Italia dal 1943 al 1945. A sinistra sembrava impensabile che un partito che non si era mai completamente distaccato dalla sua ingombrante eredità potesse presentarsi come forza governativa democratica, e che per di più proponesse una pacificazione nazionale. Fra le voci che presero parte al dibattito qualcuno si chiese se avesse ancora senso dividere la nazione nei due fronti che si contrapposero durante il conflitto, se il fronte antifascista – composto da socialisti, comunisti e anarchici ma anche da cattolici democratici, liberali e monarchici – avesse ancora senso di esistere. In sintesi, se l’antifascismo servisse ancora a qualcosa.
Con il suo libro L’antifascismo non serve più a niente (Laterza, 2020) Carlo Greppi vuole ribadire la necessità di un antifascismo che sia vigile e operativo e che non si limiti a essere esclusivamente parte del nostro patrimonio nazionale. Oggi l’antifascismo deve, prima di tutto, saper riconoscere il fascismo. Nell’aprile 1995 ad una conferenza alla Columbia University a New York, Umberto Eco parlò del fascismo eterno, o Ur-Fascismo, descrivendo tutte quelle peculiarità che lo rendevano capace di resistere ai mutamenti sociali e adeguarsi alle nuove urgenze. Il fascismo nella visione di Eco è un complesso ideologico soggetto a mutamenti e ricontestualizzazioni, un contenitore semi-vuoto che può riempirsi di senso a seconda di come, quando e perché si inseriscano dei contenuti. Il fine ultimo resta immutato: instaurare un potere autoritario che mantenga le divisioni sociali e difenda i privilegi dei potenti dalle rivendicazioni degli ultimi. Greppi, a tal proposito, ritiene con Eco che il fascismo continui a presentarsi sotto mentite spoglie, tradendosi quando ripesca nel passato «parole d’ordine con la maiuscola come argine in un presente che nessuno sembra riuscire a decodificare; e siamo ancora alla Tradizione, alla Patria, alla Nazione» (p. XIV).
Il fascismo eterno sa essere sincretico e riformarsi a seconda delle circostanze: nel mondo è stato neoliberista (Cile e Argentina) ruralista e ultracattolico (Belgio, Spagna e Portogallo) collaborazionista (Francia, Norvegia, Romania, Ungheria e Croazia) militarista (Giappone e Grecia) e nazionalsocialista (Germania). In Italia, invece, fu modernista, laico e antiborghese (fascismo di San Sepolcro) per diventare passatista, confessionale e piccolo-borghese (fascismo di governo) e infine sociale e patriota nei discorsi, burattino della Germania nei fatti (fascismo repubblichino). Questo perché «l’8 settembre 1943 la patria morì, è vero» ma a morire più che altro fu l’idea di patria plasmata nel ventennio precedente. «C’è da dire che quella patria si era suicidata da un pezzo» (p. 47).
Il fascismo ha cambiato pelle talmente tante volte che è ormai impossibile si ripresenti con addosso il fez e la camicia nera, tende semmai a mostrarsi come “conciliatore” proponendo una riappacificazione finalizzata non tanto ad abbandonare definitivamente le sue posizioni, quello sì sarebbe riconciliatore, ma a spingere la storia italiana nell’oblio. Dimenticare i pestaggi, gli arresti e gli omicidi di fine anni Dieci e inizio anni Venti, il confino, l’invasione dell’Etiopia, le leggi razziali, l’ingresso in guerra al fianco di Hitler, la guerra civile (1943 – 1945) e la collaborazione alla deportazione degli ebrei. Dimenticare tutto ma ricordare sempre, insistentemente, le zone d’ombra della Resistenza, che il 25 aprile sia “divisivo” – è lapalissiano ma va ripetuto sempre, il 25 aprile deve essere divisivo, dividere fra chi ci vede un giorno di festa e chi di lutto – oppure tutti quegli aspetti che l’ANPI non avrebbe mai chiarito, o magari le frizioni fra le varie anime dell’antifascismo e l’annosa questione delle vendette private: tutti aspetti che, secondo i “riconciliatori”, dovrebbero aver macchiato indelebilmente la lotta di popolo condotta a fianco di inglesi e americani.
Ricordare gli errori altrui come ricordare con assiduità le “cose buone”: «sarebbe fantascienza se in vent’anni non le avesse fatte, no? Anche un orologio rotto, dicono i saggi, segna l’ora giusta due volte al giorno» (p. 5). Fra azioni reali che potrebbero ottenere un giudizio positivo – Istituto per la Ricostruzione Industriale? Bonifiche dell’Agro Pontino? Opera Nazionale Maternità e Infanzia? Istituto Nazionale Fascista per la Previdenza Sociale? – e bugie apologetiche – tredicesima, pensioni e i famigerati treni in orario – sarebbe opportuno ricordare che uno Stato etico che si propone di proteggere e assistere tutte quelle fasce popolari che ha tenuto scientemente ai margini, stroncandone sul nascere ogni tentativo di emancipazione, non sta propriamente facendo cose buone, sta limitando i danni che ha creato in precedenza. Dagli anni Novanta in Italia è tornato di moda rivalutare alcune operazioni del governo Mussolini, tendenza che va di pari passo con lo sminuimento della portata di fenomeni come l’aggressione militare di nazioni sovrane, il confino degli oppositori politici o la partecipazione allo sterminio di ebrei e prigionieri politici.
Per questa e altre ragioni Greppi ha deciso di compiere questo viaggio letterario in sei passaggi raccontando pezzi di quei ventisei anni – dalla fondazione dei Fasci italiani di combattimento, il 23 marzo 1919, alla fine della seconda guerra mondiale, il 25 aprile 1945 – che hanno cambiato l’Italia e il mondo attraverso anche i gesti di chi muore (passaggio uno) di chi spera (passaggio due) di chi esita, chi no (passaggio tre) di chi spara (passaggio quattro) di chi c’era, chi no (passaggio cinque) di quel che c’era e quanto manca (passaggio sei). Greppi tenta di informare il lettore su quali furono le conseguenze delle azioni degli oppositori, quando non c’erano le comodità della società del benessere e non era sufficiente non collaborare o votare contro per cambiare il corso della storia, quando opporsi significava morire: come Anteo Zamboni, quindicenne ucciso a Bologna il 31 ottobre 1926 mentre attentava alla vita di Benito Mussolini; come Piero Gobetti, intellettuale liberale morto il 15 febbraio 1926 a Parigi anche a causa dei pestaggi subiti negli anni; come Antonio Gramsci, intellettuale marxista tenuto in prigione per motivi politici dal 1926 al 1934 e poi in una clinica fino alla morte sopraggiunta il 27 aprile 1937; come Don Giovanni Minzoni, presbitero ucciso dagli squadristi ad Argenta il 23 agosto 1923; come Giacomo Matteotti, deputato socialista ucciso a Roma il 10 giugno 1924.
Il sangue dei martiri dovrebbe tornare in mente ogni qualvolta si creano le condizioni perché qualcuno possa cavalcare le paure di un ceto medio che teme il declassamento, che guarda con timore agli strati più marginali della società e si affida a chiunque prometta di ripristinare ordine e disciplina. Quanto è successo in Occidente nell’ultimo decennio, dopo la crisi finanziaria del 2008, ha messo a rischio gli equilibri della democrazia liberale e ha favorito l’ascesa dei sovranismi, termine di difficile interpretazione ma che, sicuramente, fa riferimento perlopiù a formazioni che non vogliono fare i conti con il passato fascista dell’Europa, quando non vi si ispirano chiaramente. Greppi con il suo libro vuole rendere giustizia a tutti quegli uomini e quelle donne che hanno dato la propria vita o la propria libertà per combattere il fascismo quando sfilava vestito di nero lungo le strade europee, quando era ben visibile. Dirsi oggi antifascisti non significa solamente tenere viva la fiamma della memoria perché quei nomi non vengano dimenticati, significa, prima di tutto, tenere in piedi le basi della civiltà democratica e rifiutare ogni forma di rivalutazione, giustificazione o apologia. Significa riconoscerlo e respingerlo. «Il lungo corso dell’antifascismo serve assolutamente a questo: a dotarci di antidoti contro la “sirena della risposta autoritaria”, a darci uno scenario e un vocabolario con i quali poter agire» (p. 131).