Scritto da Paolo Manfredi
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«Nel furioso mondo contemporaneo, contrassegnato da cambiamenti epocali e violenti, l’Italia rischia di essere un vaso di coccio. A vecchi problemi mai risolti si aggiungono oggi una demografia inclemente e la perdita di quell’energia del fare che era stata alla base della sua fortuna. Il richiamo alle eccellenze, che per lungo tempo ha coperto i problemi, non basta più: quelle eccellenze partecipano sempre meno delle sorti collettive del Paese e una comunità sempre più anziana e affaticata stenta a produrne di nuove. Che fare allora?»
In L’eccellenza non basta. L’economia paziente che serve all’Italia Paolo Manfredi – che si occupa da oltre vent’anni del rapporto tra digitale, sistemi territoriali e PMI – riflette su come non rassegnarsi al declino ma provare a costruire un’economia su misura del nostro territorio: circolare, umana, centrata sulle competenze e votata all’innovazione. Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’editore Egea, un estratto del testo.
Il sistema Paese Italia appare complessivamente inadeguato alla navigazione nei mari procellosi della contemporaneità, anzitutto per difetto di modernizzazione. Questa inettitudine, e i suoi effetti potenzialmente dirompenti, sono stati sinora smorzati dalla proverbiale elasticità del nostro tessuto socioeconomico e soprattutto dall’àncora, psicologica e reale, delle nostre «eccellenze», i ricami di meraviglia sul tessuto.
Un Paese piccolo come il nostro possiede infatti una concentrazione unica di attrazioni naturali e culturali, prodotti, marchi e simboli così fuori dall’ordinario da essersi guadagnati l’appellativo di eccellenze. Un catalogo di delizie da perdere la testa, che spazia da icone globali a nicchie per iniziati, da pure espressioni di qualità della vita ad apparentemente meno affascinanti «pezzi»[1]. Le eccellenze sono importanti, anzi fondamentali, per molteplici ragioni: costruiscono e rafforzano la percezione e la reputazione del marchio che le contiene all’esterno e «fanno morale» all’interno. Dovrebbero poi anche tracciare l’esempio per coloro che con tali eccellenze convivono, per ispirarvisi, imparare, partecipare.
Nel tempo questi ruoli, soprattutto il terzo, si sono andati perdendo. Quanto più si è andati magnificando ovunque le nostre eccellenze, tanto più queste hanno perso trazione, funzione e utilità per il resto. La stessa nozione di eccellenza è diventata routinaria e avalutativa: si sono promosse a eccellenze cose che eccellenti non sono, o non sono più, o lo sono per pochi e poco usi di mondo.
Le eccellenze si sono moltiplicate anche perché sono perfette per quella forma pervasiva della comunicazione contemporanea che è lo storytelling, l’inserimento di ogni messaggio all’interno di una cornice di racconto, necessaria per intrattenere destinatari sempre più disattenti. Il successo nella comunicazione di un’idea, un prodotto, un luogo, un candidato, passa in misura crescente per la costruzione di una storia credibile e coinvolgente, nulla di meglio che evochi l’eccellenza. Lo storytelling è il veicolo perfetto per comunicare le eccellenze, ma non è quasi mai efficace per produrne di nuove, né per fare crescere la media, che eccellente non è. Lo storytelling non costruisce progresso, fotografa bei panorami, dipinge affreschi che si possono guardare ammirati, per poi concludere il più delle volte che ci riguardano fino a un certo punto. È diventato un ricostituente morale, a volte una scusa, non una metodologia che ispira e guida cambiamenti.
Oggi le eccellenze sono ovunque, inflazionate e sganciate dalle comunità che le hanno prodotte, di cui possono al massimo coprire temporaneamente le smagliature, a rafforzare l’impressione di un Paese di solisti, che fatica tremendamente a crescere come sistema. I frati sono ricchi, ma il convento è povero.
Questo scollamento non è del tutto inedito, oggi è solo più evidente e maggiormente gravido di effetti sul corpo indebolito del Paese, per la complessità della competizione e per la perdita di terreno di quello che sta dietro i nostri campioni.
La crisi della classe media, classe che più risente della buona salute complessiva del sistema Paese, si è rapidamente estesa fino a farsi crisi della medietà, che colpisce l’Italia socialmente, culturalmente, economicamente, produttivamente e finanche geograficamente «di mezzo». È in primis crisi della provincia, che da pilastro culturale ed economico ha perso identità, importanza, riferimenti e sta scivolando nella marginalità della periferia, senza modelli e prospettive[2]. Quello che è realmente eccellenza vola, miete successi, crea sempre più valore. Quello che non partecipa alla festa non si limita a vivacchiare, declina velocemente, violentemente.
Il problema non sono tanto le vere eccellenze, che fanno quello che devono, ossia eccellere, ma lo stato di salute del brodo di coltura da cui negli anni queste eccellenze sono emerse, che oggi è sempre meno vitale. Questo rende le eccellenze non più avanguardie, in grado di dialogare, interagire e influenzare il resto, ma eccezioni, sempre meno rappresentative e connesse con l’ecosistema di provenienza, che si impoverisce.
Sfruttando i venti ascensionali della tecnologia, dell’economia e della comunicazione, le eccellenze possono stagliarsi nettamente e rapidamente sopra la media, al punto da considerare di prescindervi. Ciò tuttavia non è sostenibile per il sistema che le ha prodotte: per una città che cresce vertiginosamente, un’impresa che conquista mercati globali, un ricercatore che vince il Nobel, non solo ce ne sono moltissimi che non lo fanno, il che è fisiologico, ma ci sono sempre più territori che perdono terreno, imprese in crisi, ricercatori che se ne vanno. Non porsi collettivamente il problema significa segare il ramo su cui si è seduti.
Porsi il problema non significa, siamo recisi su questo, dare sfogo ad alcuna mena egualitaria per cui eccellenza e merito sono il Male, ma pragmaticamente ragionare e operare perché le eccellenze poggino, fertilizzandoli, su terreni sani. Sani perché in grado di produrre, riconoscere e valorizzare i talenti e non relegare chi talento non è, o non aspira a essere, in posizioni sempre più scomode e marginali.
In passato si poteva ritenere di governare poco o punto questi fenomeni di riequilibrio, innanzitutto per la maggiore, dinamica coralità dei fenomeni sociali ed economici. Un Paese più vivace consentiva ai talenti di fiorire diventando eccellenze, un Paese più coeso creava le condizioni perché le eccellenze generassero altre eccellenze e assorbissero e sostenessero le zone deboli. Oggi, nei mari in tempesta dell’economia e della società furiose, il laissez-faire non è più sostenibile, non solo per ragioni etiche, ma banalmente perché senza ricambio e innovazione ogni marchio inevitabilmente deperisce. Se l’Italia sta scomparendo, come ha twittato Elon Musk a fronte dei dati sempre peggiori sulla demografia, presto non ci saranno più eccellenze da mettere sul mercato e molte di quelle in grado di sopravvivere avranno non solo proprietà, come già avviene, ma anche sempre più codici valoriali e simbolici non italiani. Non conviene a nessuno, se non a chi speculerà sulle spoglie del nostro valore dilapidato. Bisogna allora almeno provare a comprendere e governare i fenomeni di scollamento tra le vette e gli avvallamenti, non per limare le prime, ma per alzare i secondi.
«Non esiste città ricca senza campagna florida», scriveva Fernand Braudel, similmente non esistono vere e durature eccellenze senza un ecosistema attorno solido e vitale. Soprattutto vitale, perché è stato assai più dalla vitalità, anche anarchica, che dall’organizzazione e dalla pianificazione che sono nate gran parte delle eccellenze italiane. Governare la medietà non significa dunque immaginare improbabili piani quinquennali, che non sono nelle nostre corde, ma comprendere, manutenere, modernizzare l’esistente. Anche per alimentare le residue riserve di vitalità, perché non si esauriscano o vadano altrove, indebolendoci ulteriormente. Questo dovrebbe essere il compito principale della politica, della società organizzata e delle élite che le guidano, non fossero anch’esse a loro volta vittime dell’incapacità di leggere i fenomeni, della dipendenza dal ricorrente e dal contingente, della disabitudine ai pensieri lunghi e strategici.
Obiettivo di questo libro è innanzitutto mettere in fila le sfide e le minacce, con qualche goccia di opportunità, alle quali l’Italia deve fare fronte per alzare la media. È il requisito fondamentale per non essere sempre più l’anello debole dell’Europa nel mondo furioso della crisi permanente, che proverò a tratteggiare nel primo capitolo.
Sfide e minacce che, argomenterò nel secondo capitolo, l’Italia sembra oggi non attrezzata per affrontare, anzitutto per una modernizzazione largamente incompleta. All’abbandono di alcuni storici punti di forza del Paese, su tutti la biodiversità culturale e produttiva, e alla perdita di quella vitalità che ne aveva fatto la fortuna, non sono subentrati nuovi modelli di sviluppo. L’Italia è rimasta nel limbo, l’interregno tra nuovo e vecchio mondo evocato da Antonio Gramsci, nel quale «si verificano i fenomeni morbosi più svariati».
Un Paese anziano, depresso e in mezzo al guado, che potrebbe certamente continuare così, lasciando separare sempre di più quello che può essere valorizzato e venduto, le eccellenze, dal resto, il cui destino si presenta assai cupo. È il Piano A, l’inerzia, di cui si parlerà nel terzo capitolo.
Ma anche un Paese che ha ancora la possibilità di un Piano B, recuperando quel potenziale che ancora esiste e oggi non è espresso (l’imprenditorialità diffusa, le comunità) o è sprecato (il capitale umano), modernizzandolo e dandogli una prospettiva. Chiamo questa prospettiva «economia paziente». Nulla a che vedere con la decrescita più o meno felice, né con improbabili alternative alla (neo)globalizzazione ancora al centro della scena; molto a che vedere con il Paese in cui molti, a partire da chi scrive, vorrebbero vivere e lavorare. Un’idea di sviluppo rispettosa della nostra biodiversità e sostenibile, perché non spreca risorse, ma le rimette al servizio dell’economia e delle comunità, anche utilizzando al meglio il meglio dell’innovazione.
L’economia paziente non è un fantacampionato, ma un altro campionato, che può vivere in parallelo alle Superleghe, nelle quali l’Italia è quasi sempre comprimaria. Un campionato che veda in campo quei soggetti – artigiani, nuovi contadini, cooperatori, amministratori locali, scuole – che oggi siedono in curva, spettatori del nostro tirare a campare. È questa, argomentata nel quarto capitolo, la tesi e insieme la concreta speranza del libro. Ché di concreta speranza abbiamo tutti terribile bisogno.
[1] Fondazione Symbola, L’Italia in 10 Selfie. Un’economia a misura d’uomo per affrontare il futuro, Roma 2022.
[2] Tyler Cowen, Average Is Over. Powering America Beyond the Age of the Great Stagnation, Penguin Putnam, New York 2014; Paolo Manfredi, Provincia non periferia. Innovare le diversità italiane, Egea, Milano 2019.