Scritto da Mark Leonard
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Mark Leonard è cofondatore e direttore dell’European Council on Foreign Relations, un think tank pan-europeo che riunisce oltre 300 trecento decisori politici e studiosi di primo piano. Nel suo ultimo libro – L’era della non pace. Perché la connettività porta al conflitto, recentemente uscito in edizione italiana con prefazione di Marta Dassù per Bocconi University Press / Egea – ricostruisce il fallimento della globalizzazione nel portare ad un’epoca di pace duratura. Alla sempre più stretta connessione del mondo è, infatti, seguita la creazione di un vasto arsenale di armi e strumenti per nuovi tipi di tensioni e ostilità. Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’editore, un estratto del testo.
Sono passati quattro decenni da quando un gruppo di studenti iraniani occupò l’ambasciata statunitense a Teheran al grido di «Morte all’America!». Tennero prigionieri decine di americani per 444 giorni, scatenando una crisi di ostaggi che è rimasta una delle umiliazioni più cocenti subite dalla politica estera americana sin dalla fondazione della Repubblica. Gli ostaggi vennero liberati all’inizio del 1981 dopo un accordo raggiunto dai due paesi, ma l’ambasciata non è stata più riaperta.
Oggi il vecchio complesso che la ospitava è un centro di addestramento per le Guardie rivoluzionarie iraniane. Accanto ai memoriali dedicati all’Ayatollah Khomeini e ai «Martiri della Rivoluzione», si trova il museo Den of Espionage (Tana dello spionaggio), il cui fine è custodire la memoria della perfidia americana. In un caldo pomeriggio del 2014 ho visitato il museo accompagnato da una giovane guardia rivoluzionaria, che mi ha parlato di tutti i mali della cultura americana mentre con dovizia scientifica mi elencava tutti gli errori di Argo, il film di Hollywood che ricostruisce l’assedio dell’ambasciata. Il museo conserva tutte le reliquie dell’atteggiamento imperialista americano: ricostituendo dolorosamente i documenti top secret fatti a pezzi, esponendo cimici e registratori, computer mainframe grandi come stanze e i resti dell’elicottero americano precipitato nel fallito tentativo di salvataggio al culmine della crisi degli ostaggi. La sontuosa scalinata che conduce i visitatori all’interno dell’ambasciata è stata trasformata in una ricostruzione grafica della politica estera americana con graffiti che ritraggono i momenti clou, come l’abbattimento del volo Iran Air 655 nel 1988, l’attacco al World Trade Center nel 2001, le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq e le prigioni militari di Guantánamo Bay e Abu Ghraib. L’intero edificio è diventato una macchina del tempo: una visione anacronistica del futuro, pieno di tecnologie ormai obsolete. Questa visione viene conservata come una ferita aperta su cui spargere sale ogniqualvolta l’Iran ha bisogno di un nemico esterno intorno al quale mobilitare il suo popolo. Ma gli iraniani di oggi sono meno preoccupati da queste espressioni antiquate del dominio americano che non dalle pressioni «high-tech» subite più di recente. L’impossibilità di acquistare un biglietto d’ingresso al museo – o qualsiasi altra cosa in Iran – usando una carta di debito o di credito è dovuta alla precisione chirurgica con cui Washington ha sfruttato il dominio del dollaro per escludere un paese di 83 milioni di persone dai mercati finanziari globali. E i giovani rivoluzionari come la mia guida ritengono che l’Iran sia stato il bersaglio del primo atto di guerra cibernetica per mano degli americani e degli israeliani, e che questo attacco continui a perseguitare il paese ancora oggi.
Carl von Clausewitz ha notoriamente definito la guerra come la continuazione della politica con «altri mezzi». Ma l’«altro mezzo» utilizzato nell’odierno Medio Oriente è proprio la connettività. I giovani iraniani hanno abbracciato appieno la rivoluzione digitale e la popolazione del paese è connessa agli angoli più remoti del pianeta attraverso legami di amicizia e parentela, la comune identità religiosa sciita e scambi commerciali nati due millenni fa nell’epoca delle vie della seta. E oggi l’Iran si trova al centro della nuova era della non-pace, probabilmente più di qualsiasi altro paese: è a un tempo vittima e carnefice dei conflitti di connettività che stanno dilaniando il nostro mondo. La sua situazione ci dice molto su come la connettività stia creando conflitti a livello globale. Ci mostra come i legami della globalizzazione e della rivoluzione digitale abbiano dato sia a Teheran che ai suoi nemici un movente, oltre che l’opportunità, per sposare il conflitto. Il dramma dell’Iran ci fa capire come la connettività abbia reso il conflitto meno costoso, abbia contribuito a costruire e ad accendere le frustrazioni e abbia portato a un equilibrio di potere che rende la strada del conflitto appetibile sia agli occhi dei deboli quanto a quelli dei forti.
Interdipendenza e conflitto
Statisti e studiosi si sono arrovellati per anni sull’interdipendenza, per cercare di capire se sia una dinamica in grado di fermare la guerra o se al contrario la ingeneri[1]. E i popoli del Medio Oriente sono stati la piastra di Petri in carne e ossa di questo esperimento.
I liberali, a partire da Immanuel Kant nel suo geniale saggio settecentesco Per la pace perpetua, hanno sostenuto che l’interdipendenza economica favorisce la pace. I mercati aperti eliminano uno dei maggiori casus belli della storia: la necessità di accedere alle materie prime e ai consumatori dei prodotti. Se uno Stato può accedere a tutto ciò di cui ha bisogno attraverso il commercio, che senso ha spargere sangue? Inoltre, il processo stesso dello scambio crea legami profondi tra le élite dei diversi paesi e le fa sentire meno avulse e distanti. Una volta che questi legami siano stati instaurati, vengono a crearsi forti interessi su entrambi i versanti, in grado di esercitare pressioni sui rispettivi governi per distoglierli dall’uso della guerra. La cosiddetta «teoria della pace di Dell» postula che la guerra è impossibile tra nazioni collegate da filiere come quelle dell’azienda informatica Dell, perché sarebbe proibitiva in termini di costi e di stravolgimenti negativi[2]. I liberali credono anche nel potere delle istituzioni internazionali, che possono arrivare a vivere di vita propria e diventare paladine degli interessi comuni. È questo tipo di pensiero che ha portato i governi di Regno Unito, Francia e Germania (dopo il caos della guerra in Iraq) a suggerire una via d’uscita diplomatica dalla crisi nucleare iraniana. Nel 2005, piuttosto che entrare in guerra con Teheran, hanno cercato di integrarla nell’economia globale e di rimuovere le ragioni alla base del desiderio del paese di dotarsi di armi nucleari. Speravano di sostituire la corsa agli armamenti regionale con la logica della distensione.
Di contro, i cosiddetti «realisti» sostengono che i legami tra i paesi possono creare insicurezza, che a sua volta rende più probabile il conflitto. Decenni fa l’economista politico Albert Hirschman sosteneva che le relazioni commerciali raramente avvantaggiano entrambe le parti in egual misura e che questa asimmetria può portare a tensioni. Talvolta il paese che si trova sul lato sbagliato dell’accordo può temere che i legami commerciali alterino l’equilibrio di potere[3]; altre volte la relazione può essere talmente sbilanciata a favore di una delle due parti che l’altra può permettersi di rinunciare allo scambio pagando un prezzo relativamente basso. Alcuni leader hanno usato l’espansione militare per liberarsi della dipendenza economica da altre nazioni, utilizzando il commercio di armi per stimolare la domanda interna[4]. Inoltre, raramente le decisioni sulla guerra e sulla pace vengono prese dai ministeri economici o influenzate dalle imprese quindi, anche se questi gruppi fossero contrari alla guerra, le loro voci potrebbero restare inascoltate[5]. Questo è sicuramente il caso dell’Iran, dove le varie branche del potere operano secondo logiche diverse. I diplomatici che passano il tempo a negoziare accordi nucleari con gli europei non controllano le Guardie rivoluzionarie e le campagne paramilitari che conducono in tutta la regione. Ed è proprio il timore di correlazioni troppo strette con le economie occidentali – che potrebbero in seguito ricattare l’Iran – ad aver spinto gli oltranzisti del sistema iraniano a mettere i bastoni tra le ruote ai negoziati sul nucleare alla prima occasione.
Un lavoro empirico svolto di recente getta nuova luce sui dibattiti intorno alla teoria della guerra, della pace e della connettività, dando ragione a entrambe le scuole di pensiero. L’interdipendenza sembra rendere meno probabile la guerra convenzionale, come sostengono i liberali. Ma la brutta notizia è che rende anche più probabile il conflitto tra le nazioni, come i realisti temono da tempo. Il politologo americano Eric Gartzke è giunto a questa conclusione dopo aver studiato oltre 100.000 conflitti politici, economici e militari che hanno coinvolto 150 paesi nell’arco di diversi decenni[6].
Gartzke paragona il conflitto tra le nazioni al classico «gioco del pollo», quello di James Dean e Corey Allen in Gioventù bruciata, per intenderci. Le parti sanno che lo scontro avrebbe effetti catastrofici per entrambe, ma ci sono dei vantaggi se è l’avversario ad arrendersi per primo. Per questo cercano in tutti i modi di dimostrare che non cederanno: per aumentare la propria credibilità e la probabilità che sia l’altro ad arretrare. In un’era nucleare il confronto militare è pericolosissimo, e anche la guerra convenzionale richiede sacrifici che oggi come oggi poche popolazioni sono disposte ad accettare. La guerra è talmente costosa che nessuno Stato è disposto a combatterla per una scaramuccia. Il rischio è quindi che le piccole frustrazioni si accumulino fino a diventare nell’insieme abbastanza importanti da provocare una guerra. Ed è qui che entra in gioco l’interdipendenza. Se gli Stati sono reciprocamente legati da molteplici legami economici e umani, hanno l’opportunità di segnalare il loro malcontento senza pagare il pesante prezzo di una guerra totale. La manipolazione dell’interdipendenza, sostiene Gartzke, crea una «via di mezzo» tra il dialogo e la guerra, riducendo i conflitti militarizzati ma aumentando quelli non militarizzati su una più ampia gamma di questioni minori. È proprio il fatto che la guerra sia così costosa a spingere i paesi a cercare maniere più economiche per entrare in conflitto tra loro, e quanto più grandi sono i legami tra le nazioni, tanto maggiore è l’opportunità di entrare in conflitto.
Quindi, se i dati di Gartzke sono corretti, il partner naturale della «pace perpetua» di Kant è il conflitto perpetuo. Gli ho chiesto se le cose stiano effettivamente così e ha confermato. Gartzke paragona l’aumento dell’interdipendenza alle cene di famiglia nelle feste comandate, come quella del Ringraziamento: mettere le persone a contatto ravvicinato per un certo periodo di tempo può alimentare amore e affetto, ma spesso è anche causa di tensioni. Legare i paesi tra loro non crea solo armonia, ma moltiplica anche le opportunità e i motivi di conflitto. Non credo che in Medio Oriente ci siano molte persone che festeggiano il Giorno del Ringraziamento, ma è una regione con una popolazione in crescita che intesse sempre più legami. Questi legami hanno provocato tensioni che talvolta sono sfociate in guerre al cardiopalma. Ma sebbene siano quasi sempre le guerre a finire in prima pagina, le maggiori rivalità sono quelle che nascono nella zona grigia tra guerra e pace individuata da Gartzke.
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La fine dell’ordine
In occasione del centenario della Prima guerra mondiale molti si sono chiesti se la storia si sarebbe ripetuta. Nel 1914 la globalizzazione si è interrotta perché le grandi potenze sono entrate in guerra tra loro. Con la disgregazione dell’ordine liberale e il ritorno della competizione geopolitica è naturale temere che quell’esperienza possa ripetersi. Ma nel 1914 il mondo era completamente diverso dalla nostra epoca fatta di ambiguità, cambiamenti repentini e stravolgimenti dello status quo. Il principio dirimente di quell’epoca, in vigore sin dalla pace di Westfalia, era la linea di demarcazione tra politica interna e politica estera. Le superpotenze si impegnarono a non interferire negli affari interni delle altre.
In questi nostri anni Venti potremmo assistere al manifestarsi della dinamica diametralmente opposta. Oggi il grande pericolo è che la globalizzazione venga distrutta proprio perché le grandi potenze non vogliono entrare in guerra. In assenza di guerra, manipolano i legami tra i rispettivi paesi e inducono tutti a vedere l’interdipendenza come una vulnerabilità.
Nel nostro mondo fatto di reti, sfide come il terrorismo, la guerra cibernetica, il cambiamento climatico e i flussi di rifugiati hanno dissolto la distinzione tra ciò che è interno e ciò che è esterno, tra la dimensione nazionale e quella estera. E non c’è più una demarcazione netta tra guerra e pace.
Nel mondo fisico, molti stanno sperimentando nuove forme di coercizione che esulano dalla definizione tradizionale di guerra, mobilitando forze speciali e «omini verdi», guardie costiere che si intromettono in acque internazionali o guerre per procura attraverso il finanziamento di gruppi di ribelli. A ciò si aggiunge un perenne conflitto digitale, che va dalla disinformazione all’acking e dalla fuga di notizie fino alla distruzione di interi impianti nucleari.
In molti hanno sperato che l’ordine globale delle reti venisse definito dai flussi di beni e servizi piuttosto che dai blocchi di potere, e dai diritti degli individui piuttosto che da Stati in guerra. Costoro hanno cercato di costruire un nuovo mondo basato sulla sovranità condivisa, sull’interdipendenza reciprocamente vantaggiosa e su norme universali che portassero a un ciclo virtuoso e che tutti avrebbero finito con l’accettare. Ma anziché rendere il potere irrilevante, le reti hanno semplicemente fornito nuovi strumenti e nuove tecniche per esercitarlo.
Nell’era della non-pace, il potere si esercita attraverso il controllo dei flussi di idee, persone, beni, denaro e dati e attraverso le connessioni che essi stabiliscono. E in questo mondo non possiamo non constatare come le forze che avrebbero dovuto unirlo lo stiano di fatto spaccando. Per capirlo fino in fondo dobbiamo esaminare in maggior dettaglio i terreni di scontro del XXI secolo. Dobbiamo esplorare l’anatomia della non-pace.
[1] Norman Angell, l’unica persona a essere stata insignita del premio Nobel per la Pace per aver scritto un libro, nel 1910 sostenne che l’espansione del libero scambio avrebbe creato una maggiore interdipendenza tra gli Stati e, oltre al miglioramento dell’istruzione, avrebbe reso la guerra irrazionale (in virtù del pericolo di distruzione reciproca) e incivile. Lo scoppio della Prima guerra mondiale nell’agosto del 1914 sembrò confutare la sua tesi principale. Argomentazioni simili sono state avanzate circa l’apertura di Richard Nixon nei confronti della Cina, la Ostpolitik di Willy Brandt e la strategia di distensione con l’Unione Sovietica di Henry Kissinger.
[2] Thomas Friedman, The World Is Flat. A Brief History of the Twenty-first Century (terza edizione), Picador, Londra 2007, trad. it. Il mondo è piatto. Breve storia del ventunesimo secolo, Mondadori, Milano 2006.
[3] Albert Hirschman, National Power and the Structure of Foreign Trade, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1945, trad. it. Potenza nazionale e commercio estero, il Mulino, Bologna 1987.
[4] Secondo Dale Copeland, quando nutrono aspettative positive sul futuro contesto commerciale i leader vogliono mantenere la pace per assicurarsi i vantaggi economici che rafforzano il potere a lungo termine. Quando, tuttavia, queste aspettative diventano negative, i leader temono di perdere l’accesso alle materie prime e ai mercati e tendono a essere incentivati ad avviare una crisi per proteggere i loro interessi commerciali. Dale C. Copeland, Economic Interdependence and War. A Theory of Trade Expectations, «International Security», 20, n. 4 (1996), pp. 5-41.
[5] Ibidem.
[6] Erik Gartzke, Interdependence really is complex, University of California San Diego, febbraio 2010 (pdf disponibile online).