L’eredità di Enrico Berlinguer. Interpretazioni a confronto
- 09 Febbraio 2021

L’eredità di Enrico Berlinguer. Interpretazioni a confronto

Scritto da Gianluca Panciroli

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L’immagine pubblica di Enrico Berlinguer, segretario del Pci dal 1972 al 1984, sconta un destino singolare. A prima vista, la figura dello storico leader comunista pare godere di una stima e di un consenso riservati a ben pochi esponenti politici della cosiddetta Prima Repubblica. Questa valutazione generalmente positiva deriva in buona parte dall’identificazione di Berlinguer con l’immagine dell’uomo politico “perbene”, contraddistinto da rettitudine e onestà e capace di incarnare un’idea “alta”, nobile della politica, intesa come servizio nei confronti della cittadinanza. Riflesso di questa diffusa valutazione favorevole presso l’opinione pubblica è l’ambizione di numerose forze politiche di intestare a sé stesse una continuità autentica con i «valori di Berlinguer». Se non stupiscono i frequenti omaggi resi al leader sardo da dirigenti delle forze politiche di sinistra e centrosinistra, più interessante risulta essere il tentativo di appropriarsi del patrimonio ideale associato a Berlinguer da parte di schieramenti che sulla carta hanno ben poco a che spartire con la tradizione politico-culturale del Pci: attraverso alcuni dei suoi esponenti più in vista, il Movimento 5 Stelle ha a più riprese affermato di essere il naturale depositario delle battaglie del leader sardo, con particolare riferimento alla «questione morale». Dal canto suo, Matteo Salvini ha recentemente rivendicato l’esistenza di una continuità tra le istanze della Lega e quelle a suo tempo avanzate dalla «sinistra di Berlinguer».

In cosa consiste, dunque, il destino singolare menzionato nell’incipit? In breve, quando l’omaggio all’icona lascia il posto all’analisi storico-politica, la figura di Berlinguer comincia a diventare divisiva. All’interno del milieu politico-culturale della sinistra postcomunista l’azione politica di Berlinguer e il retaggio che da essa è derivato sono oggetto di discussione da oltre un quarto di secolo. Da questo dibattito sono scaturite due interpretazioni diametralmente opposte della figura del leader sardo; interpretazioni che con il tempo hanno finito per irrigidirsi, rendendo arduo qualsiasi tentativo di pervenire a una sintesi tra le due. La polarizzazione in merito all’operato del leader del Pci rappresenta una vera e propria cartina di tornasole dei travagli identitari che da ormai tre decenni caratterizzano la vicenda della sinistra italiana. È bene pertanto osservare i caratteri delle due interpretazioni e la loro evoluzione nel tempo.

L’interpretazione critica nei confronti di Berlinguer sorge in un momento storico preciso, intorno alla metà degli anni Novanta, più precisamente nel 1996. Nell’aprile di quell’anno la coalizione di centrosinistra, L’Ulivo, esce vincente dalle elezioni politiche e la sinistra postcomunista si appresta ad affrontare la sua prima esperienza di governo dopo la fine della Guerra fredda. Secondo alcuni intellettuali vicini al Partito Democratico della Sinistra, in questo scenario l’imperativo è quello di «dimenticare Berlinguer», come recita il titolo del celebre pamphlet di Miriam Mafai uscito nell’autunno di quell’anno. La giornalista fiorentina, firma prestigiosa de la Repubblica, già militante comunista e all’epoca deputata del Pds, comincia la sua riflessione riconoscendo che Berlinguer ha simbolizzato «l’idea nobilissima di una politica intesa come sacrificio, sofferenza, abnegazione, servizio», in una fase in cui «la politica stava perdendo già molto del fascino che aveva avuto in Italia nei decenni precedenti, e mentre si facevano sempre più preoccupanti […] i segni di una crisi, di un distacco dei cittadini dai partiti». Tutto ciò avrebbe conferito a Berlinguer un’aura mitica, di eccezionalità; e «proprio perché è entrato nel mito – continua l’autrice – è così difficile parlarne oggi, discuterne le scelte politiche, senza apparire quasi blasfemi. Eppure, all’interno di una temperie che ha profondamente modificato, ormai, la fisionomia di tutti i partiti […] è necessario fare i conti anche con la sua eredità»[1].

La critica di Miriam Mafai concerne in primo luogo la strategia del «compromesso storico». Nel presentare questa strategia sul settimanale del Pci Rinascita tra il settembre e l’ottobre 1973, Berlinguer auspicava un’alleanza tra le forze rappresentanti del mondo popolare al fine di salvaguardare la democrazia italiana e indirizzare il Paese verso una prospettiva di progresso sociale, attraverso l’introduzione di «elementi di socialismo» nella realtà italiana. Sin dal principio, il «compromesso storico» si configurava pertanto come una strategia ambo difensiva e propositiva. Secondo Miriam Mafai, la proposta di Berlinguer rivela la concezione assembleare della democrazia propria del Pci. Non potendo accedere al governo in forza della pregiudiziale anticomunista in tempi di Guerra fredda, il Pci avrebbe puntato su un’alleanza con la Dc per aggirare l’ostacolo della conventio ad excludendum e garantirsi l’opportunità di giocare un ruolo di primo piano nelle scelte decisive per il Paese. In tale ottica, il «compromesso storico» si configura come una scelta strategica anacronistica, rivelatrice del profondo ritardo da parte del Pci nell’accettare l’inevitabilità di una evoluzione in senso riformista, sul modello delle coeve socialdemocrazie europee. Grande ingenuità è attribuita alla scelta di affidare a uno stretto rapporto con la Democrazia Cristiana un percorso di trasformazione radicale degli assetti sociali ed economici del Paese. Questa ingenuità da parte del Pci e del suo leader si paleserebbe platealmente nel periodo dei governi di «solidarietà nazionale», tra il 1976 e il 1979, con la scelta del Pci di sostenere due governi monocolore Dc guidati da Giulio Andreotti[2].

Non meno tranchant è il giudizio che Miriam Mafai riserva all’«ultimo Berlinguer», quello che, terminata l’esperienza della «solidarietà nazionale» e ripristinata la conventio ad excludendum con la nascita del Pentapartito, denuncia la «questione morale» e rivendica la «diversità» del Pci rispetto alle altre forze politiche. Il cambiamento di linea che sancisce l’inizio della nuova fase è descritto come brusco, frutto di una «scelta solitaria», a sua volta dettata dalla volontà di Berlinguer di ridare al Pci la fisionomia di «partito di lotta», dopo che gli anni della «solidarietà nazionale» ne avevano offuscato tale immagine. Mafai tratteggia un Berlinguer «insofferente di opposizione», che trincera il suo partito in una strenua difesa della propria presunta diversità, riducendolo ad esercitare un «ruolo di pura opposizione e testimonianza», in una deriva «di tipo operaistico, estremistico e radicale»[3].

Su tutto si staglierebbe l’anacronismo della visione berlingueriana della società. Secondo Mafai, all’effetto deformante delle lenti marxiste sono da attribuire la concezione catastrofistica della crisi economica degli anni Settanta e l’insistenza su una presunta centralità della classe operaia come «motrice della Storia». A pesare contribuirebbero però anche e forse soprattutto altri anacronismi, più specificamente riconducibili alla visione della società propria di Berlinguer: il riferimento è all’ostilità nei confronti dei consumi individuali e più in generale a un presunto atteggiamento di rigida chiusura nei confronti della modernità da parte del leader sardo. Secondo Mafai, la personale inclinazione antimoderna di Berlinguer lo avrebbe portato ad essere preoccupato, specialmente dopo il risultato del referendum sul divorzio, «per l’emergere nella nostra società di disordinate spinte libertarie, una modernità che stracciava antichi valori e istituti e che, nell’assenza di nuove regole, rischiava di portare la nostra società al decadimento morale e sociale»[4].

Come già accennato, appare evidente l’obiettivo del testo di Miriam Mafai: quello di condizionare il percorso politico-culturale della sinistra postcomunista appena giunta al governo. La sinistra italiana è esortata dall’autrice a liberarsi di una concezione assembleare della democrazia rappresentativa e di un’idea collettivistica della società e a sviluppare invece in modo compiuto una cultura di governo all’interno del nuovo sistema maggioritario.

Nel 2014 Claudia Mancina, filosofa politicamente impegnata nel Partito Democratico dà alle stampe un testo assai simile, per forma e contenuti, a quello pubblicato quasi due decenni prima da Miriam Mafai. Non a caso, le critiche nei confronti dell’operato di Berlinguer vengono riproposte in un’altra fase particolarmente significativa della vicenda della sinistra italiana, caratterizzata dall’ascesa di Matteo Renzi all’interno del Partito Democratico. Nel quarto di secolo successivo all’implosione del mondo comunista, questa la tesi di Mancina, la classe dirigente postcomunista è rimasta prigioniera del retaggio di Berlinguer, privilegiando la dimensione etico-identitaria e rifiutando di abbracciare la vocazione maggioritaria propria di un vero partito riformista. Se Miriam Mafai aveva parzialmente salvato la «questione morale», definendola «denuncia sterile» ma pur sempre «altissima», Mancina appare più dura, definendo la denuncia di Berlinguer uno «scarto sull’etica» atto a coprire un vuoto politico. Il giudizio più severo fornito da Claudia Mancina sembra essere un segno dei tempi: la «questione morale» è ora posta sul banco degli imputati con l’accusa di essere una delle radici dell’antipolitica italiana. Nella fase finale della sua segreteria Berlinguer avrebbe indicato una soluzione “moraleggiante” alla crisi del sistema politico italiano, premurandosi però al contempo di costruire l’immagine di un Pci totalmente estraneo al sistema «partitocratico». Così facendo, Berlinguer avrebbe avallato l’idea di una superiorità morale e antropologica della sinistra e inaugurato l’utilizzo dell’arma giustizialista per coprire i deficit della sinistra italiana in termini di concrete proposte riformiste[5].

La stima nei confronti di Berlinguer nel popolo della sinistra è tale da rendere inevitabile una risposta ai rilievi mossi dai suoi critici. Nel 1997, pochi mesi dopo la pubblicazione del pamphlet di Miriam Mafai, la giornalista Chiara Valentini pubblica una versione aggiornata della sua biografia di Enrico Berlinguer (originariamente uscita per Mondadori nel 1989), dando voce a quella parte della sinistra che conserva un’idea molto positiva della leadership di Berlinguer. La narrazione biografica si presta particolarmente bene tanto a spiegare le ragioni profonde delle scelte compiute dal leader del Pci, quanto a mostrare l’attualità del pensiero e della prospettiva politica berlingueriani[6].

Anzitutto, l’autrice invita a collocare pienamente il compromesso storico nella delicata fase attraversata dalla Repubblica Italiana negli anni Settanta. In tal senso, è evidenziato il contributo che la proposta del Pci ha fornito alla compattezza politico-istituzionale del Paese e, conseguentemente, alla salvaguardia dell’ordinamento democratico. Un merito non da poco, se si considerano le minacce poste all’ancora recente democrazia italiana in quel decennio: dalla strategia della tensione, con il correlato stragismo neofascista, al terrorismo rosso, senza dimenticare la prima, grave crisi economica dal Secondo dopoguerra[7].

È però l’«ultimo Berlinguer», proprio quello più aspramente criticato dai detrattori, ad essere maggiormente valorizzato da Chiara Valentini. L’autrice mette infatti in luce la capacità di analisi a lungo termine del leader sardo, caratteristica che storicamente lo renderebbe alla stregua di un profeta nel deserto di offerta politico-culturale degli anni Ottanta. Della «questione morale» l’autrice evidenzia la natura profondamente politica, inerente alla questione della rappresentanza: Berlinguer sarebbe stato tra i primi a comprendere che l’occupazione superba dei gangli dello Stato da parte dei partiti stava aprendo una voragine tra classe politica e società civile. La soluzione prospettata dal segretario comunista, quella di ridefinire all’insegna della trasparenza il rapporto tra partiti politici e istituzioni, non avrebbe avuto seguito a causa della scarsa lungimiranza e dell’avidità di potere delle forze del Pentapartito, e non certo per una sua intrinseca natura velleitaria. L’attitudine lungimirante di Berlinguer secondo Valentini va ben oltre la «questione morale», per abbracciare tematiche di rilevanza globale. L’autrice sottolinea la tempestiva attenzione di Berlinguer verso i temi della limitatezza delle risorse e della compatibilità ambientale; la sua riflessione sui potenziali utilizzi, buoni e cattivi, delle nuove tecnologie; la spiccata sensibilità mostrata nei confronti del divario tra Nord e Sud del mondo; la comprensione della necessità di affrontare globalmente le imminenti sfide del nuovo millennio. Valentini può così concludere che il più grande merito di Berlinguer è «stato proprio quello di costituire un orizzonte politico e ideale diverso per la sinistra […] Berlinguer ha avuto la capacità di lasciarsi dietro una sinistra migliore e più aperta al nuovo, in cui hanno potuto riconoscersi molti, sia intellettuali che gente comune, anche se provenienti da mondi e culture differenti». Perché, chiarisce l’autrice: «senza utopie, senza “pensieri lunghi”, in altre parole senza la speranza di cambiare il mondo, quale può mai essere il ruolo anche della più riformista delle sinistre?»[8]. Il Berlinguer descritto da Valentini non è il ritardatario cronico incapace di comprendere la modernità. Semmai è il suo opposto: è un leader capace di mettere apertamente in discussione un modello di società incentrato sul profitto e sullo sfruttamento intensivo delle risorse; un leader in grado di indicare nuove traiettorie di progresso sociale nel contesto di fine XX Secolo.

Considerato quanto visto sinora, risulta decisivo osservare come la storiografia ha analizzato la vicenda di Enrico Berlinguer, per vedere se e in che misura la consultazione dettagliata degli archivi ha permesso di accrescere la comprensione della biografia politica del leader sardo. L’anno che segna una svolta cruciale nella storiografia su Berlinguer è il 2006: in quell’anno vedono infatti la luce quelli che sino ad ora si possono considerare senza dubbio i lavori di ricerca più importanti sull’azione politica di Berlinguer.

Il primo lavoro è Berlinguer e la fine del comunismo di Silvio Pons, allora direttore dell’Istituto Gramsci, edito da Einaudi[9]. L’autore si avvale di un corposo numero di fonti, integrando le carte dell’archivio nazionale del Pci con documenti presenti negli archivi americani e negli archivi russi. Ciò che balza subito all’occhio, rispetto alle analisi politico-giornalistiche precedenti e successive, è la maggior enfasi posta sull’inestricabile nesso tra la dimensione internazionale e quella nazionale nella strategia di Berlinguer. La parola chiave in questo senso è «eurocomunismo»: negli anni Settanta il riconoscimento da parte del Pci della propria appartenenza al blocco occidentale, con l’abbandono della pregiudiziale anti-Nato, avrebbe dovuto costituire il primo passo verso la formazione di un nuovo equilibrio internazionale, che vedesse il superamento dei blocchi e l’affermazione di un’Europa «né antisovietica né antiamericana» in cui far valere le ragioni di un comunismo diverso da quello propugnato dai regimi est europei. Il «compromesso storico» costituirebbe il versante interno di una strategia di respiro internazionale; una strategia, però, destinata a scontare una sottovalutazione del carattere stabilizzatore, conservatore, che le due superpotenze intendevano conferire al processo di distensione. In quest’ottica, quello del Pci di Berlinguer si configurava inevitabilmente come un progetto dalle basi fragili[10]. La critica di Pons alla strategia di Berlinguer si fa più serrata quando sono prese in esame le scelte compiute dal leader sardo nel quinquennio compreso tra il 1979 e la sua morte. Anche dopo la fine del processo di distensione, a seguito dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, Berlinguer non avrebbe infatti abbandonato la strategia eurocomunista, pure ormai priva di riferimenti internazionali in uno scenario segnato da un ritorno delle logiche della Guerra fredda. In questa fase, sottolinea l’autore, «con un’energia non minore di quella profusa durante gli anni Settanta, Berlinguer affermava l’esistenza di una missione del comunismo italiano ai fini di un rinnovamento del socialismo occidentale e di una riforma del comunismo sovietico»[11].

Nel complesso Pons riconosce alla strategia di Berlinguer il merito di aver allontanato culturalmente il Pci dal socialismo reale e, contestualmente, quello di averlo avvicinato alla sinistra europea. Si sarebbe però trattato di un processo incompiuto: l’autore afferma infatti che «il lascito dell’eurocomunismo presentava il duplice volto di un presupposto all’integrazione nella sinistra europea ma anche di un impedimento che teneva fermo l’anatema contro ogni “socialdemocratizzazione”» finendo per chiudere il Pci nel vicolo cieco della «diversità» etica. Quello operato da Berlinguer fu dunque, secondo l’autore, un «cambiamento culturale privo di autentici modelli politici, fondato su un principio di autosufficienza. Il linguaggio dei comunisti italiani ne fu uno specchio. Liquidato in buona parte il lessico marxista-leninista, esso intensificò, invece di attenuarlo, il proprio carattere metaforico e metapolitico […] negli ultimi anni di Berlinguer divennero moneta corrente formule inafferrabili come quella della “terza via” tra socialismo sovietico e socialdemocrazia». Lo studioso fiorentino conclude il proprio libro affermando che «La trasformazione della cultura politica del comunismo italiano fu […] un dato autentico, ma anche un dato anomalo nel panorama delle culture politiche europee. La sua problematica identitaria rispose a un’esigenza reale, riflettendo però l’elusione di profonde contraddizioni culturali e politiche. L’eredità di Berlinguer fu un’eredità debole, la premessa di un postcomunismo che anteponeva la propria visione etica e universalistica alle sfide reali della politica»[12].

Totalmente differenti sono le conclusioni del lavoro di ricerca di Francesco Barbagallo. Il libro Enrico Berlinguer, edito da Carocci, presenta i caratteri di una biografia politica del leader sardo, dai primi passi nel “partito nuovo” di Togliatti nel 1944 sino alla morte. L’analisi di Barbagallo è fondata su una vastissima documentazione reperita presso l’archivio Pci dell’Istituto Gramsci[13]. Elemento comune con l’analisi di Pons è l’attribuzione di un’assoluta centralità alla proiezione internazionale della strategia di Berlinguer. Il segretario del Pci, afferma Barbagallo, considerava il socialismo reale «un sistema da riformare profondamente» e «la riforma principale consisteva nell’innesto della libertà e della democrazia sul tronco del comunismo»[14] Gli elementi in comune alle due analisi, però, finiscono qui. Infatti, se Pons ritiene che la strategia di Berlinguer mirante a riformare il comunismo sovietico e ad accreditare il Pci come forza di governo nazionale fosse sin dalle origini irrealizzabile a causa «delle sue aporie politiche e culturali», Barbagallo invita alla cautela, non considerando tale strategia come preventivamente destinata al fallimento. Sul progetto di Berlinguer di incentivare una riforma del socialismo reale, Barbagallo afferma: «l’estremo tentativo di riformare il sistema sovietico in disfacimento sarà operato da Gorbačëv tenendo presente anche il “modello italiano” – e prosegue avvertendo – bisogna stare attenti a interpretare il crollo successivo dell’impero sovietico in chiave deterministica, perché nel processo storico tutte le possibilità restano aperte fino al compimento di una determinata soluzione»[15].

Volgendo lo sguardo al versante nazionale della strategia berlingueriana, la valutazione di Barbagallo permane positiva. Con il «compromesso storico», Berlinguer si sarebbe proposto obiettivi assolutamente realistici, non dissimili da quelli tentati da altri riformismi in Italia. Anzi, evidenzia lo storico, a ritornare erano «sempre gli stessi, sospirati obiettivi: riforma, programmazione, lotta ai parassitismi e ai privilegi, consumi sociali, Mezzogiorno»[16]. Il quadro che ne emerge è quello di un leader profondamente idealista ma al contempo capace di immergersi nei problemi della realtà italiana e di avocare a sé e al proprio partito la tradizione migliore delle forze riformatrici e progressiste del Paese, in un’ottica ben poco viziata da dogmi ideologici e da sogni di un rapido superamento del modello capitalistico. Il fallimento del «compromesso storico», malgrado l’accortezza di Berlinguer, sarebbe da ascrivere principalmente proprio agli ostacoli frapposti dalle forze internazionali ostili al Pci: su tutte Stati Uniti ed Unione Sovietica, accomunate dalla contrarietà alla prospettiva «eurocomunista».

Barbagallo riconosce l’isolamento del Pci nei primi anni Ottanta, ma ne attribuisce la responsabilità al «consociativismo» delle forze del Pentapartito, interessate unicamente alla spartizione del potere. Così come il «compromesso storico», anche la successiva strategia della «alternativa democratica» sarebbe stata «una proposta di governo incentrata sulla collaborazione delle grandi forze popolari»; la condizione che Berlinguer poneva, evidenzia lo storico campano, era che la politica non si riducesse «a mero esercizio di potere, gestione dell’esistente», ma tornasse ad agire «nell’interesse pubblico, collettivo, con una speciale attenzione ai ceti e alle situazioni meno favoriti»[17]. Infine, sempre relativamente all’«ultimo Berlinguer», Barbagallo evidenzia la capacità del leader del Pci di cogliere i problemi legati alla crescente sperequazione di ricchezza tra Nord e Sud del mondo e la sua battaglia per un modello di sviluppo più equo. Vi era certamente, secondo Barbagallo, «anche una dimensione utopica nel progetto di un modello sociale globale fondato su una determinata etica dello sviluppo – ma, conclude l’autore – un realismo senza un che di utopia non è che lo sforzo di tenere l’esistente»[18]. Per tutte le ragioni elencate, Berlinguer rappresenta secondo Barbagallo una felice eccezione nel panorama politico degli anni Ottanta, per il resto desolante.

Come si può facilmente rilevare, le tesi avanzate da Pons e da Barbagallo riecheggiano rispettivamente quella critica e quella positiva già emerse in sede politico-giornalistica. L’apporto forse più importante dei due storici è l’evidenziazione della dimensione internazionale della strategia berlingueriana. Entrambi gli storici tendono a collocare l’azione di Berlinguer entro una cornice ben più ampia di quella nazionale, partendo dall’obiettivo di fondo coltivato dal segretario comunista: quello di incentivare una riforma del socialismo reale all’insegna del pluralismo e della democrazia. Quando si tratta però di tirare le somme e fornire una valutazione complessiva non soltanto dell’azione ma anche e soprattutto dell’eredità di Berlinguer, si ripresenta il medesimo cleavage osservato per le pubblicazioni politico-giornalistiche. Pons conclude che quella di Berlinguer è un’eredità debole, etica ben più che politica, e che a decenni di distanza essa condiziona ancora in negativo la capacità dei dirigenti postcomunisti di affrontare le reali sfide della politica. Barbagallo, al contrario, ritiene che sia proprio l’aspirazione universalista dell’azione di Berlinguer a rendere la sua eredità un’eredità alta in senso politico. Per il surplus di autorevolezza derivante dalle scrupolose indagini eseguite con metodo scientifico, i testi di Pons e Barbagallo finiscono per conferire nuova linfa rispettivamente all’immagine critica e a quella positiva di Berlinguer già emerse precedentemente.

Il dibattito su Berlinguer ha permesso di accrescere la conoscenza sugli obiettivi di fondo dell’azione politica del leader sardo: la costruzione di un comunismo democratico in grado di superare sia il modello sovietico sia quello socialdemocratico. Le valutazioni di questo progetto differiscono notevolmente, dando luogo a due immagini opposte: il Berlinguer antimoderno descritto dai suoi critici e il Berlinguer lungimirante, quasi profetico descritto dai suoi ammiratori.

La polarizzazione del dibattito offre uno squarcio interessante sul complesso percorso identitario vissuto dalla sinistra postcomunista. Le opposte valutazioni dell’azione politica e dell’eredità di Berlinguer riflettono due concezioni di sinistra profondamente distinte, in contrasto tra loro e suscettibili di creare continue tensioni e divisioni all’interno di quella parte politica. La prospettiva critica attribuisce alla leadership di Berlinguer una scarsa comprensione della realtà sociale ed economica tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo; la lettura anacronistica della società proposta dal leader sardo avrebbe condizionato i suoi eredi, impedendo loro di sviluppare una concreta cultura riformista. L’analisi positiva parte invece da premesse antitetiche, considerando la proposta politica di Berlinguer come l’ultima realmente in grado di ragionare in termini complessivi di trasformazione del modello di sviluppo. Infine, alle accuse di velleitarismo degli obiettivi politici e di «massimalismo», i sostenitori di Berlinguer rispondono che il disinvolto utilizzo delle categorie di «riformismo» e di «realismo» finisce troppo spesso per celare una subalternità della sinistra ai dogmi della globalizzazione neoliberista.


[1] M. Mafai, Dimenticare Berlinguer. La sinistra italiana e la tradizione comunista, Donzelli, Roma 1996. La citazione è a p. 15.

[2] Ivi, pp. 24 e sgg.

[3] Ivi, p. 20.

[4] Ivi, p. 47.

[5] C. Mancina, Berlinguer in questione, Laterza, Roma-Bari, 2014.

[6] C. Valentini, Berlinguer. L’eredità difficile, Editori Riuniti, Roma 1997. La prima edizione è invece: Id., Berlinguer, Mondadori, Milano 1989.

[7] Ivi, pp. 18 e sgg.

[8] Ivi, p. 30.

[9] S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, Torino 2006.

[10] Ivi, cfr. pp. 21-92.

[11] Ivi, p. 202.

[12] Ivi. Le citazioni sono rispettivamente a p. 250, Introduzione P. XX, p. 258.

[13] F. Barbagallo, Enrico Berlinguer, Carocci, Roma, 2006.

[14] Ivi, p. 103.

[15] Ivi, p. 104.

[16] Ivi, p. 196.

[17] Ivi, p. 404.

[18] Ivi, p. 401.

Scritto da
Gianluca Panciroli

Laureato in Antropologia e Storia del mondo contemporaneo presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. I suoi interessi di ricerca vertono principalmente sulla storia delle culture politiche e sindacali dell’Italia repubblicana.

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