Scritto da Alessio Guglielmini
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Il senso del limite, di una perfezione fuggevole, di un apice da procrastinare drammaticamente all’infinito ha spesso attraversato la rielaborazione degli umori provenienti dall’Impero Romano del II secolo. Sulla scia, tra gli altri, di Edward Gibbon[1] e Michail Rostovzev[2], ormai quasi trent’anni fa, Aldo Schiavone con la stimolante indagine intitolata La storia spezzata[3] si domandava perché la storia si fosse appunto interrotta sul più bello, facendosi attendere quasi un millennio prima di recuperare anche solo parzialmente – con il rifiorire dell’Europa comunale tra l’XI e il XII secolo – la vitalità e il benessere che permeavano l’età degli Antonini.
L’affresco di quell’idillio Schiavone lo traeva dalle parole di Elio Aristide, giovane retore microasiatico di lingua greca che, forse nella primavera del 143 o 144 d.C., oppure un decennio dopo[4], forse in presenza dell’imperatore Antonino presso l’Athenaeum romano eretto per iniziativa di Adriano, celebrava con un elogio la grandezza di Roma, in occasione dell’anniversario della sua fondazione. Se l’allocuzione di Aristide rispettava il canovaccio dell’ars oratoria, ciò non toglie che quel quadro avvincente determinato dall’intreccio di una saggia organizzazione istituzionale, di una unificante civilizzazione dei costumi, di una trasformazione rigogliosa della natura e delle città, di una potenza economica esibita su larga scala, fosse a tal punto attendibile da essere, più tardi, condiviso dalla storiografia moderna venuta a traino.
Ciò che, nondimeno, Schiavone andava a rilevare al contempo, recuperandolo dai fondali, era un clima di angoscia patologica, indice dei timori che gravavano e premevano, mandando in affanno quel sentimento di spropositata fiducia: «Proprio nel cuore del benessere imperiale si era rappreso una specie di impasto oscuro, una zona di sensibilità tutta nuova, che se non arrivava a toccare per ora la sfera pubblica, si scopriva già distintamente nell’interiorità di alcune coscienze, e nella loro trascrizione letteraria»[5]. Una di quelle coscienze apparteneva proprio ad Aristide, compositore sì dell’Encomio di Roma, ma pure dei Discorsi sacri[6], definiti da Eric Robertson Dodds «la prima ed unica autobiografia religiosa» lasciata dal mondo pagano[7]. Aristide era un assiduo frequentatore del santuario di Asclepio a Pergamo presso il quale si recava a curare, mediante la rivelazione dei sogni (in gergo “incubazione”), la sua anima irrequieta e i suoi numerosi mali psicosomatici[8]. Il primo serio tracollo del giovane Aristide, che era nato nel 117, si dovrebbe incidentalmente alla trasferta romana durante la quale celebrò le glorie imperiali col famoso discorso, dopo un viaggio durato cento giorni in condizioni di estrema precarietà, anche se non tutti sono concordi nel far coincidere gli eventi[9]. In ogni caso, dopo il soggiorno romano, Aristide avrebbe ricevuto i primi segnali da Asclepio che, come documentato dai Discorsi, sarebbe diventato il punto di riferimento imprescindibile per il resto della sua vita. Tramite i vari sogni il dio avrebbe prescritto le cure, gli esercizi, perfino gli incentivi all’arte oratoria che avrebbero garantito ad Aristide la salvezza del corpo e dell’anima. Aristide predicava in buona sostanza il benessere pubblico, coltivando il disagio a livello personale.
Era proprio quell’acclamato benessere, troppo dolce per durare in eterno, a evocare provvidenzialmente, quasi per esorcizzarlo e ricacciarlo là da dove era venuto, lo spettro del decadimento e della fine? Oppure era la trama intima di una storia nascosta dietro le apparenze di quella ufficiale, una narrazione junghiana e psichica, che, proprio sulla scorta delle ricerche di Dodds[10], lo stesso Schiavone faceva affiorare, in senso critico[11], al fianco delle problematiche economiche, demografiche, militari che avrebbe poi esaminato nel resto del suo studio, per avvalorare la visione di quella storia spezzata che aveva visto bruscamente interrompersi il flusso di crescita e di sviluppo dell’intera Europa occidentale?
Effettivamente, l’irrazionalità riscontrata da Dodds nelle viscere delle credenze, dei pensieri, dei costumi e delle teologie del mondo classico ricade apertamente sul secolo degli Antonini. Si trattò (anche) di un’era di magia, astrologia, di divinazione, come ricordava lo stesso Schiavone[12]. Artemidoro, indagatore del grande contenitore onirico e dei suoi indizi, apparteneva interamente a quel secolo di prosperità pubblica e di isolamento privato. Isolato era ad esempio Marco Aurelio, al punto che sia Dodds che Schiavone ne hanno trascritto l’amara constatazione: «Tutta la vita del corpo è un fiume che scorre, tutta la vita della mente sogno e delirio; l’esistenza è una guerra e un soggiorno in una terra straniera; la fama è oblio»[13].
Ritorna in auge quel senso di straniamento che, nel caso di Marco Aurelio, può essere interpretato in chiave di più marcato presagio, dal momento che la fine del suo mandato sarebbe coincisa con il passaggio di consegne a Commodo, il cui avvento Gibbon indicò come termine del «periodo della storia universale nel quale la condizione umana fu più prospera e felice»[14]. Seguendo il filo di Dodds, non è tuttavia possibile incapsulare l’inquietudine nel riflesso notturno di quel secolo, senza guardarsi alle spalle o scrutare in avanti. Dodds intitolò la sua opera del 1965 Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia: se quell’epoca cominciò idealmente con Marco Aurelio e si protrasse, altrettanto idealmente, fino a Costantino, ciò non toglie che i germi di quel flusso instabile fossero sedimentati nel tempo. Nella sua opera più nota, I greci e l’irrazionale, anni prima Dodds azzardava infatti delle intromissioni sciamaniche perfino nel pensiero di Platone, suggerendo visuali che avrebbero chiaramente suscitato dibattiti e polemiche[15].
Era insomma il pensiero classico, per sua stessa natura, a non poter essere sdoganato esclusivamente come manifestazione aurea della ragione, bensì quale orizzonte diseguale che insieme contemplava l’ebbrezza allucinata, il furore profetico e un fervente misticismo, secondo le direttive della materia viva che Dodds metteva sul campo d’indagine, traendola dalle più recenti scienze psicanalitiche e antropologiche. Fatto sta, un irriducibile fiume carsico sembrava attraversare i secoli e diventare tanto più decisivo allorché sgattaiolava alla luce del sole rendendo polifonica, sempre per riprendere Schiavone[16], la voce di un secolo apparentemente illuminato, e pieno delle proprie certezze, come quello guidato con salda mano da Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio.
In che modo, al contrario, la voragine che si apriva dal di fuori andò ad accentuare la crisi interna? Una delle testimonianze del Dodds di Pagani e cristiani era sintomatica di uno scollamento “generazionale” che si riverberava in un’intimità costretta a trovare nuovi capisaldi nella spiritualità individuale, nel momento in cui la coralità del manto esterno andava a decomporsi. A parlare era Cipriano, vescovo di Cartagine morto nel 258 d.C., a cui peraltro venivano attribuite facoltà taumaturgiche: «Il mondo di oggi parla da sé: con le prove del proprio decadimento esso annuncia la propria dissoluzione. Gli agricoltori stanno sparendo dalla campagna, i commercianti dal mare, i soldati dai campi di battaglia; tutta l’onestà negli affari, tutta la giustizia nei tribunali, tutta la solidarietà nell’amicizia, tutta l’abilità nelle arti, tutte le norme della morale, tutto, tutto sta scomparendo»[17]. Negli altri passaggi di Cipriano recuperati da Dodds si balenavano foschi annunci sulla fine dei tempi e sui mali che si moltiplicano in questi frangenti[18]. Sembrava passato ben più di un secolo dall’orazione romana di Elio Aristide e i sintomi di disfacimento erano proprio quelli rintracciati da Schiavone, a cominciare dal ridimensionamento della vitalità commerciale e della produttività delle campagne. Indubbiamente, un certo profetismo apocalittico di stampo cristiano andava ad insinuarsi là dove le certezze dell’Impero si erano sgretolate, ma di profezie sulla caduta di Roma ce n’erano state anche in tempi meno sospetti, fin dalla versione raccontata da Antistene di Rodi, in età annibalica, e ripresa, non per caso come sottolineava Schiavone, da Flegonte di Tralle, proprio intorno alla metà del II secolo[19], ossia pressappoco nel periodo in cui Aristide pronunciava la sua famosa orazione.
La «razionalità senza paragoni», di cui diceva Schiavone rammentando Gibbon[20], sarebbe stata insomma la promettente vernice di un evo angustiato dal dubbio e da una minaccia, forse ancora poco visibile ma avvertita come imminente. O, più probabilmente, la ragione e le sue propaggini tecniche erano un antidoto contro il percepito di quella stessa logorante minaccia. In un altro passo significativo di La storia spezzata, l’autore coglieva il nesso tra fortificazione e riflessione sulla propria finitezza: «Nelle grandi costruzioni difensive, negli imponenti valli che gli ingegneri romani costruivano in quelle stesse stagioni ai confini dell’impero […] si intravede forse qualcosa di più remoto di una semplice e discutibile scelta strategica. Quelle mura si tradivano come la proiezione pietrificata delle paure segrete del secolo: un argine contro preoccupazioni e ansie che molti sentivano premere alla soglia delle loro menti»[21].
Una delle più imponenti opere di quel genere, il vallo di Adriano, imbastito negli anni Venti del secolo d’oro per arginare i Pitti, ci pone ancora una volta al cospetto del bipolarismo di quella circoscritta età perduta: da una parte, una linearità formale, e ragionevole, che costruiva certezze; dall’altra, un flusso nascosto e torbido che erodeva la struttura portante. L’altro, il barbaro, colui che cospirava oltre i confini imperiali diventava simmetrico all’altro, agente incalcolabile che proveniva dal di fuori della storia conclamata, che accadeva nel suo versante notturno popolato dai demoni. Se il vallo di Adriano, così come analoghe costruzioni, mirava a contenere le fiumane dei popoli ostili, la stessa rivendicazione della vicenda ufficiale della romanità, decantata da Aristide in occasione del compleanno dell’Urbe, si proponeva quale bastione contro gli strali del fato e la profezia autoinferta della propria caduta.
Questa cocente indecisione tra gloria e sventura, immortalità e finitezza nutre d’altro canto l’essenza di cui è intrisa l’opera di una vita di Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano[22]. Una confessione studiata, pensata, ritoccata, in più fasi e momenti, come testimoniano i Taccuini di appunti, in cui la Yourcenar inseguiva il senso della sua ricostruzione e la verità di quel fatidico II secolo. Anche lei, come Gibbon e Rostovzev, e successivamente Schiavone, avvertiva, a posteriori, il taglio inferto sulla storia da quegli anni ineguagliati: «Se mancasse qualsiasi altro documento, basterebbe la lettera di Arriano all’imperatore Adriano sul periplo del Mar Nero a ricreare nelle sue grandi linee questa figura imperiale: esattezza minuziosa del capo che vuol sapere tutto, interesse per i lavori della pace e della guerra, gusto per le statue somiglianti e ben fatte, passione per i poemi e le leggende d’altri tempi. E poi quel mondo, raro in tutti i tempi e che sparirà completamente dopo Marco Aurelio, in cui, ad onta delle più sottili sfumature di deferenza e di rispetto, il letterato e l’amministratore si rivolgono ancora al principe come a un amico»[23].
Rarità, fuggevolezza, apogeo e fine insieme di un’epoca: anche in quei diari della Yourcenar ritroviamo la fragilità perfetta di una stagione irripetibile. Una precarietà sublime restituita dal profilo di Antinoo, il giovane amante greco di Adriano scomparso prematuramente e divinizzato post mortem a congelare quella brevità incantevole. Il presagio della scomparsa di Antinoo incide d’altro canto lo scorrere delle Memorie, accostando quella relazione decisiva alla mitologizzazione del proprio ruolo di imperatore: «Non avevo atteso la presenza di Antinoo per sentirmi un dio. Ma il successo moltiplicava le occasioni di vertigine, intorno a me; pareva che le stagioni collaborassero con i poeti e i musici del mio seguito per rendere la nostra esistenza tutta una festa olimpica»[24]. Lo stesso Antinoo, ancora prima di morire, era percepito come un dio vivente: «Quel giovinetto dalle gambe ripiegate sul letto era Ermes in persona, che si scioglie i sandali; era Bacco, mentre coglieva un grappolo o assaggiava per me una coppa di vino rosato; le sue dita, indurite dalla corda dell’arco, erano quelle di Eros»[25].
L’oggetto della propria venerazione veniva insomma distanziato, perpetuato già in vita, tanto da ammettere: «Fra tante trasfigurazioni, in mezzo a tante magie, mi accadde di dimenticare la persona umana […]»[26]. Non si tratta forse di una variante dell’esorcizzazione operata dallo stesso Aristide che, una manciata di anni dopo la morte di quell’imperatore, avrebbe elencato le virtù di Roma, tacendone le paure più segrete? La fine terrena di Antinoo, così temuta, era annullata in partenza, trasformando il giovane amante in una statua vivente, in un eroe inscalfibile, indifferente alla transitorietà mortale. Analogamente, nella ricognizione di Aristide, tutto sembrava essere avvolto da una lucentezza surreale, aliena al turbamento.
Tellus Stabilita, Saeculum Aureum[27], Disciplina Augusta, Patientia: quasi tutte le sigle dei capitoli delle Memorie sembrano rispondere alla narrazione aristidea, segnalando l’impatto positivo di una saggezza superiore, di un’illuminata accortezza che garantiva al vasto territorio imperiale una condizione di equilibrio, pace e prosperità immanenti e permanenti. Valori e qualità verificati sul campo da Adriano, imperatore itinerante che poteva permettersi di far sentire la sua assenza a Roma. Proprio l’appropinquarsi del suo ultimo viaggio, oltre la morte, restituisce dalle pagine della Yourcenar il desiderio di rimanere ancora per un attimo affacciati su quell’idillio che non ritornerà altrove: «Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più… Cerchiamo d’entrare nella morte a occhi aperti…»[28].
Quegli occhi aperti sono gli stessi che non si vogliono destare dal sogno e dallo splendore del II secolo, gli occhi indossati da Aristide, malgrado le esigenze di copione e i turbamenti personali, e che ispireranno le cronache degli storici a venire. Tecnicamente, dopo la dipartita di Adriano, mancavano ancora quarantadue anni alla morte di Marco Aurelio, cioè alla fine, secondo Gibbon, dell’età «più prospera e felice» della storia umana, ma nell’atto di trasalire di Adriano, per come ce lo dipinge la Yourcenar, il tempo della bellezza sembra già scaduto. Che la vicenda di Adriano sia condita dalla premonizione, lo rileva sempre la Yourcenar nei suoi taccuini, evocando una figura quasi “faustiana” e chiamando peraltro lo stesso Aristide a supporto[29]. I «luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti»”[30] che l’anima di Adriano si appresta a visitare fanno il paio, pur nell’espediente letterario, con le campagne disossate e i mari sgombri che Cipriano recriminerà cent’anni dopo. Le paure, le intrusioni crepuscolari e le inquietudini del II secolo, benché accuratamente tenute sottotraccia, erano in fondo giustificate e impossibili da estinguere.
[1] Edward Gibbon, Declino e caduta dell’Impero Romano, edizione integrale, Volumi 1-6, Res Gestae, 2015.
[2] Michail Rostovzev, The Social and Economic History of the Roman Empire, Oxford University Press, Oxford 1926.
[3] Aldo Schiavone, La storia spezzata. Roma antica e Occidente moderno, Laterza, Roma-Bari 2002. L’opera comparve originariamente nel 1996. Tra gli apripista di Schiavone va collocato anche Frank W. Walbank, con il suo The Decline of the Roman Empire in the West (1946) poi rielaborato in The Awful Revolution (1969).
[4] È la teoria di Charles A. Behr che collocò l’episodio nel 155, come riportava in nota Schiavone. Si veda, a tal proposito, anche la nota nove di questo articolo.
[5] Cfr. La storia spezzata, cit. pp. 12-13.
[6] Elio Aristide, Discorsi sacri, Adelphi, Milano 1984.
[7] Cfr. Eric R. Dodds, Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia. Aspetti dell’esperienza religiosa da Marco Aurelio a Costantino, La Nuova Italia, Venezia 1988, cit. p. 40. Il giudizio di Dodds va inquadrato nell’alterna fortuna toccata ai Discorsi, come riportato da Salvatore Nicosia nell’introduzione dell’edizione Adelphi, liquidati dai commentatori precedenti anche come un’opera aberrante «intrisa delle forme più irrazionali della religiosità»; cfr. Discorsi, cit. p. 10 e nota 6 a p. 188. Ma era del resto proprio quell’irrazionalità a stuzzicare la ricerca di Dodds.
[8] La carriera di Aristide, al di là del tenore del suo elogio di Roma, veniva ricondotta anche da Schiavone a urgenze e disagi interiori, esemplificati appunto dal suo interesse per Asclepio, «simbolo da sempre di guarigioni e di salvezze magiche, sottratte alla medicina e alla scienza ufficiali». Cfr. La storia spezzata, cit. p. 12.
[9] Sempre Nicosia, nell’introduzione ai Discorsi, collocava effettivamente il viaggio romano di Aristide tra il 143 e il 144, pur notando come Aristide nelle sue memorie non si soffermasse sui sei mesi trascorsi nella capitale dell’impero, indugiando piuttosto sulle sue drammatiche condizioni fisiche e sulle sventure del viaggio d’andata e di ritorno. Nicosia, come Schiavone, citava inoltre Behr (nota 36 a p. 192), incline a ritenere la salute di Aristide del 143/144 inconciliabile con l’esposizione pubblica e la risonanza prodotte dalla sua famosa orazione. Motivo per cui Behr suggeriva un ritorno a Roma nel 155, soggiorno durante il quale si sarebbe tenuto effettivamente l’elogio riportato da Schiavone.
[10] Tra gli studi sull’irrazionalismo del mondo classico di Eric R. Dodds, si ricorda anche il più celebre I greci e l’irrazionale, Rizzoli – BUR, Milano 2009.
[11] «Sono ipotesi affascinanti, che sondano terreni incerti, di confine. Esiste una storia dell’inconscio, un tracciato notturno in qualche modo parallelo, o comunque connesso, alla storia più visibile delle forme di coscienza e del loro modificarsi?». Cfr. La storia spezzata, cit. p. 14.
[12] Ivi, pp. 12-13.
[13] Ivi, cit. p. 12.
[14] Ivi, cit. p. 20.
[15] La problematicità della “teoria sciamanistica” di Dodds è stata ad esempio commentata da Carmine Pisano nel saggio Platone e lo sciamanesimo. La prospettiva di E.R. Dodds, inserito nella miscellanea Sciamanesimo e sciamanesimi. Un problema storiografico, a cura di Luca Arcari e Alessandro Saggioro, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2015.
[16] Cfr. La storia spezzata, p. 11.
[17] Cfr. Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia, cit. p. 11.
[18] «Questa enorme e splendida creazione del mondo… deve necessariamente indebolirsi prima di perire. Quindi la terra sarà sempre più spesso scossa dai terremoti, e l’atmosfera diventerà pestilenziale, generando miasmi contagiosi». Ivi, cit. nota 26, p. 11.
[19] Cfr. La storia spezzata, p. 17.
[20] Ivi, p. 22.
[21] Ivi, cit. p. 16.
[22] Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano. Seguite da Taccuini di appunti, Einaudi, Torino 2014.
[23] Ivi, cit. p. 287.
[24] Ivi, cit. p. 161.
[25] Ibidem.
[26] Ibidem.
[27] In uno dei primi passaggi di questo capitolo, la Yourcenar lasciava dire ad Adriano: «Quando mi volgo indietro a quegli anni, mi sembra di ritrovare l’Età dell’Oro. Tutto era facile: le fatiche d’altri tempi erano compensate da una facilità quasi sovrumana», ivi, cit. p. 145.
[28] Ivi, cit. p. 268.
[29] «La chiaroveggenza che ho attribuito ad Adriano non era d’altra parte che una maniera di mettere in risalto l’elemento quasi faustiano del personaggio, quale trapela, ad esempio, nei Canti Sibillini, negli scritti di Elio Aristide e nel ritratto di Adriano vecchio tracciato da Frontone. A torto o a ragione, quando era vicino a morire gli furono attribuite doti più che umane», ivi, cit. p. 283.
[30] Ivi, cit. p. 268.