“L’età illegittima. Estetica e politica” di Federico Vercellone
- 28 Novembre 2023

“L’età illegittima. Estetica e politica” di Federico Vercellone

Recensione a: Federico Vercellone, L’età illegittima. Estetica e politica, Raffaello Cortina, Milano 2022, pp. 192, 17 euro (scheda libro)

Scritto da Enrico Comes

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A voler considerare le vicende politiche italiane, e non solo, degli ultimi decenni viene da chiedersi se la politica sia ancora in grado di assolvere al suo compito originario di rappresentare e dare forma alle istanze del proprio tempo. Si ha infatti come l’impressione di vivere in un’epoca destinata a finire, rispetto alla quale la politica sembra essere inerme. Da dove la fine possa giungere non è dato sapersi, ma gli scenari sono molteplici – dalla catastrofe ambientale, alla sempre più vivida minaccia di una guerra globale, passando per una crisi economica radicale –, espressi attraverso immagini che finiscono per alimentare visioni dai tratti apocalittici. La stessa pratica politica sembra caratterizzarsi in modo instabile, riversandosi in un precario riconoscimento di legittimità. Basti considerare, per limitarsi solo ad alcuni aspetti, il susseguirsi prematuro dei vari governi costretti spesso ad operazioni di ingegneria politica per tentare di stabilizzare la durata dei loro mandati; così come la sempre più complicata ricerca del consenso espressa a volte in forme opinabili[1]. Da più parti, dunque, si avverte l’esigenza di una politica capace di tenere insieme i pezzi di questo tempo altamente complesso, una politica legittima in grado, cioè, di imprimere ancora una “forma” e di indicare una direzione. Ciò, d’altra parte, non significa che non esista una certa risposta alla richiesta di identità del presente, ma – ed è questo il punto – essa si esprime attraverso immagini e simboli che si rivelano sempre meno attendibili, per quanto ammalianti. Dai leader carismatici alle mille “identità” vendute sul mercato per mezzo della moda o del cibo, tutto contribuisce a dispensare surrogati d’identità.

L’interessante libro di Federico Vercellone intitolato L’età illegittima (Raffaello Cortina Editore) ha il grande merito di fare luce su uno scenario così articolato, restituendo al lettore tutta la complessità necessaria per potersi orientare al suo interno. La domanda che fa da sfondo al libro è se sia ancora possibile costituire un’efficace mitologia politica in forza di cui dare nuova linfa alla funzione stessa di rappresentanza. Le numerose forme di auto-riconoscimento rivelano infatti l’esigenza di trovare una legittimazione possibile, analoga a quella espressa per la modernità da Hans Blumenberg, richiamato peraltro implicitamente sin dal titolo[2]. Anticipando la fine, la risposta di Vercellone è che si possono rintracciare energie mitopoietiche utili per rinnovare uno slancio temporale in prospettiva di un futuro abitabile. A patto, però, di riconoscere non soltanto l’origine politica di questa vicenda, ma anche, e qui il valore aggiunto del libro, quella estetica. In tal senso, L’età illegittima si pone come prosecuzione e sintesi del pensiero di Vercellone, che ha analizzato a lungo le “forme” mitopoietiche del Romanticismo filosofico e la crisi identitaria tipica dell’età moderna[3]. Ad esser presente sottotraccia in tutta la sua produzione, costituendone quindi la cifra del pensiero, vi è la considerazione secondo cui il patrimonio simbolico di un’epoca rappresenta la risorsa energetica per la sua stessa sopravvivenza. Vercellone recupera quindi dal lessico filosofico i concetti di “forma” e “immagine”, declinandoli in prospettiva morfologica che lui stesso contribuisce a sviluppare rispetto ai primi approcci teorici risalenti a Herder e Goethe[4]. Una prospettiva che vede nell’immagine la “forma” attraverso cui il molteplice si lascia condurre e si esprime, facendo dell’immagine il centro di relazioni comuni. Ecco allora che forma e immagine si pongono come coordinate indispensabili di questa teoria, momenti di congiuntura per una riflessione dal carattere estetico-politico.

Nel libro la declinazione estetico-politica dell’analisi è posta in chiaro sin dal sottotitolo e si riflette anche nell’articolazione dell’argomentazione sviluppata lungo sei capitoli. D’altra parte, è l’oggetto stesso del libro ad esigere un’indagine che sappia incrociare questi due ambiti. Come accennato precedentemente, L’età illegittima è in fondo un libro sul concetto di rappresentazione, o, per meglio dire, sulla sua crisi. Se per Vercellone il nostro tempo si configura come “illegittimo” è perché manchiamo di una politica in grado di rappresentare, di contenere in sé e dare forma alle spinte molteplici della società. A ben vedere, ad essere in crisi è lo statuto stesso della rappresentazione come è evidente dalla tendenza del nostro tempo all’estetizzazione. Ma cosa si intende quando si parla di “estetizzazione”? L’autore lo spiega nel corso del primo capitolo dedicandovi un intero paragrafo. L’idea è che tale processo coincida con il modificarsi dell’orientamento dello sguardo. Abbiamo enfatizzato «la funzione dello sguardo nella sua portata indagatrice e illuminante» sino a «produrre una sorta di realtà a struttura retinica» (p. 25). È uno sguardo che non ammette più alcun fondo di invisibilità e che si alimenta dell’eccesso di visibile. Ne consegue una sorta di omologazione degli sguardi che rende pubblico ogni sguardo privato e intimo. «La sfera pubblica si confonde con il desiderio più intimo, con la curiosità di vedere senza essere visti dall’interno» (p. 29). L’estetizzazione, in tal senso, si innesta su quell’originario bisogno di riconoscimento del soggetto, di fatto però non realizzandolo. A delinearsi è quindi una collettività bisognosa di riconoscimento e colma di desiderio che finisce per trovare appagamento, seppur di breve durata, nel mercato. A questo punto Vercellone precisa che anche il capitalismo ha finito per estetizzarsi. I suoi prodotti si sottraggono «all’anonimato del marxiano valore di scambio, divenendo unici» (p. 21). Abbiamo a che fare con merci sempre più personalizzate, targettizzate.

Le ricadute politiche di questi processi sono molteplici. Non si danno più simboli comuni capaci di agglutinare attorno alla loro potenza rappresentativa, a fronte di una vera e propria invasione di simboli precari. Sembra essersi interrotta l’autentica comunità degli sguardi, «il legame con simboli e immagini comuni, che istituisce la democrazia stessa». Ciò che prende forma, suggerisce provocatoriamente Vercellone, è quindi una «comunità desiderante» in luogo della «societas democratica» (p. 30). Se si volesse delineare un’ontologia del populismo, continua ancora l’autore, si dovrebbero necessariamente prendere in esame questi aspetti. Mancando di una vera legittimazione, il leader carismatico fonda infatti il proprio prestigio unicamente su un eccesso di visibilità espresso attraverso forme del tutto prive di mediazione, «nella più astratta e instabile delle identità, quella del popolo» (p. 90). Il prestigio si alimenta di esibizione, ha bisogno di luce e non ammette nulla che resti non visibile. Esso si mostra così del tutto differente dall’auctoritas originaria del politico che lo rende tale, letteralmente capace di condurre e cioè legittimo, proprio perché il suo essere “rappresentante” non si confonde con ciò che è chiamato a “rappresentare”. Si ritorna ad una caratterizzazione estetica della questione tale per cui «se l’immagine si sostanzializza, viene meno la libertà dello sguardo ed essa assume un volto idolatrico» (p. 96). Rappresentante e rappresentato, per dirla in altre parole, hanno quindi bisogno di uno scarto che ne legittima il senso. Uno sfondo non visibile posto a fondamento. Ma se tutto si è fatto visibile, allora l’origine, lo sfondo o, come lo definisce Vercellone, «l’Archetipo» perde di fatto la sua funzione[5].

Lungo questo versante la vicenda si connota teologicamente, come Vercellone si sforza di dimostrare nel corso dei capitoli centrali. L’identificazione dell’immagine con il rappresentato e la sostituzione ad esso genera un cortocircuito che spezza definitivamente «l’economia trinitaria» (p. 44). Si tratta dell’idea, fatta propria da gran parte della filosofia politica, secondo cui la struttura del potere mondano ricalca lo schema trinitario: «la figura del Padre ha un’epifania nel sovrano, analoga ma di rango inferiore a quella che ha nel Figlio» (p. 46). Quello che avviene con l’interruzione di tale schema, reso ben visibile nella forma del potere illegittimo, è uno scambio idolatrico, per dirla in termini teologici. In questo quadro manifestamente teologico-politico acquista pregnanza teorica la storia del concetto di katéchon, sapientemente ricostruita da Vercellone attraverso una lettura storica che si estende lungo un arco temporale che parte da Ireneo, Eusebio, Agostino e si estende fino a Schmitt, Taubes e Benjamin passando per Dostoevskij e il pensiero russo. Entrato nel dibattito filosofico italiano a partire dalla pubblicazione schmittiana de Il nomos della terra, questa oscura configurazione concettuale deve la sua attualizzazione alle interpretazioni di Massimo Cacciari, Roberto Esposito e Giorgio Agamben, per limitarsi a costoro. A volerne rintracciare l’origine in ambito teologico, occorre risalire alla Seconda lettera ai Tessalonicesi, in cui è ambiguamente descritto da Paolo come un “potere che frena”, una “forza che arresta”. Esso è chiamato a “frenare” proprio il realizzarsi dell’empio visto da Paolo come l’inversione del primo con l’ultimo, lo scambio del potere legittimo con quello illegittimo. Per parte sua Vercellone affronta e sviluppa le implicazioni estetiche di questo discorso. Il “potere che frena”, ponendosi appunto come potere volto a garantire l’ordine, si connota quindi di una valenza fortemente simbolica. In quanto “forma” che trattiene, esso è in grado di tenere insieme contenuti eterogenei, costituendo un bacino di risorse simboliche e mitopoietiche di cui ogni epoca è affamata.

È allora di tale forza “qui tenet” che il nostro tempo si avverte mancante. Questo non significa affatto che si abbia a che fare con un’epoca, quale la modernità, che abbia rinunciato ad una sua origine simbolica. Il moderno mostra qui la sua tendenza nevrotica, “vivendo di” ciò che manca e al quale non ha più accesso. Nulla in tal senso è più indicativo del dichiarato fallimento del processo di secolarizzazione. Torna allora in tutta la sua attualità la lezione di Carl Schmitt, secondo cui non è possibile pensare l’ambito del politico senza considerarne la derivazione teologica. D’altra parte, l’idea moderna di un fondamento puramente laico del potere sembra de facto coincidere con la sua crisi profonda. Se moderni non lo siamo mai stati, secondo la celebre formula di Bruno Latour, è perché abbiamo sempre avuto bisogno di risorse simboliche in grado di dare forma al nostro vivere comune[6].

Seguendo tale ragionamento, la scommessa nell’epoca della perdita del katéchon è secondo Vercellone immaginare cosa significa costituire una legittimazione politica «non più come top-down, a partire dal presupposto Dio per andare in direzione della comunità umana, ma bottom-up» (p. 96). Un processo inverso che muova dal corpo sociale e dalle sue componenti simboliche in direzione della propria legittimazione. È questa una sfida che chiama in causa l’arte e il suo essere “per un popolo a venire”, secondo il monito di Klee. Vercellone affida questo compito all’immagine traducendolo in una più specifica «ecologia dell’immagine», vale a dire in un sapere che riguarda la nostra stessa capacità di abitare simbolicamente il mondo. Occorre imparare presto, secondo l’autore, a distinguere quali immagini siano «inquinanti» e illegittime e quali invece promuovono la creazione di comunità. Sono immagini universali proprio come il katéchon, si pensi al seno materno o alla madre Terra, dense di un’universalità che non si costruisce più nella verticale della trascendenza, ma lungo uno sguardo orizzontale che si sforza di abbracciare la comunità futura.


[1] Per sintetizzare meglio la questione si veda: Nicola Bonaccini, La comunicazione politica nell’era degli influencer, «www.huffingtonpost.it», 18 maggio 2021.

[2] Hans Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992.

[3] Per limitarsi solo ad alcuni casi si veda Federico Vercellone, Nature del tempo. Novalis e la forma poetica del romanticismo tedesco, Guerini e Associati, Milano 1998; (Id), Introduzione a il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 2009; (Id), Simboli della fine, il Mulino, Bologna 2018.

[4] Come sintesi del percorso teorico sulla morfologia compiuto da Vercellone si veda su tutti Federico Vercellone e Salvatore Tedesco, Glossary of Morphology, Springer, Berlino 2020.

[5] Federico Vercellone, L’archetipo cieco. Variazioni sull’individuo moderno, Rosenberg&Sellier, Torino 2021.

[6] Bruno Latour, Non siamo mai stati moderni, Eleuthera, Milano 2009.

Scritto da
Enrico Comes

Dottorando in Filosofia nell’ambito del dottorato interdisciplinare “Immagine, linguaggio, figura: forme e modi della mediazione” presso l’Università di Milano. Si occupa, inoltre, di marketing elettorale e comunicazione politica. Ha partecipato al corso 2023 della scuola di formazione “Traiettorie. Scuola di lettura del presente”.

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