Scritto da Bruno Bevilacqua
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Il 1923 in Turchia segna la nascita della Repubblica e il compimento della rivoluzione nazionalista sulle ceneri dell’Impero Ottomano. Lo stesso anno può essere preso come riferimento per la nascita del pensiero kemalista, fautore di una rivoluzione culturale senza precedenti nel mondo islamico e ancora oggi fondamentale nella dialettica politico-istituzionale del Paese.
Le prime mosse della neonata Assemblea di Ankara ebbero l’obiettivo di conferire una maggiore libertà di azione al governo, in particolar modo mettendo a tacere lo scomodo e influente contropotere religioso. Per questo motivo nel 1924, due anni dopo aver trasformato il Califfato in carica elettiva, questo venne abolito completamente. A questa operazione seguirono la soppressione del Ministero degli affari religiosi e l’unificazione dell’istruzione sotto un unico Ministero laico. Infine, venne istituito il Direttorato degli affari religiosi (Dyanet) tramite il quale il governo riuscì a controllare la letteratura islamica e la nomina delle varie personalità influenti dell’islam (imam, predicatori, muezzin e sceicchi). Il sistema scolastico venne reso esclusivamente laico ed egualitario, i tribunali islamici vennero interamente sostituiti e il ruolo della donna venne rivoluzionato grazie all’adozione del Codice civile svizzero.
Il pensiero kemalista non deve però essere considerato il semplice portatore di un sentimento antireligioso che aveva colpito parte dell’Impero. Al contrario, il kemalismo è nato e si è basato su convinzioni “scientifiche”, relative al progresso economico, militare e – logicamente – sociale, individuando nell’islam un freno allo sviluppo della società. L’élite modernista repubblicana si poneva gli stessi interrogativi che avevano spinto i sultani delle Tanzimat, le riforme ottocentesche dell’Impero Ottomano: perché l’Occidente avanza mentre il mondo islamico regredisce?[1]
Fu così che tramite numerose riforme illiberali – quali il divieto di indossare prima fez e turbanti e poi abiti religiosi, così come l’introduzione dell’alfabeto latino e la criminalizzazione di quello arabo – il governo di Ankara spinse la religione fuori dalla sfera pubblica della società, relegandola alla sfera privata dell’individuo e innalzandola allo stesso tempo a mero valore aggregativo. Infatti, tali decisioni – come, ad esempio, l’abolizione del Califfato – non si proclamavano “antireligiose” ma, al contrario, erano giustificate dal governo con motivazioni di carattere teologico. La Repubblica – il cui nazionalismo richiamava apertamente il fascismo italiano e il nazismo tedesco – identificava i propri cittadini nella “razza turca”, professanti un islam svuotato dall’osservanza religiosa e “civilizzato”, ovvero privo delle caratteristiche che inficiavano il progresso della collettività. Dal sistema del “millet ottomano” si è quindi passati a un triplice cerchio di cittadinanza: la cittadinanza piena era quella dei turcofoni sunniti, i musulmani non turcofoni o non sunniti costituivano il secondo cerchio, e infine c’erano le minoranze non musulmane, percepite per lo più come straniere.
Oltre alle conquiste sociali, gli obiettivi di sviluppo di Atatürk furono raggiunti specialmente nel primo periodo, grazie a un rilancio economico e industriale, all’apertura a capitali stranieri e a investimenti pubblici massivi nel settore ferroviario e stradale. L’industrializzazione del Paese portò alla creazione del tessuto industriale minimo sul quale nascerà la Turchia della seconda metà del secolo.
Atatürk morì nel 1938, pochi anni prima della nascita del multipartitismo e della democrazia nel Paese. Per comprendere il radicale cambiamento che ha visto la fine del partito unico, bisogna considerare che a causa della Seconda guerra mondiale e della caduta dei regimi illiberali europei, il laicismo autoritario turco divenne improvvisamente anacronistico e privo di legittimazione interna nonché di sostegno estero: il multipartitismo fu quindi la scelta obbligata di un sistema al collasso[2].
Il processo di democratizzazione delle istituzioni del Paese ridarà quindi voce politica alle realtà religiose in cerca di rivalsa perché poste “ai margini della società” e profondamente attaccate nella loro quotidianità nei primi anni repubblicani. Nel periodo in cui Ismet İnönü ricopriva la carica di presidente della Repubblica (1938-1950), le pressioni politiche sulla religione vennero ridotte considerevolmente. Le Corti coraniche si moltiplicarono, le prime scuole di formazione di imam e di hatip aprirono le loro porte, le confraternite, sempre ufficialmente vietate, aumentano la loro popolarità così come le correnti religiose. Con la liberalizzazione della stampa e la circolazione di nuove idee, l’intellettuale religioso uscì dal suo stato di alienazione e cominciò a interrogarsi sui rapporti tra Stato, religione e cittadino. Dopo la nascita dei primi partiti islamici – i quali trovarono poca fortuna non riuscendo a unire la base elettorale – il non dichiaratamente religioso Partito Democratico riuscì a smuovere buona parte dell’Anatolia ultraconservatrice con un programma moderato, prudente e liberale, legato a certe pratiche militanti, come la legalizzazione del richiamo alla preghiera in lingua araba (adhan)[3].
I primi anni dell’islam politico furono caratterizzati da un sentimento antiamericano che si palesò con ferme condanne nei confronti della piaga occidentale, che con la sua influenza avrebbe causato la perdita dell’anima turco-musulmana. In un secondo momento, il rapporto tra islamici e americani migliorò grazie al comune obiettivo di fermare l’avanzata del comunismo nel Paese: in quel periodo si poteva infatti assistere ad attacchi di gruppi islamico-nazionalisti rivolti a manifestanti delle organizzazioni di sinistra che protestavano contro la NATO[4].
La rinascita della religione nel Paese ha avuto – dalla seconda metà del Novecento fino ad oggi – un processo irregolare che non ha trovato una struttura facilmente permeabile. Difatti, il nuovo sistema pluralista era saldamente ancorato al vecchio equilibrio istituzionale dove l’esercito sedeva al vertice della gerarchia e riusciva a controllare l’andamento democratico – si pensi al colpo di Stato del 1961 che depose il governo e condannò a morte il presidente Adnan Menderes – mentre l’esecutivo doveva tenere conto anche dell’ingerenza della magistratura e della Corte costituzionale che, vegliando sulle leggi dello Stato, assicurava il rispetto dei principi kemalisti tra cui quello di laicità statale. La politica religiosa nel Paese ebbe un punto di svolta nel 1970, quando il maggior progetto politico-culturale dei conservatori islamici diede inizio a un percorso condiviso. In quell’anno il professore Necmettin Erbakan fondò il Partito dell’Ordine Nazionale, il quale si basava su una nuova dottrina. Il Milli Görüş – “visione nazionale” in italiano – si profilò come un movimento di rivendicazione religiosa contro l’oppressione di chi – da tanto tempo – aveva sovrastato la vera anima della nazione. Se da un lato il Milli Görüş era un movimento moralista e religioso impegnato a porre “la morale e la spiritualità prima di tutto” mobilitando temi antisemiti, antioccidentali e anticristiani, dall’altro lato fece sue le rivendicazioni economiche e politiche delle classi emarginate[5]. Per la prima volta nella storia della Repubblica, dopo le elezioni del 1973 un partito islamico entrò a far parte di un governo di coalizione prima con il CHP (Cumhuriyet Halk Partisi – Partito Popolare Repubblicano), poi all’interno di una coalizione di destra ed estrema destra (1975-1977).
Il rapporto tra Stato e religione cambierà nuovamente in seguito all’ulteriore intervento armato dell’esercito volto a destituire il governo nel 1980. Nonostante ciò, i militari ritennero che un islam moderato fosse un’alternativa molto più manovrabile e facile da gestire del comunismo. Nel periodo che seguì il colpo di Stato vennero aperte nuove scuole coraniche, i corsi di religione divennero obbligatori e aumentò il numero di imam nel Paese[6]. Tale dottrina – sostenuta dal governo nazionalista di Turgut Özal – prese il nome di “Sintesi turco-islamica”, e consisteva nel legittimare lo Stato con un sentimento nazionalista turco che si conciliasse con un islam mite e apolitico. La dottrina turco-islamica non deve però intendersi come una coincidenza tra islam e potere e un distacco dal pensiero laico-repubblicano. Infatti, dal 1970 al 2001 furono creati e sciolti dalla Corte costituzionale e dal potere militare quattro partiti politici che seguivano la corrente del Milli Görüş, e nel 1980 Necmettin Erbakan venne bandito dall’attività politica per dieci anni insieme ad altri suoi collaboratori. In quegli anni l’elettorato islamico si consolidò e riuscì anche ad allargarsi a realtà sociali differenti. Il nocciolo duro di questa corrente si basava sul vittimismo religioso e sul sentirsi “stranieri a casa propria”, e la rete organizzativa e di sensibilizzazione diventò sempre più efficace. Per rafforzare la narrativa dell’islam oppresso, venne istituito il “Canale 7 pro Refah”, con l’obiettivo di dare la giusta forma all’immaginazione popolare degli affari esteri o nazionali e non di minore importanza fu il sostegno delle periferie e dei quartieri marginali, nei quali il partito era presente con una politica attiva di sostegno alimentare, di fornitura di beni di prima necessità e di aiuto nella ricerca di lavoro e istruzione[7]. A differenza degli altri partiti, il Partito del Benessere aveva un importante aspetto transnazionale, essendo in contatto con i lavoratori musulmani in Europa e sviluppando sostegni umanitari per le comunità musulmane in Bosnia, Cecenia e Birmania[8]. L’espansione dell’islam politico si delineò così come una realtà innegabile all’interno della nazione.
Ben presto, l’obiettivo del Milli Görüş diventò quello di estendersi a partito di massa, uscendo dalla sua dimensione di “partito delle classi emarginate”. Per questo motivo la proposta politica del nuovo Partito del Benessere – fondato dopo il colpo di Stato del 1980 – si aggiornò diventando più comprensiva e prendendo il nome di “Ordine giusto”. I principi fondamentali dell’islam si affiancavano a un “ordine economico giusto” come una terza via tra il capitalismo e il socialismo, mentre una nuova cooperazione islamica composta da otto Paesi in via di sviluppo avrebbe dovuto agire in opposizione al G7[9].
Nonostante questo, l’esperienza politico-culturale del Milli Görüş stava per volgere al termine, e tre furono i fattori che ne anticiparono lo scioglimento: l’elezione del 1996 che ebbe il risultato della nomina di Erbakan come primo ministro, il correntismo interno e la sentenza della Corte costituzionale del 1998 che sciolse il Partito del Benessere. Quando nel 2001 venne sciolto anche il nuovo Partito della Virtù – successore del Partito del Benessere – una parte dei suoi sostenitori decise di non seguirlo in un nuovo progetto, creando un proprio partito che intendeva rompere con l’islamismo tradizionale: il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP).
L’AKP riuscì nei primi anni a radicarsi non solo nell’avversione popolare a un sistema di sicurezza – quello kemalista – basato sulla forza militare che aveva assoggettato la politica esasperando l’elettorato, ma anche nell’apertura a un islam “moderato, liberale e liberista” nonché “europeista”, che desse una speranza a chi auspicava un rinnovamento delle istituzioni democratiche. Il nuovo islam politico si declinava così – sulla falsariga del modello americano – in un neoliberalismo e neoconservatorismo vicini al concetto di “uomo che si è fatto da solo”, esaltando la grandiosità economica della nazione e le radici etno-religiose, e diventando così il massimo rappresentante della borghesia “autentica” e conservatrice del Paese[10].
La definizione identitaria del primo periodo dell’AKP deve però essere letta alla luce di due necessità: smarcarsi dall’islamismo tradizionale per non essere ostacolato dall’interno, abbracciare la causa liberale ed europeista per ottenere il sostegno esterno che gli permettesse di entrare nelle istituzioni, non per rinnovarle da un punto di vista democratico ma per prenderne il posto. Il processo di allineamento europeo si accordava quindi con l’obiettivo di Erdoğan di “smantellare” il sistema laico, ponendo anche fine alla rete di privilegi di cui godevano i membri dell’esercito, e le richieste dell’Unione Europea – che non ottennero risultati immediati – andavano proprio in questa direzione.
Con il passare degli anni il carattere moderato ed europeista del partito venne meno a favore di un maggiore moralismo religioso. A partire dal 2005 i punti di rottura ideologici nel Paese si acuirono a causa di scelte governative più schierate, tra cui l’equiparazione dei diplomi delle scuole Imam Hatip e tutti gli altri corsi di formazione, e la liberalizzazione – tentata nel 2008, ma riuscita nel 2013 – del velo nei luoghi pubblici. Infine, questioni istituzionali – come la candidatura di Abdullah Gül alla Presidenza della Repubblica – fecero definitivamente collassare il sistema di coabitazione portando l’AKP davanti alla Corte costituzionale, la quale, pur condannandolo, non si spinse a sancirne lo scioglimento. È stato asserito che la dirigenza dell’AKP in quegli anni non era in realtà interessata tanto all’ideologia dell’islam, e quindi a sviluppare un rapporto tra la religione e la politica, quanto a promuovere “l’islam di tutti i giorni”, tramite la legittimazione di pratiche prima vietate, e disincentivando dall’altro lato comportamenti contrari alla religione, ad esempio attraverso la tassa sull’alcol[11]. Ad ogni modo, la linea che seguì il partito fu discontinua e volta a non perdere completamente l’appoggio dell’Unione Europea e dell’elettorato moderato, ed Erdoğan ebbe ancora la possibilità di ergersi a difensore dei diritti umani strizzando l’occhio a Bruxelles, così come avvenne con il referendum del 2010, il quale – tra le varie riforme – permise al Paese di superare l’assoggettamento all’esercito, aumentando i poteri dell’esecutivo.
Gli anni che seguirono tale rottura ideologica e istituzionale portarono al progressivo accentramento del potere nelle mani di Erdoğan, raggiungendo l’apice nel 2016, anno del tentato golpe, già in seguito al referendum costituzionale che aveva trasformato il leader nel primo presidente eletto dal popolo nella storia del Paese. L’allontanamento dai principi kemalisti, e il relativo indebolimento delle strutture istituzionali, diede una sempre maggiore libertà di azione all’AKP e all’applicazione della sua politica religiosa. La riproposta del matrimonio riparatore, la ridiscussione del reato di adulterio e il divieto di ogni manifestazione a favore della comunità LGBT – così come la fuoriuscita dalla Convenzione di Istanbul – sono solo alcune delle decisioni di un governo ora libero da qualunque forma di precauzione e non più alla ricerca di un supporto esterno e di una “tolleranza” interna. Il Direttorato degli affari religiosi da strumento di controllo è stato completamente rivoluzionato e – insieme ad altre agenzie governative – è diventato arma di diffusione della religione all’interno dei confini nazionali così come all’estero. Inoltre, il secondo decennio di governo è caratterizzato da un sempre maggiore simbolismo religioso e una ritrovata nostalgia imperiale ormai fuoriuscita dal proibito ed eretta – al contrario – a nuovo modello culturale. Tali richiami sono lampanti nelle scelte di politica urbana – come l’intitolazione del terzo ponte sul Bosforo al Sultano Selim; il tentativo di costruire al Gezi Park un centro commerciale e una moschea e la riconversione dell’ex basilica di Santa Sofia – o nei rituali ufficiali – si pensi all’inchino di Erdoğan davanti la tomba di Abū Ayyūb al-Anṣārī dopo la vittoria nel 2014[12]. Il processo di “normalizzazione” del sentimento vittimista del cittadino conservatore-religioso ha portato a legittimare anche attacchi – più o meno diretti – alla figura di Mustafa Kemal Atatürk sia da parte della politica che dei media, rimettendo in discussione la visione della storia incentrata sull’ideale repubblicano[13].
Il processo che ha visto il pensiero kemalista cedere il passo a nuove forme di islam politico ha sempre tenuto in considerazione la forza aggregativa dell’islam e il suo valore identitario. In risposta alla trasformazione di una “religione moderna e intima”, Erdoğan ha cavalcato il malessere della popolazione per riportare l’islam nella pratica quotidiana del popolo innalzandolo a codice comportamentale moralistico e modello sociale a cui aspirare. In ultima analisi, va detto che il conflitto ideologico non si può banalizzare nella dicotomia religiosi-laici, né tantomeno si può pensare che l’opposizione all’AKP sia esclusivamente di matrice kemalista. Si pensi ai rapporti con il movimento Gülen, o con le minoranze sunnite e non sunnite all’interno del Paese, i quali hanno visto tutti un tragico tracollo nel secondo decennio di governo. L’esistenza di una pluralità di tensioni diverse ed eterogenee all’interno della società turca si evince anche dalle dinamiche parlamentari degli ultimi anni, dove conservatori-religiosi siedono allo stesso tavolo del Partito Repubblicano con l’obiettivo di porre un termine al potere di Erdoğan.
La Turchia è oggi uno dei Paesi più polarizzati al mondo, e la sintesi turco-islamica promossa negli anni Ottanta oggi si è risolta con un soppiantamento dell’ideologia laico-progressista da parte di quella islamico-conservatrice, accompagnata da una sostituzione degli uomini delle istituzioni mantenendo inalterata la struttura. La sfida della Repubblica, nonché l’unica strada percorribile, è la normalizzazione della frattura culturale, che necessita di un profondo rinnovamento istituzionale – a partire dal rapporto tra Stato ed esercito – perché questa sia efficace e duratura.
[1] Hamit Bozarslan, Histoire de la Turquie Moderne, Tallandier, Parigi 2021, p. 168.
[2] Kemal H. Karpat, Political Developments in Turkey, 1950-70, «Middle Eastern Studies», VIII (1972), pp. 349-375, p. 350.
[3] Ahmet Insel, La nouvelle Turquie d’Erdoğan, La Découverte, Parigi 2008, p. 62.
[4] Ivi, p. 64.
[5] Ivi, p. 67.
[6] M. Hakan Yavuz, Political Islam and the Welfare (Refah) Party in Turkey, «Comparative Politics» (1997), XXX, pp. 63-83, p. 67.
[7] Cemal Karakas, The Rise and Fall of the Islamist Welfare Party (RP), in Turkey: Islam and Laicism Between the Interests of State, Politics, and Society (2007), XXX, pp. 22-28, p. 24.
[8] M. Hakan Yavuz, Political Islam and the Welfare (Refah) Party in Turkey, «Comparative Politics» (1997), XXX, pp. 63-83, p. 77.
[9] Cemal Karakas, The Rise and Fall of the Islamist Welfare Party (RP), Turkey: Islam and Laicism Between the Interests of State, Politics, and Society (2007), XXX, pp. 22-28, p. 23.
[10] Ahmet Insel, La nouvelle Turquie d’Erdoğan, La Découverte, Parigi 2008, p. 92.
[11] Angel Rabasa e F. Stephen Larrabee, The AKP in Power, The rise of Political Islam in Turkey, I, pp. 51-74, p. 56.
[12] Guillaume Perrier, Dans la tête de Recep Tayyip Erdoğan, Solin/Actes, Parigi 2018, p. 177.
[13] Ivi, p. 220.