“L’ideologia gender è pericolosa” di Laura Schettini
- 06 Marzo 2024

“L’ideologia gender è pericolosa” di Laura Schettini

Recensione a: Laura Schettini, L’ideologia gender è pericolosa, Laterza, Bari-Roma 2023, pp. 160, 15 euro (scheda libro)

Scritto da Olimpia Capitano

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Negli ultimi anni le questioni di genere hanno preso spazio nel dibattito pubblico, sia grazie alla crescita del movimento transfemminista Non Una di Meno (evidente dai numeri della manifestazione del 25 novembre di quest’anno), sia perché esse sono diventate tema centrale nella costruzione della propaganda delle destre. Può essere utile partire da un paradosso: il discorso politico promosso dalle destre evoca il genere come pericolo incombente mentre, tuttavia, ne lamenta la fumosità e relega la questione a una nicchia sociale priva di problemi “reali” nella vita. Laura Schettini, ricercatrice in storia contemporanea presso l’Università di Padova e autrice di L’ideologia gender è pericolosa (Laterza 2023), prende le mosse proprio da questa apparente contraddizione e cerca di scioglierla nel corso del testo, in prospettiva storica e teorica. Nel primo capitolo l’autrice ricostruisce la storia della polemica intorno alla presunta esistenza di un’ideologia gender e analizza la campagna anti gender, i suoi obiettivi, il ruolo che il femminismo ha giocato e tuttora gioca in questa partita. Nel secondo capitolo approfondisce come e perché il genere è stato introdotto nelle scienze umane e i suoi significati. Infine, Schettini mostra come, almeno dalla fine dell’Ottocento, si sia cercato di costruire la nazione su un’idea precisa di famiglia, di cosa implichi essere o uomo o donna, di quali siano le forme della sessualità e i corpi accettabili.

Gli studi concordano nell’individuare nella conferenza mondiale sulle donne di Pechino del 1995 il momento in cui la Chiesa inizia a denunciare la categoria del gender ma, come sottolinea Schettini sin dall’inizio del primo capitolo, già all’indomani della conferenza ONU su popolazione e sviluppo (1994) e durante i lavori preparatori per quella di Pechino, l’ostilità verso il termine gender aveva iniziato a palesarsi[1]. D’altronde, fu estremamente rilevante l’impatto dell’introduzione di un discorso sui diritti riproduttivi da parte delle femministe, così come la loro inedita visibilità nelle organizzazioni non governative che parteciparono agli incontri preparatori e alle conferenze. La base teorica della formulazione dell’ideologia gender si trova negli interventi e nei pamphlet che furono scritti e fatti circolare durante il forum delle ONG di Pechino. In particolare, Dale O’Leary, giornalista ultracattolica e militante dei gruppi che lei stessa definì movimenti pro life e pro family, portò a Pechino il testo Gender: the deconstruction of women. Questo pamphlet introdusse dispositivi discorsivi e strategie comunicative che, per quanto in parte mutati, sono ancora largamente utilizzati da pro family e anti gender. Anzitutto si parte dall’idea che il dato biologico implichi una netta distinzione binaria tra uomini e donne e ne determini le diverse vocazioni sociali e familiari – va da sé che niente è concepibile al di fuori dell’eteronormatività. Dunque, ci si sofferma sulla differenza tra femminismo ottocentesco dell’equità e femministe del genere: le prime avrebbero riconosciuto la differenza biologica e avrebbero agito entro i suoi confini. Le seconde, invece, avrebbero messo a rischio la salute fisica e psichica delle donne, esponendole a inadeguate sollecitazioni contrarie alla loro “natura”. Le donne, infatti, avrebbero modo di esprimere la propria forza e potere esclusivamente all’interno di dimensioni predeterminate, come quella domestica e familiare. Rifiutare questo porterebbe a negare la propria specificità per seguire un modello maschile, contribuendo al suo trionfo ma senza proporre misure concrete per aiutare le donne[2]. In sostanza, le teorie del gender hanno iniziato a essere progressivamente raccontate soprattutto come qualcosa che prima di tutto attacca i diritti delle donne, impedendo una trasformazione sociale a loro misura[3]. Il tema della concretezza si è reso evidente anche in rapporto al dibattito intorno al sessismo nella lingua italiana. Negli anni Settanta e ancora di più negli anni Ottanta, i movimenti delle donne iniziarono ad attirare l’attenzione sul ruolo del linguaggio nel rimarcare e radicare le asimmetrie di genere, senz’altro riproducendole, ma anche collaborando a produrle. Osservare in prospettiva storica l’uso del linguaggio e le sue trasformazioni, come sottolinea Schettini, permette di comprendere la centralità politica della questione: nel 1984 fu creata una Commissione per la parità tra uomo e donna, che produsse le Raccomandazioni per un uso non sessista della linga italiana: per la scuola e l’editoria scolastica (1986). Le Raccomandazioni ebbero il merito di confutare esplicitamente l’argomento della sacralità della lingua italiana, sottolineandone la struttura dinamica e sempre mutevole – si pensi alla continua acquisizione di neologismi entrati a far parte del costume sociale o all’adozione nel vocabolario di parole di provenienza estera. Tuttavia, le reazioni ai mutamenti linguistici non sono sempre le medesime: le trasformazioni che non coinvolgono in modo profondo le strutture sociali vengono più facilmente accettate; in caso contrario, determinano conflittualità sociale. La lingua si pone come territorio politico e minimizzare tali questioni significa compiere un tentativo di invisibilizzazione politica. Questioni più che concrete, dunque.

Un altro tema importante che è largamente approfondito da Schettini nel secondo capitolo è quello del rapporto tra la nascita della storia delle donne e l’esplosione dei movimenti femministi. I movimenti delle donne, infatti, individuarono subito nella narrazione storica uno dei terreni principali di costruzione e legittimazione dell’oppressione patriarcale, perciò un campo di battaglia entro cui agire. Le femministe sottolinearono che la storia non era giustapponibile al passato, quanto alla narrazione del passato, parziale e orientata da chi la scrive. I movimenti femministi rilevarono ben presto le relazioni tra la cancellazione delle donne dalla narrazione storica e la loro svalorizzazione nel presente da una parte, e tra il protagonismo storico degli uomini e le loro posizioni di potere e dominio dall’altra. Angela Groppi e Margherita Pelaja, studiose centrali per la storia delle donne in Italia, affermarono che «interrogare la storia, guardare al passato per ritrovarvi i graffiti di esistenze femminili mute e nascoste o per riportare alla luce i fiumi carsici dei movimenti delle donne è stata una passione e una esigenza nata all’interno del femminismo italiano»[4]. La nascita di questo ragionamento in Italia è ben rappresentata dall’editoriale del numero di esordio di DWF, rivista dedicata agli studi sulle donne e pubblicata per la prima volta nel 1975. Nell’editoriale si espresse chiaramente la necessità di porre le donne al centro nelle discipline – soprattutto antropologia, storia, letteratura – partendo dalla consapevolezza che le scienze umane potevano essere espressione e garanzia di ideologie e istituzioni fondate sulla discriminazione. Anche per questo i luoghi di produzione intellettuale delle donne spesso non furono università ma luoghi altri: i centri di documentazione, le case editrici, le biblioteche, le librerie delle donne. I primi studi furono soprattutto dedicati alla restituzione di esperienze collettive di donne, privilegiando le ribelli del passato e i fenomeni da cui emergevano alterità e specificità, tra cui la caccia alle streghe; la partecipazione a momenti chiave della vita politica nazionale come il Risorgimento, la Liberazione e la Resistenza; o ancora, la storia dei corpi e della sessualità, della famiglia, dell’aborto e della maternità[5]. Il fine era quello di rompere il carattere unitario e progressivo della narrazione storica, di mettere in crisi le grandi narrazioni, le categorie dell’analisi storica, le sue periodizzazioni. Tuttavia, la storia delle donne aveva in sé dei limiti che vennero messi a critica nel corso degli anni Ottanta. Una ricca storiografia sulla domesticità, soprattutto statunitense, fece propria la concettualizzazione delle sfere separate, ossia il riconoscimento di un confinamento storico delle donne nello spazio distinto della casa, inteso come luogo del privato laddove svolgere le proprie funzioni “naturali”. Tuttavia, la sfera domestica, non fu solo luogo di oppressione ma anche di rapporti, complicità, affetto ed erotismo tra donne: ma tra quali donne? Iniziò a emergere la variabilità, sincronica e diacronica, dei modelli prescritti, dei ruoli riservati alle donne e delle tipologie di relazioni intessute, sulla base di molti altri fattori e circostanze, tra cui la provenienza e la condizione di classe. Si realizzò la necessità di approfondire tale complessità e, al contempo, si comprese l’insufficienza di una ricostruzione della storia delle donne intese come gruppo omogeneo. Il rischio era insomma quello di creare una storia compensativa, con scarsi margini di incidenza sull’obiettivo di cambiare le narrazioni costituite e, dunque, di mettere in discussione i rapporti di potere. Alcune autrici misero a tema la necessità di allargare lo sguardo, di andare oltre la messa a fuoco della presenza delle donne nel passato, concentrandosi sulla dinamica di costruzione delle relazioni di potere – tra queste ebbero un ruolo fondamentale Joan Kelly-Gadol, Natalie Zemon Davis, Joan Scott e, in Italia, Gianna Pomata[6]. Si iniziò a superare un orientamento delle ricerche fondato sulla differenza tra i sessi e si cominciò a indagare i significati di volta in volta attribuiti a questa differenza. Il punto non fu più l’esistenza o meno di un’identità biologica femminile o maschile ma cosa culturalmente e politicamente si era costruito intorno a esse e con quali obiettivi: guardando a tali significati si rese possibile produrre un ripensamento delle strutture sociali, del potere, dei simboli e delle periodizzazioni. La categoria del genere fu il dispositivo teorico per assumere tali premesse, lo strumento principale per analizzarle all’interno di una molteplicità di ambiti di ricerca.

La storia delle donne e di genere è uno strumento essenziale per decostruire gli argomenti dell’ideologia gender, incentrata su distinzione biologica e “naturalità” dei ruoli, della famiglia e degli orientamenti sessuali. Infatti, la ricerca storica ha svelato come nel corso del tempo, all’interno di contesti radicalmente differenti, le persone abbiano costruito famiglie diverse, fatte di una donna o di un uomo con i figli, di più coppie, di persone con legami di sangue e non, di figli non biologici, di relazioni non eterosessuali e via dicendo. Allo stesso modo, si è rivelata l’esistenza di corpi e posture, di estetiche e pratiche non conformi: dinamiche che non sono proprie della contemporaneità ma che – verrebbe da dire “naturalmente” – hanno attraversato la storia. Nel terzo capitolo Schettini ce ne mostra alcune tracce, raccontandoci di moltissime esperienze che hanno osteggiato e superato i confini tra i generi. Si tratta di episodi apparentemente “piccoli” ma che hanno scosso cronache nazionali e internazionali, scomodato illustri scienziati e costituito un cruccio per decoro e pubblica sicurezza – in Italia soprattutto nell’Ottocento. Non c’è ragione per credere che tutto ciò non esistesse o esistesse in forma e numeri radicalmente meno visibili prima dell’Ottocento: i caratteri di novità, piuttosto, sono nel rilievo politico acquisito da sesso e genere. Nella seconda metà di quel secolo si decise di fissare le fondamenta della nuova nazione assegnando una funzione essenziale di stabilità alla famiglia, alla separazione tra la sfera pubblica legata alla cittadinanza maschile e la sfera privata legata alla domesticità femminile[7].

Un ulteriore contributo – in termini teorici e di pratiche politiche – alla decostruzione di questi assunti “naturali” è emerso grazie ai movimenti di liberazione sessuale negli anni Ottanta del Novecento. La prima sistematizzazione teorica dal valore politico e programmatico della contestazione del binarismo di genere fu elaborata da Teresa de Lauretis a inizio anni Novanta: quest’ultima introdusse nel dibattito accademico la Queer theory, riprendendo un termine diffuso come insulto negli ambiti omosessuali nell’Ottocento e poi ripreso come categoria di identificazione sociale e politica, per introdurre nuovi elementi di complessità e sottolineare che non tutte le forme di sessualità si definivano entro logiche binarie, in opposizione all’eterosessualità, o in forme stabili. Gli studi si sono poi sviluppati ponendo a tema come etnia, provenienza sociale determinassero esperienze diverse e conflittualità anche all’interno di macro categorie identitarie (“gli omosessuali”, ad esempio)[8]. Una delle studiose che ha avuto più seguito in questi anni di diffusione della teoria queer è stata Judith Butler: la sua sistematizzazione teorica implicò una opposizione al binarismo meno focalizzata sugli orientamenti sessuali e che poneva al centro i significati attribuiti alle differenze e alle identità sessuali. Secondo l’autrice le identità di genere sono intese come performance, ossia come ripetizioni e interpretazioni di norme e aspettative sociali. Rompere le performatività normative attraverso atti corporei sovversivi, come travestimenti, travisamenti, confusioni di genere, diventa in questo senso uno strumento rivoluzionario contro il sistema binario[9].

Dunque, in conclusione, seguendo il ragionamento di Schettini e le posizioni esposte fin qui, la centralità contemporanea della questione gender appare come prodotto di processi opposti: da un lato la lunga durata del progetto di costruzione nazional-familista proprio delle destre e del cattolicesimo conservatore, legato all’idea di nazione come comunità etnica; dall’altro, la presenza e l’agire di esperienze e culture politiche – anche diverse e in contrasto tra loro – che hanno mosso e continuano a muovere una critica radicale a questo progetto, disattendendo attraverso la violazione, sia estetica sia politica, della costruzione di confini tra i generi[10]. Si tratta, ad ogni modo e benché in forme diverse, di una questione di potere, di un conflitto tra modelli dominanti e parti sociali, posizionamenti, pratiche e identità non riconosciute e discriminate. In questo senso è senz’altro augurabile che l’ideologia gender sia un’ideologia pericolosa.


[1] Lorenzo Bernini, La teoria gender, i negazionisti e la fine della differenza sessuale, «About gender. International journal of gender studies», 19, 2016, pp. 367-381; Sara Garbagnoli e Massimo Prearo, La crociata antigender, Kaplan, Torino 2018.

[2] Judith Butler, The end of sexual difference?, in Ead., Undoing gender, Routledge, Londra-New York 2005.

[3] Queste, ad esempio, le parole di Giorgia Meloni durante un intervento agli Stati Generali delle Famiglie nel 2022: «Tutta la vicenda del gender non ha come obiettivo prioritario la lotta alle discriminazioni che, ovviamente, è un grande tema. Mi pare che l’individuo indifferenziato al quale si tende alla fine non sia così indifferenziato, è maschio. A me quello che sembra è che il problema sia l’identità di donna e di madre, il grandissimo valore simbolico che ha la maternità. E questo è un problema perché intanto non capisco come si faccia a non comprendere che alcune scelte impattano sui diritti delle donne. Noi parliamo di lavoro femminile, sì, ma se domani non c’è più l’identità delle donne il lavoro femminile e gli incentivi al lavoro femminile da chi vanno?».

[4] Angiolina Arru e Margherita Pelaja, L’io diviso delle storiche, «Memoria. Rivista di storia delle donne», 9, 1983, pp. 7-19, p. 8.

[5] Barbara Ehrenreich e Deirdre English, Witches, midwives and nurses: a history of women healers, Feminist Press, Londra-New York 1973; Anna M. Bruzzone e Rachele Farina, La resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, La Pietra, Vicenza 1976; Franca Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile in Italia: 1892-1922, Mazzotta, Milano 1974; Joan Kelly-Gadol, Did women have a renaissance?, in Renate Bridenthal e Claudia Koonz (a cura di), Becoming visible: women in European history, Houghton Mifflin, Boston 1977, pp. 137-164; Susan Brownmiller, Against our will: men, women and rape, Simon&Schuster, New York 1975.

[6] Joan Kelly-Gadol, Methodological implications of women’s history, «Signs», 4, 1976, pp. 809-823; Natalie Zemon Davis, Women’s history in transition: the European case, in «Feminist Studies», 3, 1976, pp. 83-103; Joan Scott, Gender a useful category of historical analysis, «American Historical Review», 91(5), 1986, pp. 1053-1075; Gianna Pomata, La storia delle donne, una questione di confine, in Giovanni De Luna (a cura di), Il mondo contemporaneo, X, Gli strumenti della ricerca 2. Questioni di metodo, La Nuova Italia, Firenze 1982.

[7] Questa ratio trovò piena espressione nel Codice Civile del 1865, che fissava la posizione di subalternità e incapacità giuridica delle donne, escludendole dal voto, dagli impieghi pubblici, dalla potestà sui figli, vincolandole all’autorizzazione maritale (a piacimento revocabile) per «donare, alienare beni immobili, sottoporli a ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, costituirsi sicurtà, transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti». Inoltre, il marito era chiamato a vigliare e amministrare la sessualità delle donne, come indicava il Codice Penale del 1889, che prevedeva il delitto d’onore – eliminato solo nel 1981. Alle donne fu poi preclusa larga parte dell’istruzione superiore e furono sospinte nel regime della disparità salariale. Tuttavia, il femminismo aveva già ampiamente ripudiato l’idea di una subordinazione “naturale” delle donne.

[8] Teresa de Lauretis, Queer theory: lesbian and gay sexualities. An introduction, «Differences», 3(2), 1991, 3-18.

[9] Judith Butler, Gender Trouble, Routledge, New York 1990.

[10] Laura Schettini, Il gioco delle parti. Travestimenti e paure sociali tra otto e novecento, Mondadori, Milano 2011.

Scritto da
Olimpia Capitano

Nata a Livorno nel 1994, laureata in Storia e Civiltà presso l’università di Pisa, autrice del libro “Il PCd’I a Livorno. Premesse e linee di sviluppo”. Si occupa di storia politica italiana e di storia sociale del lavoro, con particolare attenzione all’indagine delle strutture e del funzionamento democratico.

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